Il Primo Disco Da “Top Ten” Del 2020? Terry Allen & The Panhandle Mystery Band – Just Like Moby Dick

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Terry Allen & The Panhandle Mystery Band – Just Like Moby Dick – Paradise Of Bachelors CD

Sinceramente non pensavo che Terry Allen, grandissimo cantautore texano attivo dagli anni settanta, avesse ancora voglia di scrivere ed incidere canzoni alla sua veneranda età (quest’anno sono 77 primavere), anche perché nel nuovo millennio ha dato alle stampe solo un album di materiale nuovo, l’ottimo Bottom Of The World del 2013. E invece Allen (che si dà ancora molto da fare come pittore, scultore ed artista multimediale) non solo ha appena pubblicato quasi a sorpresa un disco nuovo di zecca, Just Like Moby Dick, ma è riuscito a darci un lavoro di qualità eccelsa, probabilmente il suo migliore almeno da Human Remains del 1996 (qualcuno lo ha giudicato il suo album più riuscito dopo il capolavoro Lubbock (On Everything) del 1979, altri addirittura il suo migliore in assoluto: io direi più prudentemente che è meglio di tutto quello che Terry ha pubblicato tra Lubbock e Human Remains e anche dopo, e stiamo parlando di uno che non ha mai sbagliato un colpo).

Just Like Moby Dick ci consegna un artista lucidissimo ed in forma strepitosa, ancora in grado di scrivere canzoni splendide e di interpretarle con un feeling straordinario che non risente per nulla dell’età avanzata: i suoi brani partono sempre dal country per toccare quasi tutti i generi della musica americana (qui forse un po’ meno che in Lubbock), tra folk, rock, blues e ballate, e non mancano i testi tra il surreale ed il sarcastico, altro marchio di fabbrica del nostro. La voce di Terry con gli anni è diventata più profonda (ricorda un po’ quella di Kris Kristofferson), ed in questo disco si fa aiutare spesso e volentieri dall’ugola squillante della brava Shannon McNally https://discoclub.myblog.it/2017/07/12/cosi-brave-ce-ne-sono-poche-in-giro-shannon-mcnally-black-irish/ , che spesso diventa la voce solista, mentre alla produzione non c’è il solito Lloyd Maines (che però suona nel disco, slide acustica e dobro) ma un altro nome-garanzia: Charlie Sexton. Oltre ai tre musicisti appena citati la Panhandle Mystery Band in questo album è completata dal figlio di Terry, Bukka Allen, al piano e soprattutto fisarmonica, Richard Bowden al violino e mandolino, Glenn Fukunaga al basso, Davis McLarty alla batteria e Brian Standefer al violoncello.

Just Like Moby Dick è quindi un disco di canzoni pure, senza le stranezze della ristampa dello scorso anno Pedal Steal + Four Corners https://discoclub.myblog.it/2019/04/12/una-ristampa-interessante-ma-di-certo-non-per-tutti-terry-allen-pedal-stealfour-corners/: solo grande musica. Houdini Didn’t Like The Spiritualists (titolo super) è una splendida ballata dal chiaro sapore texano, limpida e distesa, in cui Terry duetta alla grande con la McNally in un tripudio di chitarre acustiche, slide, fisarmonica e violino ed un ritornello delizioso: un inizio notevole. Abandonitis è più ritmata, elettrica e spigolosa, ma è smussata dalla fisa e dalla slide di Maines, e poi l’incedere del brano tra country e rock è decisamente coinvolgente; Death Of The Last Stripper, scritta da Terry con la moglie Jo Harvey Allen e con Dave Alvin, è un’altra Texas ballad pura e cristallina, di nuovo servita da una melodia di prima qualità e da un’intensità non comune, merito anche della voce carismatica del nostro. All That’s Left Is Fare-Thee-Well prosegue sullo stesso stile, una canzone di confine dal pathos incredibile eseguita a tre voci (canta anche Sexton, che è co-autore del pezzo con Terry e Joe Ely) e con intermezzi strumentali da pelle d’oca, grazie all’onnipresente fisa di Bukka e a Maines, qui al dobro.

La lenta Pirate Jenny alterna strofe intense e profonde in cui Allen quasi parla al solito squisito refrain a due voci, mentre American Childhood è uno dei punti cardine del disco, una sorta di mini-suite in tre movimenti che fa crescere ulteriormente di livello il lavoro, e che inizia con la trascinante Civil Defense, elettrica e bluesata, prosegue con l’incalzante Bad Kiss e termina con la mossa e vibrante Little Puppet Thing, altro brano dallo sviluppo strumentale splendido ed influenze quasi tzigane. La pianistica All These Blues Go Walkin’ By è semplicemente meravigliosa, una ballatona cantata (solo da Shannon) e suonata in modo sontuoso, da brividi lungo la schiena, che contrasta apertamente con la saltellante City Of The Vampires, quasi cabarettistica nell’accompagnamento ma dannatamente seria nell’insieme ed indubbiamente coinvolgente. Il CD si chiude con la languida Harmony Two, una incantevole country song d’altri tempi, direi anni cinquanta, e con Sailin’ On Through, altra irresistibile ballata tipica del nostro, nuovamente intrisa di Texas fino al midollo.

