Una Doppia Dose Di Rock’n’Roll D’Annata. Flamin’ Groovies – Vaillancourt Fountain/The Blasters – Dark Night: Live In Philly

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Flamin’ Groovies – Vaillancourt Fountain, San Francisco, CA September 19, 1979 – Liberation Hall CD

The Blasters – Dark Night: Live In Philly – Liberation Hall 2CD

Oggi mi occupo di due album dal vivo che hanno diversi punti in comune. Prima di tutto escono entrambi per la Liberation Hall, una piccola etichetta che potrebbe sembrare illegale ma in realtà è autorizzata dai gruppi in questione alla pubblicazione di queste registrazioni (che erano già uscite come LP per gli ultimi due Record Store Day, uno nel 2018 ed l’altro quest’anno – secondo punto in comune). Entrambi i lavori si occupano poi di concerti inediti di diversi anni fa, ed ambedue all’insegna del più puro rock’n’roll. Cominciamo dunque dai Flamin’ Groovies, band di San Francisco che ultimamente sta avendo un ritorno di interesse, vista la reunion di due anni fa con il buon Fantastic Plastic ed il recente box triplo Good Rockin Tonite!, che si occupava della prima fase della loro carriera (la migliore) https://discoclub.myblog.it/2019/04/03/un-cofanetto-ideale-per-riscoprire-una-band-formidabile-flamin-groovies-gonna-rock-tonite/ . Questo Vallaincourt Fountain è un live album registrato nel 1979, tre anni dopo la loro prima reunion avvenuta per mano dell’unico membro originale ancora nel gruppo, Cyril Jordan, insieme ai chitarristi Chris Wilson e Mike Wilhelm ed alla sezione ritmica formata da George Alexander e David Wright. I Groovies, con la loro miscela esplosiva di rock’n’roll, pop e garage sound sono sempre stati un gruppo fatto per suonare dal vivo, ed in questo CD non si smentiscono, fornendo una prestazione ad alto livello, inficiata però dalla qualità di registrazione che si può equiparare a quella di un discreto bootleg, con un suono ovattato e fangoso, i bassi troppo pronunciati e la batteria quasi nelle retrovie, anche se con il progredire della performance le cose un po’ migliorano.

Peccato, perché il concerto merita, diviso in maniera equa tra melodie dirette ed orecchiabili ed una notevole foga chitarristica. Le cover sono presenti in misura addirittura maggiore rispetto ai brani originali, con due brani a testa per Beatles (Please Please Me e From Me To You) e Rolling Stones (19th Nervous Breakdown e Paint It Black), ma non manca anche un tributo ai Byrds (I’ll Feel A Whole Lot Better, ma anche l’originale dei Groovies Between The Lines sembra un pezzo della band di McGuinn), ai Moby Grape (Fall On You, eseguita con energia da gruppo punk), a Big Joe Williams (la celeberrima Baby, Please Don’t Go, suonata tenendo presente la versione dei Them, ma forse con più cattiveria), ai “contemporanei” NRBQ (la conclusiva I Want You Bad) ed un doppio omaggio al rock’n’roll di Chuck Berry con Around And Around e Let It Rock. Solo sei quindi i pezzi dal songbook di Jordan e compagni (e nessuno dal periodo 1969-71), tra i quali segnalerei la bella Tell Me Again, che sembra una outtake di Tom Petty, il pop-beat anni sessanta di All I Wanted e la trascinante Shake Some Action.

Qualità sonora eccellente invece per Dark Night: Live In Philly, doppio CD che testimonia un concerto tenutosi al Chestnut Cabaret di Philadelphia il 19 Luglio del 1986 con protagonisti i fenomenali Blasters. Non è la prima volta che esce un live d’archivio del quartetto di Los Angeles riferito al 1986, ma se in Live 1986 del 2011 Dave Alvin faceva ancora parte del gruppo, in questo concerto estivo aveva già lasciato la band per intraprendere la carriera solista. I tre rimasti, il vocalist e chitarrista Phil Alvin e la favolosa sezione ritmica di John Bazz e Bill Bateman, avevano quindi reclutato Hollywood Fats (al secolo Michael Leonard Mann), un chitarrista anch’egli della città degli angeli con un background blues di tutto rispetto, che vantava collaborazioni tra gli altri con Muddy Waters e Junior Wells (che aveva coniato il suo soprannome), oltre che una breve militanza nei Canned Heat.

E se Alvin (Dave) era per i Blasters il songwriter, direi che Fats riusciva almeno a non far rimpiangere l’Alvin chitarrista, essendo dotato di una tecnica portentosa e di un feeling grande quanto lui: avrebbe potuto avere una lunga e luminosa carriera, se non fosse mancato appena cinque mesi dopo il concerto di cui mi accingo a scrivere a causa di un infarto (causato però dalle droghe), all’età di soli 32 anni. E’ risaputo che i Blasters dal vivo sono sempre stati una macchina da guerra, ed in questa serata non si smentiscono di certo, fornendo una prestazione formidabile in tutti i suoi componenti: di Fats ho già detto, ma Bazz e Bateman non sono da meno, macinando ritmo alla guisa di un treno lanciato, e pure Phil è in gran forma vocale. La serata inizia subito alla grandissima con la strepitosa Marie Marie, suonata come al solito ai mille all’ora, con Fats che dimostra immediatamente di avere il manico e gli altri che gli vanno dietro senza perdere una battuta. Tra i 27 brani totali trovano spazio tutti i classici del gruppo californiano, come Trouble Bound, Long White Cadillac, American Music, la splendida Border Radio e l’altrettanto bella So Long Baby Goodbye, che chiude lo show. Il rock’n’roll la fa naturalmente da padrone, con brani al fulmicotone come No Other Girl, il rockabilly anni cinquanta But I Don’t Want To (sentite la chitarra), la velocissima Crazy Baby, la deliziosa Help You Dream, la cadenzata Hear Me Cryin’, l’eccezionale Blue Shadows ed una scatenata versione di Keep A-Knockin’ di Little Richard. Ma i nostri non sono certo monotematici, e così nel corso della serata non mancano sconfinamenti in altri generi, come lo swamp-rock alla Creedence (Just Another Sunday, Dark Night, la straordinaria Common Man), il country (Never No More Blues, di Jimmie Rodgers, irresistibile), il blues (la saltellante Flat Top Joint, la grintosa Hoodoo Man e lo strepitoso shuffle elettrico Too Tired, con un grandissimo Fats), il country-blues alla Mississippi John Hurt (Keep It Clean) e la pura e semplice rock song di stampo classico (la stupenda Colored Lights,scritta da John Mellencamp).

