Il Meglio…Dopo Il Dirigibile! Robert Plant – Digging Deep: Subterranea

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Robert Plant – Digging Deep: Subterranea – Es Paranza/Warner 2CD

Terza antologia da solista per Robert Plant, dopo l’interessante Sixty Six To Timbuktu del 2003, che presentava un intero CD di rarità, ed il box Nine Lives del 2006 che conteneva tutti i suoi album da Pictures At Eleven a Mighty ReArranger. Digging Deep: Subterranea può essere in un certo senso la colonna sonora della serie di podcast dedicati a Plant andati in onda lo scorso anno col titolo appunto di Digging Deep, ed è un doppio CD molto ben fatto con una selezione effettuata dallo stesso ex cantante dei Led Zeppelin e la presenza di tre notevoli brani inediti. Tra i lead singers delle varie band di hard rock degli anni settanta quasi tutti hanno continuato a proporre lo stesso tipo di musica lontani dal gruppo che li ha lanciati, sia quando hanno fatto i solisti (Ian Gillan, Ozzy Osbourne, Ronnie James Dio), sia quando hanno formato altre band (David Coverdale con gli Whitesnake), ma Plant ha quasi voluto prendere le distanze dagli Zeppelin fin da subito, proponendo per tutti gli anni ottanta un pop-rock un po’ di maniera e con sonorità tipiche dell’epoca, passando poi per l’ottimo Fate Of Nations del 1993 che invece era un bel disco di moderno rock d’autore.

Dopo un lungo silenzio, si è reinventato dal 2002 in avanti come esponente di un roots-rock fuso con folk, blues e musica etnica (elementi già presenti in molti pezzi del Dirigibile), sfornando album eccellenti come il pluripremiato Raising Sand, in duo con Alison Krauss, ed il magnifico Band Of Joy (disco dell’anno 2010 per chi scrive), anche se gli ultimi due lavori Lullaby And…The Ceaseless Roar e Carry Fire, pur non disprezzabili, hanno denotato una certa involuzione compositiva. Digging Deep: Subterranea contiene una selezione eterogenea di brani da tutti gli album solisti di Plant, ma solo da quelli: mancano quindi episodi dal divertente EP degli Honeydrippers, dai due lavori usciti negli anni 90 con Jimmy Page (No Quarter: Unledded e Walking Into Clarksdale) e purtroppo, e questa è una pecca, dal già citato disco con la Krauss. L’ascolto del doppio CD è comunque molto piacevole nonostante qualche calo di tensione soprattutto riscontrabile nei brani degli eighties, ed i tre inediti non sono riempitivi ma canzoni di alto livello.

Dulcis in fundo, nei vari pezzi suonano musicisti dal pedigree indiscutibile come lo stesso Page, Patty Griffin, Buddy Miller, Phil Collins, Cozy Powell e Darrell Scott, il tutto condito naturalmente dalla formidabile voce del nostro. Il primo inedito è Nothing Takes The Place Of You (scritta dal musicista di New Orleans Toussaint McCall ed incisa da Plant per il film del 2013 Winter In The Blood ma non pubblicata), una deliziosa slow ballad in puro stile anni 60, con un organo malandrino dietro alle spalle ed una prestazione vocale superba da parte di Robert; Charlie Patton Highway (Turn It Up – Part 1) è un anticipazione dell’imminente album Band Of Joy 2, un sontuoso boogie-blues cadenzato dal riff insistente che lascia ben presagire per il resto del futuro disco. Chiude il trittico di novità una incantevole versione di Too Much Alike, cover di un vecchio rockabilly di Charlie Feathers proposta in duetto con la Griffin, bellissimo e spensierato omaggio ai bei tempi che furono. I brani degli anni ottanta, tra sonorità un po’ finte ed uso insistito del synth, sono quelli che abbassano leggermente il giudizio generale (White, Clean & Neat è davvero brutta), ma ci sono anche momenti degni di nota come la rockeggiante Hurting Kind, il più grande successo di Plant come singolo, le suggestive ballate Ship Of Fools e Like I’ve Never Been Gone e l’elegante e raffinato blue-eyed soul Big Log.

Il riuscito Fate Of Nations è rappresentato da ben cinque canzoni, tra le quali lo splendido folk-rock 29 Palms, tra le migliori canzoni post-seventies del nostro, la fluida ed ariosa I Believe, dedicata al figlioletto Karac tragicamente scomparso nel 1977 a soli sei anni d’età, la zeppeliniana Memory Song ed il blues acustico da brividi Great Spirit, con Rainer Ptacek alla chitarra. Infine ecco il nuovo millennio, con la coinvolgente Rainbow, sorta di “rockabilly etnico”, il sanguigno rock-blues Shine It All Around, la fulgida ballata tra rock e folk Darkness, Darkness e la potente Takamba. Senza dimenticare alcune splendide cover incluse in origine su Band Of Joy, come il traditional blues Satan, Your Kingdom Must Come Down, la magnifica rilettura di Angel Dance dei Los Lobos e la squisita ripresa, tra country e moderno doo-wop, di Falling In Love Again dei Kelly Brothers. Se amate i Led Zeppelin ma non conoscete troppo il Robert Plant solista (ma anche se possedete tutto, visto che i tre inediti valgono l’acquisto), Digging Deep: Subterranea è sicuramente l’antologia che fa per voi.

Marco Verdi

Una Cantautrice Molto Brava, Nel Segno Di Patty Ed Emmylou. Ruthie Collins – Cold Comfort

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Ruthie Collins – Cold Comfort – Sidewalk/Curb CD

Ruthie Collins non è solo una bella ragazza con due splendidi occhi azzurri, ma è soprattutto una brava e dotata songwriter: originaria di Fredonia (piccolo centro nello stato di New York), Ruthie ha esordito nel 2014 con un EP ormai abbastanza difficile da trovare, ma si è fatta notare nel 2017 con il suo album d’esordio Get Drunk And Cry, nel quale rivelava la sua abilità come autrice e cantante dichiaratamente influenzata da Emmylou Harris e Patty Griffin. Ora la Collins pubblica il seguito di quel lavoro, e con Cold Comfort sale decisamente di livello, in quanto ci consegna un album intenso e poetico, pieno di canzoni caratterizzate da uno script di prima qualità ed eseguite in modo eccellente. Il CD è prodotto da Wes Harlee, che suona anche chitarre e tastieer (nonchré produttore anche del disco precedente), e mixato dal noto Ryan Freeland, uno che ha collaborato con artisti del calibro di Bonnie Raitt, Joan Baez, Ramblin’ Jack Elliott, Ray LaMontagne, Joe Henry e molti altri, e suonato benissimo da un manipolo di validi sessionmen di Nashville, decisamente validi anche se non molto conosciuti, ma il resto è tutta farina del sacco di Ruthie, che si dimostra una songwriter profonda, intensa e capace (talvolta sembra persino fragile) nonostante la giovane età.

La Collins è un’artista country, ma non nel senso stretto del termine, in quanto stiamo parlando di una musicista che scrive canzoni che andrebbero bene suonate in qualsiasi modo, usando poi una strumentazione di stampo country per accompagnarle; Cold Comford è un disco di ballate intense e ricche di feeling, e nonostante il susseguirsi di brani dall’incedere lento la noia non affiora neppure per un attimo: questo succede quando le canzoni sono di qualità e sono suonate e cantate nella maniera migliore. Joshua Tree fa iniziare il disco in modo suggestivo, con un’evocativa introduzione di piano e chitarra acustica ai quali si aggiunge subito la voce limpida di Ruthie ed un’orchestrazione non invadente, per un lento dal pathos decisamente alto con un testo ispirato alla tragica morte di Gram Parsons per overdose avvenuta appunto al Joshua Tree Inn. Il tono cambia con Cheater, una country song elettroacustica diretta, piacevole e dal ritmo cadenzato, ma proposta sempre con classe e delicatezza e con una bella steel guitar sullo sfondo; Dang Dallas è un delizioso slow dal motivo toccante e costruito intorno alla voce e a pochi strumenti (con uno splendido finale in crescendo), una canzone davvero bella che conferma la bravura della Collins come autrice.