Un grande disco questo Just Like Moby Dick, un lavoro che, pur essendo uscito alla fine di Gennaio, ritroveremo a Dicembre in molte classifiche di fine anno.

Marco Verdi

Un Altro Figlio D’Arte, Però Di Quelli Bravi! Dustin Welch – Amateur Theater

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Dustin Welch – Amateur Theater – Super Rooster CD

Terzo album per Dustin Welch, singer-songwriter nato in Texas ma cresciuto a Nashville che non è altro che il figlio di Kevin Welch, musicista dalla lunga ed impeccabile carriera (e qui mi sono reso conto di quanto il tempo passi inesorabile, dato che ricordo come fosse ieri quando all’inizio degli anni novanta rimasi entusiasta dei primi due album di Kevin, Kevin Welch e Western Beat, ed ora mi trovo a recensire suo figlio). Dustin, che è cresciuto letteralmente a pane e musica, ha esordito nel 2009 con Whisky Priest, al quale ha dato seguito nel 2013 con Tijuana Bible: ora torna dopo ben sei anni di silenzio con questo Amateur Theater, e ci consegna quello che a tutti gli effetti è il suo disco migliore. Dustin evidentemente non è uno che ha fretta di incidere, ma preferisce lasciare crescere le canzoni dentro di lui ed andare in studio quando è veramente pronto; in questi sei anni poi è ulteriormente maturato, e Amateur Theater lo dimostra appieno racchiudendo in poco più di tre quarti d’ora tutte le sue influenze. Sì, perché Welch Jr. non è solo un cantautore con il country nelle vene come il padre (cosa che sarebbe peraltro ben accetta), ma il suo suono nasconde anche elementi rock, blues e perfino jazz, con momenti in cui sembra che la sua fonte di ispirazione principale sia addirittura Tom Waits.

Amateur Theater è quindi un lavoro creativo, nel quale vengono utilizzate anche strumentazioni non scontate, ed al quale hanno collaborato diversi artisti di nome: oltre al padre, che compare in più di un pezzo, troviamo infatti Cody Braun dei Reckless Kelly al violino, il bravissimo John Fullbright all’organo, Bukka Allen (figlio di Terry) al piano e Cary Ann Hearst, la metà femminile dei duo Shovels & Rope, alle backing vocals ed alla scrittura in un pezzo. L’inizio del disco, Stick To The Facts, è quasi spiazzante, con un’introduzione per quartetto d’archi che si trasforma in una rock song cadenzata e contraddistinta dalla voce quasi sgraziata (ma solo in questa canzone) di Dustin, davvero alla Waits: i violini non escono dal brano e fanno capolino qua e là, creando un effetto intrigante. Una tromba dal sapore jazzato introduce Forgotten Child, che nella melodia lascia intravedere tracce dello stile del genitore, anche se l’arrangiamento è quello di un brano urbano e notturno, a differenza di The Player che è rock al 100%, con ritmica pulsante ed uno sviluppo diretto e piacevole, nonostante una linea melodica complessa. Paranoid Heart è una tenue ballata, la prima decisamente da cantautore classico, con un bel accompagnamento basato su chitarra, dobro, piano ed organo ed un motivo molto bello (qui l’influenza del padre è abbastanza palese).

Dresden Snow è introdotta da un suggestivo coro e poi prosegue con il discorso da balladeer iniziato con il brano precedente, mentre Man Of Stone è una canzone attendista e con una certa tensione iniziale, alla quale la combinazione di chitarre, piano, violino e cello dona un sapore particolare. After The Music vede papà Kevin partecipare sia in qualità di autore (come nel pezzo precedente) che come chitarrista e voce di supporto, e non vorrei sembrare banale se dico che il brano, uno slow intenso e profondo, è tra i più riusciti del lavoro; Double Single Malt Scotch è diretta e discorsiva, con una bella apertura melodica favorita da un french horn, e precede la divertente Poster Child, pezzo che si avvicina a Waits non solo per la voce ma anche per l’atmosfera da cabaret mitteleuropeo. Finale con la potente Rock Hard Bottom, una sorta di boogie stralunato e sbilenco ma anche coinvolgente al massimo, la limpida Cannonball Girl, dal bellissimo refrain, e Far Horizon, che inizia come un brano folk d’altri tempi grazie all’uso di banjo e mandolino e poi man mano che prosegue si colora di elementi rock, con la ciliegina della voce solista di Kevin che duetta col figlio.

Sarebbe stato tutto sommato facile e poco rischioso per Dustin Welch seguire le orme musicali del padre, ma con Amateur Theater il ragazzo dimostra di avere personalità ed un proprio suono.