Hey Little Girl è un midtempo elettrico teso ed affilato ma con il solito gusto melodico, un bel refrain chitarristico in primo piano ed un ottimo assolo di slide, Untold è un’altra ballata eterea e soffusa, dai toni crepuscolari ed un bel pianoforte, così come Bad Woman che è un acquarello gentile ed emozionante nello stesso tempo, tutto giocato sulla voce espressiva della Collins e su una strumentazione parca alla quale gli archi danno un importante contributo. Il mood del disco è malinconico e Ruthie predilige chiaramente le ballate, come la struggente Change, che prosegue sullo stesso tono di Bad Woman (e la voce è perfetta), o la bellissima title track, che ha un accompagnamento più vigoroso ed elettrico e si pone come una delle migliori del lavoro. La cristallina Wish You Were Here è più countreggiante e decisamente dalle parti di Emmylou, You Con’t Remember è pianistica, commovente e cantata in modo appassionato, mentre Beg Steal Borrow chiude il CD con un bozzetto acustico all’interno di un’atmosfera toccante.

Ruthie Collins è una cantautrice da tenere d’occhio: se vi è piaciuto l’ultimo album della Griffin e la Emmylou Harris introspettiva di fine carriera è il vostro pane, un disco come questo Cold Comfort è ciò che fa per voi.

Marco Verdi

Semplicemente Uno Dei Migliori Tributi Degli Ultimi Tempi. VV.AA. – Come On Up To The House: Women Sing Waits

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VV.AA. – Come On Up To The House: Women Sing Waits – Dualtone CD

Il destino di Tom Waits è comune a quello degli altri grandi songwriters del panorama mondiale, da Bob Dylan in giù, è cioè quello di vedere molte delle loro composizioni rifatte da colleghi più o meno famosi con risultati a volte superiori agli originali, talvolta in termini di qualità e più spesso di popolarità e vendite. Tra l’altro Waits in passato non è mai stato tenero verso le sue canzoni rivisitate da altri, pur non negandone l’utilizzo (una volta Glenn Frey disse che il Tom non era per niente contento della versione degli Eagles di Ol’ 55, ma cambiò idea quando vide l’assegno), ma negli ultimi anni si è un po’ ammorbidito, arrivando persino a produrre nel 2001 Wicked Grin, album del bluesman John Hammond composto unicamente da brani dell’artista di Pomona. Sul finire del 2019/inizio 2020 è uscito un tributo molto particolare alle canzoni di Tom, Come On Up To The House, che come fa intuire il sottotitolo Women Sing Waits è formato unicamente da cover incise per l’occasione da donne, siano esse gruppi o soliste.

Waits ha sempre avuto un debole per l’universo femminile, e ha scritto alcune delle più belle canzoni d’amore dagli anni settanta in poi, e questo disco è una sorta di ringraziamento ed apprezzamento che il sesso opposto ha rivolto al cantautore californiano, un tributo bellissimo, intenso e toccante da parte di artiste più o meno note, un disco che suona decisamente unitario nonostante sia stato suonato e prodotto da musicisti diversi. Il produttore esecutivo dell’album è Warren Zanes, ex chitarrista dei Del Fuegos (il quale ha confessato nelle note interne al CD di essere stato introdotto all’arte di Waits da sua madre), che si è occupato di reclutare le artiste per questo tributo, lasciando però loro mano libera sulla scelta di produttore e musicisti (questi ultimi non sono indicati nella confezione, unica pecca del progetto). Come On Up To The House è quindi un disco splendido, con interpretazioni di alto livello emozionale almeno nel 90% dei casi, che forse non superano gli originali (o le cover più famose) ma di certo si avvicinano molto; piccola curiosità: l’album di Waits più “saccheggiato” con ben cinque canzoni su dodici totali è Mule Variations, ovvero il miglior disco di Tom da Rain Dogs in poi, e quindi degli ultimi 35 anni.

Si inizia con il brano che intitola la raccolta, affidato alle Joseph (un trio tutto al femminile di Portland, Oregon): un pianoforte solitario apre la canzone subito assistito da una voce suadente, e la struttura del brano resta invariata tranne che per l’intervento di un violino solista prima, di un quartetto d’archi dopo e di un suggestivo coro verso la fine. Una cover intima e profonda, che dà il via al disco nel modo migliore. Hold On è la più bella canzone di Mule Variations ed una delle migliori del songbook waitsiano, e qui viene affidata alla brava Aimee Mann, che la tratta coi guanti bianchi fornendo un’interpretazione in puro stile rock ballad, inventandosi un arrangiamento soffuso con il ritmo scandito da uno shaker ed una chitarrina elettrica sullo sfondo: grande classe. Molto bella anche Georgia Lee, cantata in maniera emozionante da Phoebe Bridgers (giovanissima cantautrice “indie” di Los Angeles), anche qui con l’accompagnamento ridotto all’osso che fa risaltare la melodia e la bella voce di Phoebe, mentre Ol’ 55 non può prescindere dalla famosa versione degli Eagles, ed infatti la cover delle sorelle Shelby Lynne e Allison Moorer si ispira più a quella della band californiana che all’originale di Tom: le due sisters sono come al solito bravissime e la loro rivisitazione dal sapore western ballad è splendida, tra le migliori del lotto.

Angie McMahon, una songwriter australiana che ha debuttato lo scorso anno, propone una rilettura molto rarefatta di Take It With Me, con la voce in primo piano e sonorità d’atmosfera e quasi ambient, ma con un risultato di grande fascino (anche per la bellezza del brano); Jersey Girl è ormai diventata una canzone più di Bruce Springsteen che di Waits, con il Boss che ciclicamente la riprende dal vivo soprattutto quando si esibisce vicino a casa: qui il pezzo è nelle mani di Corinne Bailey Rae (brava cantante britannica che era anche tra le protagoniste di Joni: The River Letters, splendido tributo del 2007 a Joni Mitchell da parte di Herbie Hancock), che la affronta con bella voce limpida ed espressiva ed una strumentazione molto waitsiana, cioè con base folk-rock quasi classica ma con un marimba in evidenza, per un’altra cover estrememente piacevole (anche se vi confesso che se fossi stato io al posto di Zanes per questo brano avrei pensato a Patti Scialfa, per motivi che non sto neanche a spiegarvi). E’ il momento di due pezzi da novanta, cioè Patty Griffin che emoziona con una sontuosa versione pianisitica di Ruby’s Arms, rilettura da brividi lungo la schiena grazie anche all’interpretazione vocale di Patty, e Rosanne Cash che propone la stupenda Time in puro stile da cantautrice raffinata, alla James Taylor, con i suoni dosati alla perfezione dal marito John Leventhal.

La texana Kat Edmonson, con la produzione di Mitchell Froom, ci regala una curiosa You Can Never Hold Back Spring, riletta come se fosse una jazz ballad alla Billie Holiday con classe, bravura e creatività, mentre la bravissima Iris DeMent riveste la toccante House Where Nobody Lives con una deliziosa patina country, ed anche qui la voce fa la differenza. Downtown Train è uno dei brani più celebri di Waits, grazie soprattutto alla cover di grande successo da parte di Rod Stewart (cover che mi è sempre piaciuta nonostante l’arrangiamento “rotondo”, ma più di recente l’ha incisa anche Bob Seger con ottimi risultati): l’ex Jimmy Eat World Courtney Marie Andrews ne fornisce una versione cadenzata anche se leggermente meno strumentata di quella del biondo cantante scozzese, lasciando però intatta la straordinaria melodia e mettendo in evidenza il pianoforte ed un chitarrone “twang”. Il CD si chiude con Tom Traubert’s Blues (della quale ricordo una bella versione dei Pogues), affidata alla band di Los Angeles The Wild Reeds (composta per quattro quinti da donne), una cover discreta che però manca un po’ di pathos, un finale in tono minore che però non inficia affatto il giudizio complessivo sul valore dell’album, un tributo splendido che mi sento di consigliare non solo ai fans di Tom Waits ma agli amanti dell’ottima musica in generale.

Marco Verdi

Novita Prossime Venture 9. Un Modo Diverso Per Festeggiare L’Anniversario Dell’Uscita: Shawn Colvin – Steady On (30th Anniversary Acoustic Edition) In Uscita Il 13 Settembre

shawn colvin steady on 30th anniversary acoustic edition

Shawn Colvin – Steady On (30th Anniversary Acoustic Edition) – Shawn Colvin Self-released – 13-09-2019

Non è cosa rarissima, ma sicuramente inconsueta, che per festeggiare l’anniversario dell’uscita di un disco, si decida di inciderlo ex novo, per di più in versione acustica, solo voce e chitarra, quindi per sottrazione, in un album che in origine all’uscita nel 1989 era full band, con la produzione di Steve Addabbo e con un cast ricchissimo di musicisti, in cui spiccavano, tra i tanti, il co-produttore John Leventhal Hugh McCracken alle chitarre, Rick Marotta alla batteria, Bruce Hornsby al piano, Soozie Tyrell al violino e Suzanne Vega alle armonie vocali. Steady On poi nel 1991 vinceva il Grammy come Miglior Disco di Folk Contemporaneo, il primo di 3 vittorie totali, a fronte di 10 nominations cimplessive. Ricordo che in quegli anni, nel 1993, la Colvin venne anche a Milano per un brillante Showcase, sempre solo voce e chitarra, al Sorpasso, un piccolissimo locale che ormai non esiste più da decenni. A cavallo tra il secondo album Fat City e il disco Cover Girl, quello tutto dedicato a brani di altri artisti.

In effetti Shawn aveva già pubblicato un album a livello indipendente in precedenza e nel 1995 era uscito anche un Live registrato nel 1988. Tutto perché la nostra amica, anche se non si dovrebbe mai dire l’età delle signore (ma non è un segreto), veleggia per i 64 anni, e quindi il disco di esordio uscì quando aveva già 33 anni. Da allora ha pubblicato parecchi album sempre di buona qualità, ma negli ultimi anni anche lei ha dovuto piegarsi alla distribuzione in proprio, nel 2018 un CD-R di canzoni per l’infanzia The Starlighter e ora la nuova versione acustica di Steady On. Nel 2016 era uscito Colvin & Earle, un disco in coppia con Steve Earle https://discoclub.myblog.it/2016/06/21/buon-debutto-nuovo-duo-shawn-colvin-steve-earle-colvin-earle/e l’anno precedente il secondo disco di cover Uncovered https://www.youtube.com/watch?v=Y6ImwSLUJIM.  Mentre a livello di collaborazioni con altre colleghe, solo in tour, c’era stato l’ottimo Three Girls And Their Buddy, insieme a Patty Griffin Emmylou Harris, accompagnate da Buddy Miller, spettacolo apparso nel 2010 in un episodio della serie Soundstage della PBS:

Come risulta dai nuovi video che trovate all’interno del Post comunque la nostra amica porta i suoi anni con nonchalance, grazie anche all’eccellente lavoro del suo parrucchiere che le ha creato delle tinte brillanti, soprattutto quella nera del primo video, dove appare (quasi) identica a 30 anni fa. Scherzi a parte l’album sembra molto valido ed interessante anche in questa veste sonora più intima, la voce è sempre bellissima. I brani, gli stessi di allora, li trovate qui sotto, dopo il video.

Tracklist
1. Steady On
2. Diamond In The Rough
3. Shotgun Down The Avalanche
4. Stranded
5. Another Long One
6. Cry Like An Angel
7. Something To Believe In
8. The Story
9. Ricochet In Time
10. The Dead Of The Night

Il CD uscirà il prossimo 13 settembre.

Bruno Conti

Antologie Che Sembrano Dischi Nuovi: Parte 2. Annie Keating – All The Best

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Annie Keating – All The Best – Appaloosa/IRD CD

Il compito delle antologie discografiche è quello di riepilogare la carriera di un artista, o un singolo periodo di essa, sia a beneficio dei fans che dei neofiti, ma è a volte anche quello di far conoscere l’artista stesso, specie quando si parla di un musicista poco o per nulla noto, ed i cui lavori sono difficili da reperire. Ricordo ancora oggi l’effetto che mi fece qualche anno fa All That Is, greatest hits (si fa per dire) del cantautore canadese Garnet Rogers, che non conoscevo: il suo ascolto mi aveva colpito a tal punto che mi accaparrai la sua discografia competa in una botta sola, disponibile allora soltanto sul suo sito. Un effetto analogo potrebbe averlo questo All The Best, compilation antologica della cantautrice di Brooklyn Annie Keating, che dopo una carriera di quindici anni praticamente nell’anonimato e con dischi totalmente autogestiti, è approdata all’etichetta nostrana Appaloosa, che ha messo a punto questo bellissimo riepilogo in quindici brani dell’autrice newyorkese: solo una canzone del disco è incisa appositamente per il progetto, ma il fatto che Annie fosse una illustre sconosciuta fa sì che anche il resto del CD suoni nuovo alle nostre orecchie.

E la Keating dimostra che non meritava di sicuro di restare nell’ombra, in quanto ci troviamo di fronte ad una cantautrice nel senso più puro del termine, con un gusto innato per le melodie dirette e di impatto immediato, e la cui musica è ricca di spunti folk e country, anche se il rock non è certo estraneo; in più, la nostra è dotata di una voce non eccessivamente potente, ma personale ed espressiva: i paragoni più diffusi sono quelli con Gillian Welch e Lucinda Williams, ma io non ci trovo granché di nessuna delle due (forse più la prima, se proprio devo scegliere), al limite mi viene in mente una come Nanci Griffith, che però è più country, oppure Patty Griffin. Canzoni come l’iniziale Ghost Of The Untraveled Road, una ballata folk vibrante e cantata col cuore in mano, non si scrivono per caso, come neppure la successiva Belmont, bellissimo brano elettroacustico di chiaro sapore roots, contraddistinto da un ritmo vivace e da una melodia toccante, e guidato da una splendida fisarmonica (il libretto, che contiene tutti i testi, purtroppo non menziona i musicisti). Che dire di It Already Hurts When You Leave, una luccicante ballata cadenzata e dal motivo decisamente evocativo, grande musica ma anche classe notevole; Forever Loved è un delicato pezzo tra folk e country, puro e limpido, In The Valley vede Annie in compagnia della sua chitarra e pochi altri strumenti (tra cui un languido violino), ma il pathos non manca di certo, Sweet Leanne è magnifica, una folk ballad da brividi, tra le migliori del CD, profonda e struggente.

Se devo fare un paragone maschile, potrei scomodare Chip Taylor, in quanto Annie si affida anch’essa ad arrangiamenti semplici, e ha pure lei la capacità di creare melodie toccanti con pochi accordi. Con Storm Warning la Keating dimostra che ci sa fare anche con sonorità più elettriche e ritmi più sostenuti: un rock’n’roll di stampo roots, trascinante ed eseguito in scioltezza. Non le cito tutte, voglio lasciarvi il piacere di scoprirle ad una ad una, anche se non posso fare a meno di nominare la deliziosa Sting Of Hindsight, la pura e cristallina Coney Island, tra le più belle in assoluto, e la fulgida ballata elettrica You Bring The Sun. Una menzione poi per il brano finale che dà il titolo all’antologia, l’unico nuovo di zecca ed anche unica cover: si tratta infatti della nota canzone di John Prine (uno degli eroi di Annie), una delle migliori del grande songwriter, riletto in maniera splendida: grande brano ed ottima versione, ma non avevo dubbi.