Marco Verdi

Non Solo “Mandriani”, Ma Anche Ottimi Countrymen! Matt & The Herdsmen – Still Sane

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Matt & The Herdsmen – Still Sane – Smith Entertainment CD

Nonostante Jason Isbell affermi che il vero suono di Nashville sia ben altro, è indubbio che la situazione qualitativa della musica country nella capitale del Tennessee sia poco più che desolante, e spesso per trovare dischi che meritino attenzione bisogna rivolgersi ad altre piazze. Il Texas è sicuramente una di queste, e proprio dal Lone Star State provengono Matt & The Herdsmen, un quintetto originario di Edinburg, una cittadina che sorge proprio nella punta più a Sud dello stato: il gruppo ha già un disco alle spalle, Small Town Stories (2014), un album che è stato un piccolo successo a livello locale, e già con questo secondo lavoro, intitolato Still Sane, lo scopo dei cinque è certamente quello di espandere la propria popolarità, ma solo con l’ausilio della buona musica. Sì, perché i ragazzi (Matt Castillo è il leader, voce principale ed autore di tutti i brani, coadiuvato dai “mandriani” Everto Cavazos alle chitarre, Danny Salinas al basso, Ruben Cantu alla batteria ed Omar Oyoque alla steel) fanno del vero country, di quello sano e diretto, con le chitarre sempre in primo piano ed un notevole senso del ritmo, il tutto con l’ausilio solo degli strumenti e delle loro voci, senza diavolerie di studio ad opera di produttori di grido (alla consolle qui c’è David Percefull, uno che ha lavorato con Brandon Jenkins, Jason Boland e Cody Canada, quindi un tipo giusto).

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https://www.youtube.com/watch?v=AYLENCHhYh8

Come se non bastasse, Castillo sa anche scrivere delle buone canzoni, e dunque Still Sane non fatica ad essere uno dei migliori album di country degli ultimi tempi: a conferma di questo, in session troviamo anche i nomi di Kim Deschamps dei Blue Rodeo e di Bukka Allen (figlio di Terry), due che si muovono solo se fiutano buona musica. Il disco si apre con I Don’t Love You Anymore, un rock’n’roll ruspante, energico e robusto, con le chitarre a manetta, gran ritmo ed un ottimo refrain, decisamente vicino alle prime cose di Steve Earle (ed anche con la voce siamo da quelle parti). Hello Heartache è più country, ma fatto alla maniera texana, un honky-tonk elettrico di grande presa, con una guizzante steel ed ancora una ritmica sostenuta, così come Right Hand Man, vivace country-rock tra modernità e tradizione, un tipo di musica che anche uno come Dwight Yoakam approverebbe, davvero godibile.

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https://www.youtube.com/watch?v=vhbDlMEMX1Y

Miss My Chance è più roccata, fin dal riff chitarristico iniziale, ed è uno di quei pezzi che danno il loro meglio se ascoltati in macchina, magari sotto un cielo azzurro, Wait For Me è più gentile, anche se il ritmo è sempre mosso, la steel ricama bene sullo sfondo e spunta anche una fisarmonica, suonata da Allen Jr., mentre Still Sane è puro country, delizioso e diretto, una delle più limpide ed orecchiabili del CD. Molto bella anche She Won’t Cry, un rockin’ country terso e vibrante, sempre con le chitarre in gran spolvero e senza il minimo cedimento a sonorità commerciali; 7th Street è la prima ballata (all’ottavo brano, quantomeno insolito), ma anche qui la strumentazione è ricca e priva di mollezze. Il CD si chiude con Let You Go, altra country song dalla melodia pura e fruibile, la fluida Find Our Love Again e la squisita For You, un country & western elettrico e potente, con una chitarra knopfleriana, degna conclusione di un disco bello, sorprendente e, perché no, inatteso.

Marco Verdi

Il Diavolo Secondo Ray Wylie Hubbard – Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can

Ray Wylie Hubbard Tell the Devil

Ray Wylie Hubbard – Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can – Bordello Records/Thirty Tigers