E’ venuto il momento di scoprire Annie Keating e le sue bellissime canzoni, e All The Best è il modo migliore per farlo.

Marco Verdi

Il Vecchio Sciamano Si E’ Un Po’ Perso Per Strada! Robert Plant – Carry Fire

robert plant carry fire

Robert Plant – Carry Fire – Nonesuch/Warner CD

Il titolo del post mi è venuto in mente un po’ osservando la copertina di questo nuovo album Carry Fire, un po’ pensando all’immagine che Robert Plant si è costruito ultimamente, cioè di paladino di un tipo di musica tra folk e blues desertico pesantemente contaminata da sonorità etnico-esotiche, ed abbastanza lontano da un certo rock classico che con i Led Zeppelin aveva contribuito a creare. In realtà il lungocrinito cantante nel corso della sua carriera solista ha quasi sempre preferito prendere le distanze, musicalmente parlando, dal gruppo che lo ha reso celebre, soprattutto negli anni ottanta con una serie di album votati ad un rock moderno e spesso radiofonico, mentre nei nineties (dopo l’ottimo esercizio di pop-rock adulto Fate Of Nations) si è ravvicinato al vecchio partner Jimmy Page per un eccellente live (No Quarter) ed un disco di materiale originale inferiore alle attese ma piacevole (Walking Into Clarksdale). La cosa deve avergli fatto bene, in quanto nel nuovo millennio Plant ha pubblicato i suoi migliori lavori post-Dirigibile, i solidi Dreamland e Mighty Rearranger e gli splendidi Raising Sand in coppia con Alison Krauss (un album che ha avuto un successo clamoroso, di critica e pubblico) e Band Of Joy, disco dell’anno 2010 per il sottoscritto (con la “fidanzata” dell’epoca, la bravissima Patty Griffin). Il suo penultimo lavoro, Lullaby And The Ceaseless Roar, non mi aveva però entusiasmato, un disco nettamente più involuto dei precedenti, con un mix di sonorità un po’ confuso ed una serie di canzoni non particolarmente ispirate, a mio parere senza una direzione musicale ben precisa.

Un mezzo passo falso ci può stare per carità, ma il problema è che secondo me questo nuovo Carry Fire, pur essendo nell’insieme più riuscito, soffre degli stessi problemi del suo predecessore. Ormai Plant non è più un cantante rock nel senso classico del termine, usa il rock ma come parte di un insieme di sonorità che vanno dal blues, al folk, sino alla musica araba ed orientale, ma il problema principale di Carry Fire non è lo stile, ma una carenza generale di ispirazione nel songwriting: in poche parole, non è un brutto disco, ma è comunque un lavoro che si regge più sul mestiere e l’esperienza del suo titolare che su effettivi meriti musicali. Come già per l’album precedente, Robert è accompagnato dai Sensational Shape Shifters (John Baggott, Justin Adams, Billy Fuller, Dave Smith e Liam Tyson), i quali, oltre a dividere con Plant i compiti di songwriting, suonano un gran numero di strumenti, sia classici che “esotici” (più che altro percussioni come il bendir, il djembe ed il t’bal, o a corda come l’oud, una sorta di mandolino di origine persiana); ci sono anche degli ospiti, tra cui il folksinger inglese Seth Lakeman e la front-woman dei Pretenders, Chrissie Hynde. Il pezzo di apertura del CD, The May Queen (personificazione tipicamente britannica della festa del Primo Maggio, già citata da Plant nel testo di Stairway To Heaven), è un brano diretto e forte nonostante la predominanza di strumenti acustici, chitarre suonate con vigore, gioco di percussioni molto pronunciato ed un’aura tra folk e misticismo, con la voce di Robert che funge quasi da raccordo tra le vari parti strumentali: affascinante.

New World è più rock, con i suoi riff elettrici, il ritmo cadenzato ed il nostro che intona un motivo decisamente più immediato: non avrà più la potenza vocale di una volta (e forse è proprio per questo che non vuole sentir parlare di reunion degli Zeppelin, *NDB Ma i pezzi del gruppo dal vivo li fa sempre, come vedete nel video della BBC  che trovate sopra), ma il carisma è rimasto intatto; Season’s Song è una dolce ballata acustica cantata con voce quasi fragile, con una parte centrale strumentalmente elaborata ed un inatteso ma gradevole alone pop. Per contro Dance With You Tonight ha leggere influenze orientaleggianti, anche se il brano sembra sempre sul punto di evolversi in qualcosa di diverso ma ciò non accade mai, la mossa Carving Up The World Again è una via di mezzo tra blues, musica tribale e pop-rock, ben suonata ma senza una linea melodica precisa, così come A Way With Words, dal tempo lentissimo, drumming ossessivo ed un pianoforte un po’ sinistro, con Plant che non si capisce bene dove voglia andare a parare. Tre canzoni buone e tre così così, una discontinuità che era presente anche in Lullaby And The Ceaseless Roar e che prosegue con le due canzoni che seguono: Carry Fire è un brano pieno di fascino con una splendida chitarra flamenco suonata però con uno stile arabeggiante, brano però vanificato dal pezzo che segue, la ripetitiva e monotona Bones Of Saints, ancora con elementi mediorientali (ma con una bella chitarra). Keep It Hid ha una linea di basso molto evidenziata, per un pezzo bluesato e desertico, uno stile nel quale il nostro sguazza che è un piacere; chiudono una cover confusa e sovrastrumentata di Bluebirds Over The Mountain (una vecchia canzone incisa in passato anche dai Beach Boys), che la presenza della Hynde non riesce a raddrizzare, ed una melliflua ed insinuante Heaven Sent, ancora dall’aura mistica ma con più forma che sostanza.

Spero che Robert Plant, se ne avrà voglia, torni presto a fare dischi meno elaborati dal punto di vista sonoro e con canzoni più immediate (che non vuol dire commerciali): ripeto, non è un brutto disco questo Carry Fire ma, per parafrasarne il titolo, qui di fuoco non se ne vede molto.

Marco Verdi

Il Diavolo Secondo Ray Wylie Hubbard – Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can

Ray Wylie Hubbard Tell the Devil

Ray Wylie Hubbard – Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can – Bordello Records/Thirty Tigers

Parafrasando un vecchio detto “non c’è due senza tre”, dopo The Grifter’s Himnal (12), e The Ruffian’s Misfortune (15) http://discoclub.myblog.it/2015/04/17/grande-vecchio-texano-doc-ray-wylie-hubbard-the-ruffians-misfortune/ , torno a parlarvi sul Blog di Ray Wylie Hubbard, un vero musicista di culto della scena musicale texana, in occasione dell’uscita di questo nuovo lavoro, dal titolo lunghissimo che per comodità abbreviamo in Tell The Devil…, il diciassettesimo della sua carriera (se non ho sbagliato i conti con il pallottoliere). Proseguendo nelle tematiche degli ultimi lavori e miscelando sempre più sacro e profano, Hubbard porta negli studi di registrazione The Zone a Dripping Springs, Texas, un manipolo di validi musicisti, a partire da suo figlio Lucas Hubbard (sempre più bravo) alle chitarre elettriche, Kyle Schneider e Joseph Mirasole  che si alternano alla batteria, l’ottimo Jeff Plankenhorn a dobro, lap steel guitar e mandolino (e ottimo cantautore anche in proprio), Pat Manske al basso, e il grande Bukka Allen (BoDeans, Joe Ely, Alejandro Escovedo e figlio di Terry Allen) all’Hammond B3, con l’aggiunta di validi “turnisti” locali tra i quali Edward Braillif, Billy Cassis, Jack O’Brien, Lisa Mednick Powell, Curtis Roush e con il produttore Mike Morgan, che è anche il proprietario degli studi di registrazione, i quali, tutti insieme a Ray Wylie (armonica, chitarra acustica e elettrica, e voce), danno vita ad undici brani “diabolici”, con la partecipazione non secondaria di ospiti vocali di grande valore come Lucinda Williams, Patty Griffin, Eric Church; canzoni intrise come al solito di rock, blues, e sonorità voodoo, con una spruzzata abbondante di country texano.