Parafrasando un vecchio detto “non c’è due senza tre”, dopo The Grifter’s Himnal (12), e The Ruffian’s Misfortune (15) http://discoclub.myblog.it/2015/04/17/grande-vecchio-texano-doc-ray-wylie-hubbard-the-ruffians-misfortune/ , torno a parlarvi sul Blog di Ray Wylie Hubbard, un vero musicista di culto della scena musicale texana, in occasione dell’uscita di questo nuovo lavoro, dal titolo lunghissimo che per comodità abbreviamo in Tell The Devil…, il diciassettesimo della sua carriera (se non ho sbagliato i conti con il pallottoliere). Proseguendo nelle tematiche degli ultimi lavori e miscelando sempre più sacro e profano, Hubbard porta negli studi di registrazione The Zone a Dripping Springs, Texas, un manipolo di validi musicisti, a partire da suo figlio Lucas Hubbard (sempre più bravo) alle chitarre elettriche, Kyle Schneider e Joseph Mirasole  che si alternano alla batteria, l’ottimo Jeff Plankenhorn a dobro, lap steel guitar e mandolino (e ottimo cantautore anche in proprio), Pat Manske al basso, e il grande Bukka Allen (BoDeans, Joe Ely, Alejandro Escovedo e figlio di Terry Allen) all’Hammond B3, con l’aggiunta di validi “turnisti” locali tra i quali Edward Braillif, Billy Cassis, Jack O’Brien, Lisa Mednick Powell, Curtis Roush e con il produttore Mike Morgan, che è anche il proprietario degli studi di registrazione, i quali, tutti insieme a Ray Wylie (armonica, chitarra acustica e elettrica, e voce), danno vita ad undici brani “diabolici”, con la partecipazione non secondaria di ospiti vocali di grande valore come Lucinda Williams, Patty Griffin, Eric Church; canzoni intrise come al solito di rock, blues, e sonorità voodoo, con una spruzzata abbondante di country texano.

I sermoni si aprono con la spettrale God Looked Around (ispirata dal Libro Della Genesi), con un bel giro di armonica che la caratterizza, a cui fanno seguito lo sporco blues di Dead Thumb King, le sonorità voodoo di una ossessiva Spider, Snaker And Little Sun, un tributo a “Spider” John Koerner, Dave “Snaker” Ray e Tony “Little Sun” Glover,  passando poi per lo sferzante groove di Lucifer And The Fallen Angels, un lungo viaggio letterale nell’inferno, che Hubbard dice essere stata ispirata da Turn the Page di Bob Seger. Con l’acustica Open G Hubbard dimostra di essere anche un chitarrista slide di prim’ordine, mentre la tagliente ballata House Of The White Rose Bouquet racconta la storia di un rapporto tra un giocatore e una “Lady”, preludio alla meravigliosa Tell The Devil I’m Gettin’ There As Fast As I Can, cantata in duetto con Eric Church e Lucinda Williams (una voce talmente personale che si riconosce anche in punto di morte), con uno splendido finale chitarristico, e che sempre secondo l’autore si rifà alle sonorità di Rod Stewart in Maggie May, con mandolino e organo in evidenza, per riscoprire pure le sonorità “psichedeliche” in The Rebellious Sons, suonata al meglio con i Bright Light Social Hour (una poco conosciuta rock band “psichedelica”di Austin). Ci si avvia alle “fiammate” finali con il blues ballabile di Old Wolf  (con tanto di ululato simulato), una sofferta melodia alla Townes Van Zandt come Prayer, e chiudere in gloria questa favola “rock-blues con la delicata In Times Of Cold cantata in duetto con la brava Patty Griffin, con solo accompagnamento di chitarra acustica e armonica.

Questo signore ha superato i settanta (e li dimostra tutti guardando la cover del CD), ma sono anche cinquant’anni che Ray Wylie Hubbard è in pista fra palchi e studi di registrazione, e questo nuovo Tell The Devil….prosegue nel solco degli ultimi due dischi citati ad inizio Post, disco che lo certifica ancora una volta come una figura di culto nell’ambito della scena musicale “texana”, con il suo cocktail affascinante composto da rock, blues e roots music, e per chi lo segue da sempre c’è la certezza che dalla sua penna usciranno comunque eroi e perdenti che non sono né buoni né cattivi, ma che lottano e si dibattono tra il bene e il male. Personaggio difficilmente “etichettabile”, Ray Wylie Hubbard per chi lo conosce ed ama sta diventando sempre più importante disco dopo disco,  ed al quale manca soltanto (e per chi scrive, fortunatamente) la celebrità, che non arriverà neppure dopo questo lavoro, da assaporare comunque con gusto fino all’ultima nota.

Tino Montanari

Torna Una Delle Regine Della Moderna “Texas Music”. Robyn Ludwick – This Tall To Ride

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Robyn Ludwick – This Tall To Ride – Late Show Records

Dopo un meraviglioso disco come Out Of These Blues (11), seguito dall’ottimo Little Rain (14) http://discoclub.myblog.it/2014/09/02/ultimi-ripassi-lestate-dal-texas-la-sorella-musicale-lucinda-williams-robyn-ludwick-little-rain/ , secondo chi scrive non era facile riproporsi ai quei livelli, ma Robyn Ludwick, sorella di Bruce e Charlie Robison (una delle più interessanti dinastie delle Texas Music), mi smentisce e si ripresenta con questo quinto lavoro This Tall To Ride (il tutto uscito nell’arco di una dozzina d’anni), affidando la produzione al marito e musicista John Ludwick (dopo gli ultimi due gestiti dal grande Gurf Morlix), per dieci brani di grande passione, che non cambiano di una virgola (è questo, almeno secondo me, è un pregio), il “sound” dei dischi precedenti. This Tall To Ride, inciso negli Zone Recording Studios a Dripping Springs in Texas, vede come sempre il marito John al basso, Rick Richard alla batteria, e come ospiti il polistrumentista Bukka Allen, e il bravissimo chitarrista David Grissom (Storyville, Mellencamp, Joe Ely), dove la signora Ludwick spicca sempre con il suo stile di scrittura, come già detto in passato, certamente influenzato da Lucinda Williams, con le canzoni che raccontano di personaggi dalle vicende tragiche ma anche ricche da grintosi messaggi d’amore, che spesso sono il tema principale delle sue canzoni.