I sermoni si aprono con la spettrale God Looked Around (ispirata dal Libro Della Genesi), con un bel giro di armonica che la caratterizza, a cui fanno seguito lo sporco blues di Dead Thumb King, le sonorità voodoo di una ossessiva Spider, Snaker And Little Sun, un tributo a “Spider” John Koerner, Dave “Snaker” Ray e Tony “Little Sun” Glover,  passando poi per lo sferzante groove di Lucifer And The Fallen Angels, un lungo viaggio letterale nell’inferno, che Hubbard dice essere stata ispirata da Turn the Page di Bob Seger. Con l’acustica Open G Hubbard dimostra di essere anche un chitarrista slide di prim’ordine, mentre la tagliente ballata House Of The White Rose Bouquet racconta la storia di un rapporto tra un giocatore e una “Lady”, preludio alla meravigliosa Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can, cantata in duetto con Eric Church e Lucinda Williams (una voce talmente personale che si riconosce anche in punto di morte), con uno splendido finale chitarristico, e che sempre secondo l’autore si rifà alle sonorità di Rod Stewart in Maggie May, con mandolino e organo in evidenza, per riscoprire pure le sonorità “psichedeliche” in The Rebellious Sons, suonata al meglio con i Bright Light Social Hour (una poco conosciuta rock band “psichedelica”di Austin). Ci si avvia alle “fiammate” finali con il blues ballabile di Old Wolf  (con tanto di ululato simulato), una sofferta melodia alla Townes Van Zandt come Prayer, e chiudere in gloria questa favola “rock-blues con la delicata In Times Of Cold cantata in duetto con la brava Patty Griffin, con solo accompagnamento di chitarra acustica e armonica.

Questo signore ha superato i settanta (e li dimostra tutti guardando la cover del CD), ma sono anche cinquant’anni che Ray Wylie Hubbard è in pista fra palchi e studi di registrazione, e questo nuovo Tell The Devil….prosegue nel solco degli ultimi due dischi citati ad inizio Post, disco che lo certifica ancora una volta come una figura di culto nell’ambito della scena musicale “texana”, con il suo cocktail affascinante composto da rock, blues e roots music, e per chi lo segue da sempre c’è la certezza che dalla sua penna usciranno comunque eroi e perdenti che non sono né buoni né cattivi, ma che lottano e si dibattono tra il bene e il male. Personaggio difficilmente “etichettabile”, Ray Wylie Hubbard per chi lo conosce ed ama sta diventando sempre più importante disco dopo disco,  ed al quale manca soltanto (e per chi scrive, fortunatamente) la celebrità, che non arriverà neppure dopo questo lavoro, da assaporare comunque con gusto fino all’ultima nota.

Tino Montanari

Ancora Un Concerto/Tributo Spettacolare. Mavis Staples – I’ll Take You There An All-Star Concert Celebration Live

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Mavis Staples – I’ll Take You There An All-Star Concert Celebration – 2 CD + DVD Blackbird Production/Caroline/Universal

L’arte del tributo è una branca della musica pop/rock che si è sviluppata soprattutto nell’ultimo trentennio: ad inizio anni ’80, forse fu Hal Willner, prima con Amarcord Nino Rota (nel 1981) e poi con quelli a Thelonius Monk e alla musica di Kurt Weill, in Lost In The Stars, uscito nel 1985, a sdoganare questo tipo di album multi artisti, dove venivano riprese canzoni celebri estratte dai repertori degli artisti più disparati, a loro volta eseguite, spesso, da musicisti che esulavano dal genere di chi veniva omaggiato. Nel corso degli anni poi si sono moltiplicate in modo esponenziale, raggiungendo numeri ragguardevoli, e per certi versi esagerati (ormai un tributo non si nega a nessuno): dividendosi anche in dischi registrati in studio ed eventi dal vivo speciali dedicati a questo o a quel artista. Però io ricordo già negli anni *70 dischi a tema, per esempio la colonna sonora di All This And World War II, un documentario del 1976, dove alle immagini della Seconda Guerra Mondiale, erano state aggiunte canzoni dei Beatles, incise appositamente per l’occasione (da Elton John Rod Stewart, Richard Cocciante (!), Leo Sayer, Tina Turner, Peter Gabriel, fino ai Bee Gees, che insieme a Peter Frampton saranno anche protagonisti nel 1978 del “tragico” Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band). Sul lato concerti/tributo forse il capostipite fu il Woody Guthrie Memorial Concert tenutosi alla Carnegie Hall il 20 gennaio del 1968, con Bob Dylan, membri della Band,  Pete Seeger, Judy Collins, Arlo Guthrie, Tom Paxton, Ramblin’ Jack Elliot, Odetta e Richie Havens, uscito  anni dopo prima in LP e poi in CD. E per certi versi anche il celeberrimo The Last Waltz potrebbe rientrare tra gli antenati. Poi c’è stata questa escalation, soprattutto dagli anni ’90, per i concerti dal vivo, con Joni Mitchell che è stata una delle prime ad apporre il suo sigillo di approvazione, previa la sua presenza alle serate: ovvero, vi do la mia benedizione, ma per scaramanzia alla mia celebrazione ci vengo anch’io!

 E in effetti, dopo questa lunga introduzione, veniamo al punto: proprio per avallare quanto detto un attimo fa, alla serata per festeggiare i suoi 75 anni è presente anche Mavis Staples, in alcune parti del concerto ripresa tra il pubblico, con bibita in bicchiere in mano (e magari cartone di popcorn) come se fosse una spettatrice compiaciuta, davanti alla televisione, di un bel concerto, dove qualcuno suona e canta la sua musica. Il concerto in tributo a Mavis si tiene nella sua città, Chicago, il 19 Novembre del 2014, qualche mese dopo il suo 75° compleanno, alla presenza di alcuni dei migliori artisti americani (e qualcuno nel frattempo ci ha anche lasciato) riuniti per renderle omaggio. Stranamente, a differenza di altri splendidi tributi dal vivo usciti lo scorso anno tra i tanti (penso a http://discoclub.myblog.it/2016/10/22/devo-averle-gia-sentite-qualche-parte-canzoni-dear-jerry-celebrating-the-music-of-jerry-garcia/ o http://discoclub.myblog.it/2016/08/26/altro-tributo-formidabile-the-musical-mojo-of-dr-john-celebrating-mac-and-his-music/ e ancora a quello http://discoclub.myblog.it/2016/10/21/grande-serata-chiudere-il-cerchio-nitty-gritty-dirt-band-friends-circlin-back/ , e prima ancora quello di Joan Baez) questa volta sono passati quasi tre anni tra la data originale dell’evento e la sua pubblicazione su CD e DVD. Tanto che nel frattempo la Staples ha fatto in tempo a pubblicare, nel 2016, un nuovo ottimo album http://discoclub.myblog.it/2016/02/24/le-ultime-voci-originali-della-soul-music-mavis-staples-livin-on-high-note/ 