Nella prima traccia l’energica ed elettrica Love You For It si nota subito la presenza della chitarra di Grissom, canzone seguita dalla “sociale” Rock’n’Roll Shoes (dove paragona il sesso con la cocaina), una ballata urbana dove le note delle chitarre e la voce di Robyn la fanno da padrone, per poi passare alle melodie “classicamente country” di Lie To Me, e commuoverci con la meravigliosa Freight Train, giocata tra chitarra elettrica ed acustica, e finire la prima parte con le note di un dolce pianoforte in perfetto Lucinda Williams “style”. Con Bars Ain’t Closin’ (cantata con il consorte) si racconta la storia di un musicista alla fine di una relazione, mentre nella seguente Insider descrive la vita di una donna sottoposta ad abusi, entrambe con testi attuali e importanti, suonate con arrangiamenti grintosi e incisivi, mentre Mexia inizia con una chitarra acustica, per poi svilupparsi in una lunga e dolente ballata dai sapori “texani”, passando poi ancora alla bella melodia rock di Wrong Turn Gone, con la chitarra elettrica di Grissom che “singhiozza” all’unisono con la voce di Robyn, e il resto dei musicisti che lavora di fino come in tutto l’album. Nella parte finale la Ludwick si fa più concreta, come nel personale autoritratto della sofferta Junkies And Clowns o nella conclusiva Texas Jesus, un ottimo country-folk che si sviluppa in un diluvio di pedal-steel, con dei risultati superiori alla media di questo pur ottimo album.

Il senso di questo disco, This Tall To Ride (una colonna sonora perfetta per sognare le infinite strade americane) è una manciata di canzoni che giocano sul dolore dei rapporti di solitudine e speranza per trovare un senso nella vita, e, come già detto, oltre a quello di Lucinda Williams nelle canzoni di Robyn Ludwick affiorano molti altri stili che portano ai nomi di Patty Griffin, Mary Gauthier, Rosanne Cash (le prime che mi vengono in mente): una carriera fatta di una musica intensa, un insieme di canzone d’autore e folk-rock, una donna tosta e ostinata che non ha paura di rivaleggiare con le “signore” sopracitate, certificando che, a parere di chi scrive, della famiglia “canterina” allargata (i fratelli Charlie e Bruce, le nuore Kelly Willis e Emily Erwin (Dixie Chicks), da qualche anno lei è forse la migliore della “dinastia” Robison. Sicuramente a fine anno farà parte del mio “listone”.

Tino Montanari

*NDB. Questa volta lo aggiungo io: manco a dirlo, ancora una volta, il CD purtroppo non è di facile reperibilità nelle nostre lande, e di conseguenza anche abbastanza costoso da recuperare oltre oceano, buona ricerca.

Sembra Sbucato Dal Passato, Ma Che Bravo! Brad Stivers – Took You Long Enough

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Brad Stivers – Took You Long Enough – VizzTone Label               

Brad Stivers, anche dall’abbigliamento con cui si presenta sulla copertina di questo Took You Long Enough, sembra provenire da un’era che è quella del R&R anni ’50/primi ‘60, con retrogusti soul e R&B, e parecchio blues, insomma quella che ai giorni nostri chiamiamo roots music. Il giovane Brad (intorno ai 25 anni, quindi quasi un bambino per il Blues) viene dall’area di Austin, Texas, ma prima ha girato tutti gli Stati Uniti: dalla California al Colorado, passando per lo stato di Washington, e anche una capatina in quel di Memphis, Tennessee. E’ stato finalista all’International Blues Challenge del 2014 ed ora, armato della sua fida Telecaster, esordisce su etichetta VizzTone, la piccola ma agguerrita label di Chicago, completando quindi il giro in musica degli States (e per festeggiare l’evento si è appena fatto anche un cospicuo tour in Spagna, e prima era passato anche da Italia e Svizzera): tra i nomi di pregio utilizzati nell’album vi segnalo l’ottimo Bukka Allen all’organo Hammond B3, la pianista e cantante Emily Gimble e il vecchio lead vocalist degli Storyville Malford Milligan (qualcuno li ricorda?).