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Tornando al concerto la house band sotto la guida del solito Don Was era veramente formidabile, con il trio delle McCrary Sisters, guidate dalla fantastica Regina, la classica ciliegina sulla torta; ecco gli altri musicisti: George Marinelli, Rick Holmstrom (guitar); Jason Mingledorff (saxophone); Bobby Campo (trumpet); Mark Mullins (trombone); Matthew Rollings, Michael Bearden (keyboards); Sonny Emory, Stephen Hodges (drums); Tony Carpenter (congas, percussion), tutti riuniti come una sorta di confraternita di piccoli “apprendisti stregoni” impegnati a creare un suono fatto di mille particolari e tanta passione, colta negli sguardi di intesa e compiacimento dei vari musicisti e degli ospiti che salgono sul palco di volta in volta, per creare quella piccola magia che caratterizza queste serate speciali: Forse ideali da vivere partecipando all’evento, ma anche il prodotto discografico, soprattutto il DVD, dove oltre a sentire, si vede cosa succede, è un ottimo surrogato. Qualcuno, un po’ a sproposito, ha parlato di New Orleans sound, ma questa invece è la vera musica soul, mista al gospel, al R&B, naturalmente al blues, musica “nera” del profondo Sud, ma anche dal Mississippi, da Chicago, da Nashville e da Memphis, e con alcune contaminazioni con la migliore musica roots bianca, sia per la scelta delle canzoni che degli interpreti, e senza dimenticare che il messaggio sociale che veniva veicolato dalle canzoni degli Staple Singers era comunque temperato da una voglia di divertire, di fare spettacolo, che si coglie anche in questa serata celebrativa.

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Prima nel DVD sbirciamo i preparativi dall’Auditorium Theatre di Chicago, mentre scorrono i nomi del cast, in rigoroso ordine alfabetico (anche se per i misteri dell’informatica, sotto la P troviamo i Widespread, di nome e Panic, di cognome, presumo) poi la scaletta del concerto, almeno nella versione Deluxe, si apre con Joan Osborne alle prese con una intensa You Are Driving Me (To The Arms Of A Stranger), un gospel-soul fiatistico che era sull’omonimo album solista di debutto di Mavis Staples, targato 1969 e che uscì per la sussidiaria Volt della mitica Stax, e la cantante di One Of Us, dalla voce roce e vissuta, con una versione tra blues e soul se la cava alla grande. Rotto il ghiaccio arriva subito uno dei brani più divertenti, ritmati e coinvolgenti del concerto, con Keb’ Mo’ che guida le danze di una poderosa Heavy Makes You Happy, con la stessa Mavis in mezzo al pubblico che approva e si diverte, mentre il nostro Kevin intrattiene i presenti con la sua magnifica voce e alcuni deliziosi inserti di chitarra, mentre le McCrary Sisters continuano a scaldare le ugole (già in azione dal brano precedente), e si segnala l’ottimo batterista Sonny Emory, che era quello degli Earth, Wind And Fire della seconda parte di carriera. Ottimo anche Buddy Miller con il mosso country-gospel con “chitarrone” di Woke Up This Morning (With My Mind On Jesus), seguito da una eccellente Patty Griffin alle prese con Waiting For My Child To Come Home, uno scricciolo di donna ma in possesso di una splendida voce. impiegata con classe e feeling in questa ballata di grande spessore. Altra grande voce del country “bianco” è quella di Emmylou Harris, anche lei come la Griffin in modalità country got soul, ma anche gospel, in Far Celestial Shore, i capelli ormai più che “d’argento” sono bianchi ma la voce è sempre magnifica, Matt Rollings lavora di fino alle tastiere e Rick Holmstrom alla chitarra, mentre le McCrary “testimoniamo” sempre di gusto; Michael McDonald porta un poco del rock’n’soul dei Doobie Brothers in una “vivace” Freedom Highway, la voce un filo meno bassa e profonda e più di testa di un tempo, ma la grinta e la forza non mancano, il resto lo fanno la canzone e la band con una versione d’insieme di questo inno degli Staple Singers.

Tra un brano e l’altro ogni tanto appaiono nel video dei commenti dei vari partecipanti sull’importanza della musica di Mavis e della sua famiglia. A questo punto arriva uno dei primi highlight della serata, una versione splendida di People Get Ready, il brano originale degli Impressions di Curtis Mayfield, qui reso in una bellissima versione, a sorpresa, da parte di Glen Hansard, inizialmente cantato con voce piana e trattenuta dal cantante irlandese, poi incita Regina McCrary a cantare a voce spiegata in quella che era la parte di Mavis, lascia spazio a George Marinelli, il chitarrista della band di Bonnie Raitt, che rilascia un delizioso solo e poi canta la seconda parte con forza e impeto in un continuo e glorioso crescendo, ribadisco, splendida. Respect Yourself è stato forse il maggior successo degli Staple Singers, uno si aspetterebbe sfracelli da una versione cantata a due voci da Aaron Neville e dalla stessa Mavis, ma diciamo che siamo nella normalità, con lei che fa da spalla e si scatena solo nella seconda parte, buona, ma potevano fare di meglio. Ottimi invece i Widespread Panic, in una cover di un brano che appariva sull’album Father Father di “Pops Staples” e che la jam band aveva già inciso nel 1997, southern rock soul di grande spessore, con chitarre e voci che ruggiscono alla grande; non male anche Eric Church con una grintosa e bluesata Eyes On The Prize con ampio spazio per Holmstrom, come pure la bella Grace Potter, che dal vivo rende almeno il doppio rispetto ai suoi dischi, notevole la sua Grandma’s Hands, dall’atmosfera sospesa ed incisiva. Prima, bravo, ma nella norma, si era ascoltato, Ryan Bingham con If You’re Ready (Come Go With Me), mentre Taj Mahal è sempre una forza della natura nella poderosa cover di Wade In The Water, con il classico call and response insieme alla sorelle McCrary, ed è sempre un piacere vedere ancora una volta un ispirato Gregg Allman alle prese con una deliziosa Have A Little Faith,la voce ancora forte e decisa nel 2014 e Marinelli e Holmstrom che fanno la parte di Haynes e Trucks negli Allman Brothers.

Poi inizia la serie dei duetti e qui si gode: Turn Me Around vede a fianco di Mavis Staples, una Bonnie Raitt a tutta slide e ugola, mentre tra i background vocalists, ad avvicendare le sorelle McCrary, appaiono Donny Gerrard Kelly Hogan, e la band è quella abituale dei concerti della Staples, con Holmstrom che rimane alla chitarra, Jeff Turmes al basso, Stephen Hodges alla batteria, e comunque Bonnie e Mavis la cantano veramente alla grande; per non parlare di una corale Will The Circle Be Unbroken cantata a più voci, con Gregg Allman, Taj Mahal, Aaron Neville e Bonnie Raitt, che affiancano la Staples per una rilettura eccellente di questo super classico. Poi tocca ai “giovani”: Wim Butler Régine Chassagne degli Arcade Fire, per una sorprendente versione di Slippery People che ricorda moltissimo l’originale dei Talking Heads, con Mavis incredibilmente a proprio agio anche in questo brano dal sapore più “moderno”, ma a cantanti così puoi far cantare anche l’elenco telefonico e se la cavano comunque alla grande, non è questo il caso perché la versione ha un suo perché. Più intima e raccolta la versione della commovente You’re Not Alone, cantata con Jeff Tweedy dei Wilco, che l’ha scritta oltre ad averle prodotto l’album omonimo, e si porta il figlio alla batteria; mentre una sorta di inno alla gioia è la splendida I’ll Take You There, un’altra tappa di questo viaggio nel “viale dei ricordi”, un n°1 nelle classifiche USA, scritta da Al Bell, “l’inventore” della Stax, una perfetta celebrazione di gioia tra funky, soul e R&B, pubblicata nel 1972, e ancora piacevolissima ai giorni nostri, con Mavis Staples in gran forma che guida la band e il pubblico, con una grinta e una voce ancora spettacolari, mentre Holmstrom riproduce il solo che in teoria era di Pops Staples (ma in effetti nel disco lo suonò il compianto Eddie Hinton). Il gran finale è affidato a una delle più grandi canzoni di tutti i i tempi, The Weight della Band, splendida versione nuovamente corale, con Mavis che guida i suoi amici nei saliscendi sonori di questo brano, con Gregg Allman, Michael McDonald, Joan Osborne, Jeff Tweedy, Eric Church, Wim Butler, che si alternano a cantare i versi di questo capolavoro e tutto il cast che canta a squarciagola il coro, mentre la Staples nel finale, incoraggiata da tutti, fornisce un finale vocale travolgente. Nelle bonus del DVD una emozionante versione folk-gospel di A Hard Rain’s Gonna Fall cantata benissimo da Ryan Bingham, Grace Potter, Patty Griffin Emmylou Harris e un’altra meraviglia della soul music I Ain’t Rasin’ No Sand, cantata da par suo da Otis Clay, in una delle sue ultime apparizioni Live.

Direi che può bastare, splendido tutto, forse come dice qualcuno questi tributi lasciano il tempo che trovano, ma averne!

Bruno Conti

 

“Che Meraviglia!”, Uno Dei Dischi Dell’Anno. Patty Griffin – Servant Of Love

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Patty Griffin – Servant of Love – PGM/Thirty Tigers 25-09-2015

Quando ti ritrovi ad esclamare tutto da solo come un pirla “Che meraviglia”, mentre ascolti un disco, i casi sono due, o ti devi trovare un buon psichiatra oppure il disco che stai ascoltando è veramente bello. E’ quello che è capitato a chi vi scrive ascoltando il brano Made Of The Sun, tratto da Servant Of Love, il decimo album di questa magnifica cantautrice americana, una delle più brave in assoluto attualmente in circolazione, reduce dall’avere appena finito una lunga relazione, musicale e di vita, con Robert Plant, in campo artistico con i Band Of Joy ed in parte con i Sensational Space Shifters, dove agiva come ospite, nell’ambito privato non so e non mi interessa, sono fatti loro (ultima apparizione insieme https://www.youtube.com/watch?v=S35ua-t3op8). Patty Griffin è in circolazione a livello discografico da una ventina di anni (il primo album Living With Ghosts uscì nel lontano 1996) ma ad ogni disco conferma la sua straordinaria bravura, sia come autrice che come interprete, album sempre abbastanza diversi fra loro, con questo Servant Of Love che sembra voler tornare, come dice lei stessa, alle atmosfere musicali più ricercate ed “avventurose” che avevano caratterizzato i primi dischi della sua carriera, fino ad arrivare a Silver Bell, “disco perduto” del 2002, rifiutato dalla sua casa discografica di allora, la A&M, che poi nel 2013 è ritornata sui propri passi, pubblicando l’album, con il mixaggio di Glyn Johns e la produzione di Craig Ross, che ai più è noto come compagno di merende e secondo chitarrista di Lenny Kravitz, ma che con Patty Griffin, da alcuni album, sta facendo un lavoro splendido, cucendo sulle canzoni degli arrangiamenti, ora acustici, ora elettrici, sempre raffinati, anche grazie alla sensibilità della Griffin che nella sua musica inserisce, di volta, elementi folk, blues, atmosfere sottilmente africane ed etniche in questo nuovo CD, probabilmente, inconsciamente o meno, assorbite dalla frequentazione con Plant, ma anche i suoni della grande tradizione americana, del jazz e del gospel ( per esempio in Downtown Church prodotto da Buddy Miller http://discoclub.myblog.it/2010/02/12/patty-griffin-downtown-church-o-forse-no/ ).

Vi dicevo di Made Of The Sun che in teoria è un brano acustico di vecchio stampo folk, una canzone di una semplicità disadorna, un paio di chitarre acustiche arpeggiate con grazia e una melodia malinconica veicolata dalla voce della Griffin, dolce e tenera, ma forte al contempo, sostenuta a tratti dal controcanto di Shawn Colvin, per un risultato che ha la magia che solo i grandi interpreti sanno creare con la loro arte, grazie a degli sprazzi di ispirazione, che in questo album si ripetono in continuazione. Prendiamo l’iniziale Servant Of Love, una intensa canzone https://www.youtube.com/watch?v=zMcDX4KsHEA , solo voce e piano (John Deaderick), un mood ombroso e jazzy, con la voce della Griffin contrappuntata anche dalla tromba con sordina di Ephraim Owens e dal contrabbasso con archetto di  Lindsey Verrill, un brano che ha la potenza delle migliori interpretazioni della grande cantante irlandese Mary Coughlan, con il cantato di Patty che sale e scende, alternando passi sussurrati a veementi aperture vocali. Altro cambio sonoro per Gunpowder, un blues cadenzato e cattivo, con elementi arabeggianti e di nuovo quella tromba in libertà a rendere ancora più inconsueta la vena musicale del brano, o in Good And Gone che racconta nel testo di una sparatoria della polizia (i cosiddetti “police shootings”) , ma qualcuno ci ha visto anche una sorta di allegoria della sua separazione da Plant, altro brano blues, questa volta acustico e intenso, con le chitarre di Ross e David Pulkingham a sostenere il mood “disperato” del pezzo.

Hurt A Little White, con l’elettrica con riverbero del grande chitarrista texano Scrappy Jud Newcombe, un organo in sottofondo e poco altro, vive di una atmosfera sospesa e minacciosa e del cantato passionale della Griffin, mentre 250.000 Miles, di nuovo con Shawn Colvin alla seconda voce, è un brano folk che ci riporta all’austero sound della musica degli Appalachi o alle canzoni glabre di una Gillian Welch, detto della stupenda Made Of The Sun anche Everything’s Changed ha quella allure di mistero e ombrosità che caratterizza molti dei brani di questo album, la voce che si inserisce sul sobrio accompagnamento acustico, con la kalimba di Ralph White sullo sfondo; Rider Of Days è una ballata quasi dylaniana, sempre con i delicati controcanti della Colvin che ne aumentano il fascino e le acustiche a menare le danze, a tratti con brio, There’s Isn’t One Way ha un sound elettrico, quasi rock, alla Band Of Joy, con un cantato più febbrile di Patty che poi ritorna al jazzy-blues della fumosa Noble Ground, con un bel piano in evidenza insieme alla voce squillante della Griffin e alla tromba di Owens. Prima della conclusione ancora Snake Charmer, un folk-blues elettrico quasi alla Led Zeppelin III, la bellissima ballata pianistica You Never Asked Me, una confessione accorata a tempo di musica “I don’t believe in love like that anyway/ I would have told you that if you’d have asked me/ The kind that comes along once and saves everything between a woman and a man.” Devo ribadire “Che meraviglia!”, e non è finita, per la conclusiva Shine A Different Way https://www.youtube.com/watch?v=sxb1Cve-GDc  Patty Griffin imbraccia il mandolino per un’altra deliziosa canzone impreziosita dall’intreccio tra le chitarre acustiche e la fisarmonica affidata all’ottimo John Deaderick, brano che conclude in gloria un album che, secondo il sottoscritto, si candida come uno dei migliori dell’anno.

Esce in teoria il 25 settembre, ma in qualche paese è già stato pubblicato, da notare anche la copertina che riporta delle spirali di semi di girasole che rappresentano il dualismo tra i movimenti dell’uomo e i modelli della natura.