10 brani che fin dall’iniziale 2.000 Miles ci rimandano al sound dei primi Blasters, quelli che fondevano rock e blues con una grinta notevole, Brad unisce nella sua figura, la voce potente ed espressiva di Phil e lo stile esuberante da guitar slinger di Dave Alvin, inchiodando subito un assolo da vero virtuoso. Ma pure la successiva You’re Just About To Lose Your Clown, con la presenza del sax ficcante di Mark Wilson e un ritmo errebì ondeggiante e variegato che rende omaggio al maestro Ray Charles, con i tocchi dell’organo di Allen ad insaporire ulteriormente il menu, segnalano l’arrivo di un nuovo talento sulla scena, quando poi inizia a titillare la sua solista si capisce che siamo capitati a bordo per un bel viaggio; a tutto boogie per una poderosa Put It Down, quando il ritmo si fa frenetico, la sezione ritmica pompa di brutto e il “ragazzo” ci dà dentor con la sua chitarra alla grande, le mani volano veramente sul manico della sua solista. E non manca un funky blues turgido come l’ottima title track Took You Long Enough, dove oltre al guitar slinger si gustano anche le nuances della sua bella voce; e in Here We Go Again non manca neppure una languida e deliziosa country ballad, cantata in coppia con Emily Gimble, che accarezza con calore anche i tasti del suo pianoforte.

Per poi scatenarsi nuovamente, questa volta con la presenza di Malford Milligan, in una poderosa, e lunga (oltre i 6 minuti) Nickel And A Nail, un blues con decisi connotati soul & R&B, dove si apprezza la voce di Milligan, grande cantante che mi ero perso per strada, ma che in questa cover di un vecchio brano di O.W. Wright mette in luce tutto il suo talento, mentre Bukka Allen e Stivers curano con gran gusto la parte strumentale, per un brano veramente fantastico. One Night Of Sin è una cover strumentale curatissima del brano di Fats Domino dove Brad gioca con i toni e i volumi della sua Fender https://www.youtube.com/watch?v=APdKG4GIWHI , per poi scatenarsi nuovamente in un poderoso shuflle come la sanguigna Can’t Wait che si avvicina al blues più canonico Chicago style degli artisti VizzTone e poi anche nel gagliardo slow blues della intensa Save Me, di nuovo con la chitarra (e anche la voce) in grande spolvero. E per non farci mancare nulla nello strumentale finale, un’altra cover assai azzeccata, rende omaggio anche allo stile chitarristico di Jimmy Nolen, il vecchio chitarrista di James Brown, in una Cold Sweat tutta “chicken-pickin” e linee soliste fluide e di grande tecnica. Un nome da appuntarsi con cura, veramente bravo questo Brad Stivers https://www.youtube.com/watch?v=sboDCzc_WRU !

Bruno Conti

Reckless Kelly, E Sai Cosa Aspettarti! Il Nuovo Album Sunset Motel

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Reckless Kelly – Sunset Motel – No Big Deal Records/Thirty Tigers

Se qualcuno si chiede il perché del titolo, lo spiego subito. Ultimamente sta capitando abbastanza di frequente che gruppi e solisti che avevano ricevuto buone critiche e di conseguenza acquisito una certa credibilità in un determinato ambito o genere musicale, poi, con improvvisi voltafaccia, hanno mutato il loro approccio stilistico anche in modo drastico. E fin qui non ci sarebbe nulla di male, se il cambiamento è orientato verso un miglioramento della propria musica, ma se è solo, almeno a parere di chi scrive, per meri fini commerciali (anche se vengono quasi sempre addotte ragioni di ricerca ed evoluzione del suono verso nuove frontiere sonore e stilistiche), si possono segnalare a fans e potenziali seguaci queste deviazioni sostanziali dal percorso originale, che non sempre corrispondono ad una evoluzione ma, in alcuni casi, di nuovo parere personale, sono una involuzione. Mi vengono in mente, in tempi recenti, i dischi degli Head And The The Heart, di Bon Iver, dei Needtobreathe, e andando a ritroso, Arcade Fire, Kings Of Leon, Mumford And Sons e molti altri. Si aggiunge un sintetizzatore qui (anche più di uno), un campionamento là, una batteria elettronica, dei coretti spesso insulsi, dei ritmi dance o anche semplicemente del pop molto “lavorato”, che rende gran parte dell’attuale produzione omologata ad un suono standard: tradotto, i dischi sono uguali fra loro, è difficile capire chi sia Tizio e chi Caio, tanto suonano tutti allo stesso modo, e tutti sono felici, più o meno.

Quindi di quei gruppi camaleontici (e nel caso non è inteso come un complimento), su questo Blog leggerete solo a livello di ammonimento, poi ognuno è libero di scegliere cosa ascoltare, ci mancherebbe. E veniamo dunque ai Reckless Kelly: non aspettatevi un capolavoro assoluto e neppure grandi novità, appunto, ma dal quintetto dell’Idaho (dove ritornano solo per l’annuale rimpatriata con i fratelli nella Braun Brothers Reunion, mentre i loro primi passi li hanno mossi a Bend nell’Oregon), basato in Texas da  parecchi anni e che quest’anno festeggia il ventesimo anniversario di carriera, possiamo attenderci del classico Texas Country Rock, della Red Dirt Music, ma anche del roots rock, per quanto il tutto sia irrobustito da ampie iniezioni di classico rock americano chitarristico, energico e volendo, perché no, anche commerciale e forse a tratti scontato, ma genuino e di sani principi. I dischi dei fratelli Willy e Cody Braun probabilmente non brillano per originalità, ma gli elementi citati poc’anzi, magari miscelati in modo diverso, ci sono. Nel precedente album http://discoclub.myblog.it/2013/09/16/rockin-in-texas-sotto-la-luna-reckless-kelly-long-night-moon/, qualcuno aveva letto spostamenti verso un suono più levigato (ma non Tino, estensore delle note di cui sopra), mentre in questo nuovo Sunset Motel ci sono alcuni brani dove il rock si fa più ruggente e chitarristico.

Partiamo proprio da questi: Radio, dove la manopola dell’apparecchio, dopo qualche giro, si ferma su un brano rock e tirato, a tutte chitarre, quella solista di David Abeyta, che è anche il produttore e ingegnere del disco, la ritmica di Willy Braun e in aggiunta, la chitarra di Micky Braun (il fratello minore, leader di Micky And The Motorcars), e pure il bassista Joe Miller aggiunge la sua 6 corde, per cui il suono viaggia con poderosi power chords tra Stones, Black Crowes e il classico rock americano anni ’70, con l’organo dell’ospite Bukka Allen ad aumentare il poderoso muro di suono del brano. E nei vari brani del disco ci sono spesso due chitarristi, Chris Masterson Dusty Schafer, oltre alla pedal steel di Marty Muse: prendiamo un pezzo come Buckaroo, di impostazione chiaramente più country, una energica ballata mid-tempo, con la bella voce di Willy Braun, sempre in piacevole evidenza in tutto il CD, ben sostenuta dalle eccellenti armonie vocali dei vari componenti la band, ma sia la solista in modalità slide, quanto la lap steel e le altre chitarre donano una patina di grinta e vigore, sempre bene accette. Volcano è un altro esempio di classico country-rock di buona fattura, mentre Give It Up è un ulteriore pezzo dove il rock e le chitarre si fanno largo tra le belle melodie del gruppo, con Moment In The Sun che ha addirittura afflati springsteeniani dalla propria parte.

Il resto dell’album è appannaggio di ballate e pezzi country spesso di buon livello: dal Red Dirt country dell’iniziale, eccellente, How Can You Love Him (You Don’t Even Like Him), dove il suono della pimpante armonica di Cody Braun, si insinua tra i fraseggi delle chitarre e dell’organo, ben supportati dalle immancabili armonie vocali. Willy Braun, che scrive tutte le tredici canzoni dell’album, come detto, ha una voce duttile e in grado di padroneggiare sia i momenti più grintosi come le ballate più intime tipo la title-track, dove le chitarre acustiche, il piano e il violino prendono il sopravvento, ma una slide malandrina si insinua comunque tra le pieghe della canzone. Molto piacevole anche The Champ, ancora classico country-rock di marca texana, con una batteria dal suono comunque sempre “umano” , una melodia sentita mille volte (probabilmente, volendolo cercare, il limite maggiore dell’album) ma che si ascolta con piacere. Ancora l’armonica a fornire un’impronta tra delizioso country texano e certe ballate del primo Neil Young, per la lenta e cadenzata One More One Last Time. Anche Forever Today rimane su queste coordinate sonore, forse un pizzico di zucchero di troppo, ma l’aria malinconica giova alla canzone. La pedal steel è la protagonista dell’avvolgente Who’s Gonna Be Your Baby Now, con l’aggiunta di un bel break chitarristico che ne vivacizza la parte centrale. Sad Song About You , con le chitarre elettriche e il violino in bella evidenza, potrebbe ricordare certe ballate squisite degli Avett Brothers.

Chiude un album onesto e di buona qualità l’acquarello elettroacustico di Under Lucky Stars.