Bruno Conti

Novità Di Settembre Parte V. Los Lobos, Shawn Colvin, Patty Griffin, Colin Linden, Anderson-Ponty Band

los lobos gates of gold

Il 25 settembre tornano anche i Los Lobos con il loro nuovo album di studio Gates Of Gold, etichetta 429 Records negli USA ( qui si possono ascoltare estratti dal disco http://www.429records.com/sites/429records/429details/d_loslobos_gatesofgold.asp e sembra un altro gran disco dei “Lupi”) e Proper per l’Europa, il primo dopo il Live Disconnected In New York City del 2013 che festeggiava i 40 anni di carriera e il precedente disco del 2010 Tin Can Trust, che era stato nominato per il Grammy nel settore “Americana”. Prodotto dalla band al completo, David Hidalgo, Louie Perez, Cesar Rosas, Conrad Lozano and Steve Berlin, contiene undici nuove canzoni:

1. Made to Break Your Heart
2. When We Were Free
3. Mis-Treater Boogie Blues
4. There I Go
5. Too Small Heart
6. Poquito Para Aqui
7. Gates of Gold
8. La Tumba Sera El Final
9. Song of the Sun
10. I Believed You So
11. Magdalena

Questa è la title-track…

https://soundcloud.com/loslobos/gates-of-gold

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Shawn Colvin aveva già pubblicato un album di cover, oltre 20 anni fa, nel 1994, si chiamava Cover Girl, ed era il suo terzo disco, dopo Steady On, il bellissimo esordio e Fat City. Ora esce questo Uncovered che presumo verrà testato nel tour che la Colvin farà da ottobre, ho letto infatti che sarà lei l’opening act della nuova tournée di Don Henley in molte date. Tornando al nuovo disco, uscirà per la etichetta Fantasy del gruppo Universal e questi sono i brani contenuti nel CD, con i relativi autori:

 1. Tougher Than The Rest (Bruce Springsteen)
2. American Tune (Paul Simon)
3. Baker Street Feat. David Crosby (Gerry Rafferty)
4. Hold On (Kathleen Brenan-Tom Waits)
5. I Used To Be A King (Graham Nash)
6. Private Universe (Neil Finn)
7. Heaven Is Ten Zillion Light Years Away (Stevie Wonder)
8. Gimme A Little Sign Feat. Marc Cohn (Jerry Winn-Alfred Smith-Joseph Hooven)
9. Acadian Driftwood (Robbie Robertson)
10. Lodi (John C. Fogerty)
11. Not A Drop of Rain (Robert Earl Keen Jr.)
12. ‘Till I Get it Right (Red Lane-Larry Henley)

Tra gli ospiti, come riportato nella tracklist, David Crosby Marc Cohn. Lei è bravissima, ricordo di averla vista in solitaria, ad inizio carriera, in un concerto promozionale per stampa ed addetti ai lavori al Sorpasso di Milano, un locale che ha avuto una vita brevissima. Il disco è prodotto da Steuart Smith e Stewart Lerman, con lo stesso Smith, che suona chitarre e tastiere, e il basso in American Tune, lasciando lo strumento a Glenn Fukunaga negli altri brani, David Boyle alle tastiere, Mike Meadows alle percussioni e Milo Deering, pedal steel, lap steel e mandola, a completare la formazione la stessa Shawn Colvin che è una eccellente chitarrista acustica.

Non ci sono ancora video del nuovo album ma durante i concerti della crociera Cayamo ha cantato Acadian Driftwood, il bellissimo brano della Band

https://www.youtube.com/watch?v=5F2_PFzC_eQ

patty griffin servant of love

Proprio con Emmylou Harris, Shawn Colvin Buddy Miller, Patty Griffin aveva fatto un tour che si chiamava Three Girls And Their Buddy trasmesso dalla televisione pubblica americana PBS e di cui circolano parecchi bellissimi video https://www.youtube.com/watch?v=KjX7Z6gyvQg. Però oggi parliamo della Griffin, che pubblica il decimo album solo della sua carriera, Servant Of Love, sulla propria etichetta, con distribuzione Thirty Tigers. Come saprà chi legge abitualmente il Blog secondo me Patty Griffin è una delle più grandi cantautrici e cantanti in circolazione in America http://discoclub.myblog.it/2010/02/12/patty-griffin-downtown-church-o-forse-no/ , ormai da parecchi anni non sbaglia un disco e anche il nuovo CD, con il solito Craig Ross alla guida ha tutte le carte in regola per non deludere.

1. Servant of Love
2. Gunpowder
3. Good and Gone
4. Hurt a Little While
5. 250,000 Miles
6. Made of the Sun
7. Everything’s Changed
8. Rider of Days
9. There Isn’t One Way
10. Noble Ground
11. Snake Charmer
12. You Never Asked Me
13. Shine a Different Way

Anche per questo disco non ci sono ancora video promo e allora andiamo a ripescare una delle ultime apparizioni dal vivo di Patty Griffin con l’ex fidanzato Robert Plant…

Stranamente, in alcuni paesi europei, il disco verrà pubblicato, in anticipo, l’11 settembre.

colin linden rich in love

Colin Linden è uno dei prototipi del musicista perfetto: produttore (Bruce Cockburn, Tom Wilson, Colin James, recentemente Lindi Ortega, disco di cui varrebbe la pena parlare più diffusamente), ma anche componente, nonché produttore, della grande band canadese Blackie And The Rodeo Kings, e soprattutto chitarrista (Bob Dylan, Greg Allman, Bruce Cockburn, Emmylou Harris, e Robert Plant e Alison Krauss solo per citarne alcuni), senza dimenticarsi che è un grande artista anche in proprio. Questo Rich In Love che uscirà per la Stony Plain sempre il 25 settembre, dovrebbe essere il tredicesimo album, live compresi, ma antologie e collaborazioni escluse, potrei sbagliare. Comunque tra gli ospiti presenti annovera Charlie Musselwhite, Reese Wynans e Amy Helm, e questi sono i titoli dei brani:

1. Knob & Tube
2. I Need Water
3. Delia Come For Me
4. The Hurt
5. Everybody Ought To Be Loved
6. Rich In Love
7. Date With The Stars
8. And Then You Begin
9. No More Cheap Wine
10. Luck Of A Fool
11. I Made A Promise
12. Paybacks Are Hell

https://soundcloud.com/stony-plain-records/colin-linden-09-no-more-cheap

Blues, country, folk, musica da cantautore, nei dischi di Colin Linden trovate tutto, unito ad una grandissima perizia alle sue chitarre, acustica ed elettrica e spesso anche in modalità slide. Quindi uno che non è solo ricco in amore ma anche nella propria musica, sentire prego…

anderson ponty band better late than never

Questa era una accoppiata che mancava, APB, sta per Anderson Ponty Band, e ancora più nello specifico Jon Anderson, il cantante degli Yes Jean Luc Ponty, il grande violinista jazz-rock francese, non propriamente due giovanotti ma sulla carta potrebbe essere interessante. Il disco si chiama, non senza ironia, Better Late Than Never, esce in formato CD+DVD, con la parte video formata da 10 tracce registrate dal vivo, oltre ad interviste varie. Nella parte audio 14 brani, questi, credo sempre Live:

1. Intro
2. One In The Rhythms Of Hope
3. A For Aria
4. Owner Of A Lonely Heart
5. Listening With Me
6. Time And A Word
7. Infinite Mirage
8. Soul Eternal
9. Wonderous Stories
10. And You And I
11. Renaissance Of The Sun
12. Roundabout
13. I See You Messenger
14. New New World

Nella band, oltre a Ponty e Anderson, troviamo Jamie Glaser alle chitarre, Wally Minko alle tastiere, Baron Browne al basso, Raymond Griffin alla batteria, non nomi di primissimo piano. E anche l’etichetta, Liaison, è la prima volta che la sento nominare. Mah, vedremo, per il momento

Anche per oggi è tutto. Come detto ci sarà un appendice, con altri dischi interessanti in uscita nel periodo, di cui non si è parlato, per vari motivi.

Bruno Conti