Bruno Conti    

Un Altro “Southern-Gothic Psycho-Blues Revival-Punk” One-Man-Band? Lincoln Durham’s Revelations Of A Mind Unraveling

lincoln durham revelations of a mind

Lincoln Durham’s Revelations Of A Mind Unraveling – Droog Records

Come saprà chi legge le mie recensioni, chi scrive è un seguace dell’assunto di San Tommaso, ossia per credere devo vedere, o meglio ascoltare, anzi, io mi aggancerei addirittura al detto “provare per credere” della scuola filosofica Aiazzone/Guido Angeli. Quindi quando mi capita di leggere, in qualità anche di appassionato non onnisciente, di qualche nuovo nome, presentato come la salvezza del rock (o del blues, o di qualsivoglia genere musicale), ove possibile mi piace comunque verificare se questi incredibili giudizi, spesso estrapolati da cartelle stampa mirabolanti, o dai giudizi di qualche musicista amico, spesso citando fuori contesto qualche sua asserzione, sono rispondenti, almeno in parte alla verità. E sempre ricordando che, per fare un’altra citazione colta, “de gustibus non disputandum est”, ovvero ognuno nella musica ci sente quello che vuole. Per cui quando ho sentito parlare delle mirabolanti proprietà di Lincoln Durham, presentato come un “Southern-Gothic Psycho-Blues Revival-Punk One-Man-Band”, secondo le sue parole, oppure in quelle di Ray Wylie Hubbard (che ha peraltro co-prodotto il suo primo EP e il secondo album) che lo presenta come un incrocio tra Son House e Townes Van Zandt, mentre altri, probabilmente credo senza averlo mai sentito, tirano in ballo Tom Waits, John Lee Hooker, Sleepy John Estes, Ray LaMontagne e Paul Rodgers; a questo punto potrei aggiungere Maradona, Frank Sinatra e anche un Robert Plant, che non ci sta mai male. Se citiamo anche il canto gregoriano e quello delle mondine, abbiamo forti probabilità di azzeccare lo stile esatto.

Mister Durham viene dal Texas, tra Whitney e Itasca, secondo la leggenda suona il violino dall’età di quattro anni (ma checché ne dicano altri recensori, nel disco nuovo, non ne ho trovato traccia, come neppure di mandolini e armonica, che però suona dal vivo), oltre che un one man band è anche un “self made man”, almeno a livello musicale, prima come adepto della chitarra elettrica e di Hendrix e Stevie Ray Vaughan, poi scoprendo il blues e il folk, ma di quelli molto “alternativi”, misti a rasoiate punk, ritmiche primitive, citazioni di vecchi autori, il tutto suonato su chitarre sgaruppate, le cosiddette cigar box, spesso in stile slide, con questo risultato, tra il southern primitivo e qualcosa di gotico, che potrebbe avvicinarlo, se dovessi proprio fare un nome, a Scott H. Biram, altro folle che cerca di demitizzare il blues, con iniezioni di hard-rock, punk, voci spesso distorte e ruvide http://discoclub.myblog.it/2014/03/03/tocchi-genio-follia-sonora-scott-h-biram-nothin-but-blood/ , come fa anche Lincoln Durham. Nel disco, rigorosamente senza basso (a parte un brano, il più lungo, Rage, Fire And Brimstone, che è un poderoso boogie-southern-blues, di stampo quasi “normale”, quasi) è presente comunque un batterista in tutti i brani, di solito Conrad Choucroun, con il bravo Bukka Allen che saltuariamente inserisce qualche botta di Moog.

Per il resto 10 brani in tutto, mezzora scarsa di musica, dove Durham ci rivela tutte le perversioni della sua mente, ma anche della sua musica. attraverso una serie di canzoni che attraversano tutti i gradi di un blues deragliante e spesso selvaggio: dal reiterato canto primevo di una Suffer My Name che il blues lo soffre come un uomo posseduto, a Bleed Until You Die, dove la voce qualche parentela vaga con i citati Rodgers e Plant potrebbe anche avercela, e pure la musica, molto più alternativa e senza vincoli sonori o di genere, pur se con una certa “elettricità” nelle evoluzioni minimali della chitarra e della voce, sempre ai limiti. Creeper, con la sua slide guizzante, anche per il titolo, potrebbe ricordare un altro bianco che il blues lo viveva, come Steve Marriott, senza dimenticarsi il boogie di Johnny Winter o di Thorogood; Bones, quasi meditativa, illustra il lato meno selvaggio e più “tranquillo” del nostro Lincoln, con comunque improvvisi squarci di rabbia sonora. Ma Durham tiene anche famiglia e ogni tanto la moglie (?) Alissa aggiunge le sue armonie vocali come nel violento punk-blues di Prophet Incarnate, o nel canto gotico-sudista della conclusiva Bide My Time. Altrove Rusty Knife è un blues di quelli secchi e serrati, con il moog di Allen che cerca di dare profondità sonora alla primitiva Cigar Box Guitar di Lincoln, la cui voce ogni tanto parte per la tangente, mentre i Gods Of Wood And Stone dell’omonima canzone non sono per nulla rassicuranti, tra giri di banjo e ululati alla luna, ancorati dallo stomping thump della batteria di Choucroun. Noose, l’unico episodio dove appare una chitarra acustica, potrebbe essere quell’anello mancante tra Tom Waits e Townes Van Zandt citato, con le sue oscure trame. Mi piace? Boh! Ve lo dirò se trovo il tempo di sentirlo ancora una ventina di volte, di sicuro non è brutto, ma strano sì.

Bruno Conti