Splendido concerto (sia pure in assenza di Dave Alvin), da non perdere.

Marco Verdi

E Da Questo Disco In Poi La Sua Carriera Cambiò Passo! Dave Alvin – King Of California 25th Anniversary

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Dave Alvin – King Of California 25th Anniversary – Craft/Universal CD

All’indomani dello scioglimento dei Blasters avvenuto a metà degli anni ottanta, tutti avrebbero scommesso su una fulgida carriera del cantante del gruppo, Phil Alvin, che invece si infilò in un vicolo cieco ed è tuttora fermo a County Fair 2000 del 1994 (anche se ci sono state reunion sporadiche con gli stessi Blasters, con o senza Dave Alvin, ed i due recenti album proprio in duo con il fratello). Quello che invece ha avuto un percorso costante e fatto di album di qualità media sorprendentemente alta è stato proprio Dave, che nei Blasters era il chitarrista e l’autore delle canzoni: mancava la voce, ma fin dal suo debutto solista Romeo’s Escape (Every Night About This Time in Europa) rivelò di possederne una bellissima, profonda e baritonale, completamente in contrasto con quella nasale ed un po’ chioccia di Phil. I due lavori successivi, Blue Blvd. e Romeo’s Escape, erano due ottimi esempi di rock americano al 100%, ma è con King Of California del 1994 che Dave fece il botto (di critica, non di vendite purtroppo), un album davvero splendido, uno dei primi e più fulgidi esempi di quel roots-rock che nei primi anni novanta andava per la maggiore in decisa contrapposizione con l’imperante movimento grunge. Prodotto da Greg Leisz, King Of California vedeva Dave rivisitare alcune pagine del suo passato, proporre una manciata di cover ed anche introdurre un paio di pezzi nuovi, ma con un approccio perlopiù acustico ed una visione che andava dal folk al blues al country, in cui il rock veniva solo sfiorato.

Da lì in poi Dave venne giustamente considerato come uno dei principali esponenti del rock d’autore made in USA, ed oggi la Craft, etichetta distribuita dalla Universal (in origine il CD uscì per la Hightone), ristampa quel disco fondamentale per il venticinquesimo anniversario, rimasterizzandolo ad arte ed aggiungendo tre bonus tracks. E, se possibile, King Of California è cresciuto ancora in tutti questi anni migliorando ulteriormente: le sonorità cristalline ad opera di Dave (che qui suona solo la chitarra acustica) e di Leisz, superbo musicista che si occupa di tutti ali altri strumenti a corda, risplendono magnificamente anche a distanza di cinque lustri, grazie alla bravura degli altri sessionmen coinvolti (tra cui segnalerei Bob Glaub e James Intveld al basso, Donald Lindley alla batteria, Skip Edwards alla fisarmonica ed organo e Steve Van Gelder al violino) e soprattutto alla bellezza delle canzoni. Come ho accennato prima i brani nuovi sono soltanto due ed il primo è proprio la title track con la quale inizia l’album, una splendida folk ballad con il vocione caldo di Dave a tessere un motivo che profuma di tradizione, con il solo accompagnamento di una chitarra acustica arpeggiata con forza, la slide acustica e il mandolino di Leisz ed una leggera percussione; anche meglio Goodbye Again, meravigliosa canzone dal sapore messicano in cui Alvin duetta con Rosie Flores (che è anche co-autrice del pezzo), una melodia cristallina e grande lavoro di fisa di Edwards: grandissimo brano, me lo ero (colpevolmente) dimenticato.

Dave ripropone anche un paio di pezzi dai suoi primi album solisti: Fourth Of July rimane una splendida canzone anche in questa versione più roots, con ritmo sempre sostenuto ed ottime parti di chitarra (l’elettrica è di Leisz) ed organo, ed anche Every Night About This Time non è da meno neppure in questa rilettura lenta ma piena di pathos, dotata di un crescendo degno di nota. Alvin ci delizia poi con quattro cover: una gustosa East Texas Blues (di Whistlin’ Alex Moore) eseguita in totale solitudine, voce e chitarra alla Mississippi John Hurt, una bellissima Mother Earth di Memphis Slim, sempre blues ma con un godurioso arrangiamento a base di slide acustica, mandolino, basso e batteria (e sentori di old-time music), la tenue Blue Wing, scritta dall’amico Tom Russell ma fino a quel momento inedita (un tipico pezzo del cantautore californiano, con profumo di frontiera), ed uno splendido duetto con Syd Straw sulle note di What Am I Worth (vecchio brano di George Jones), versione formidabile che mantiene intatto lo spirito country dell’originale. Dulcis in fundo, Dave riprende in mano cinque canzoni dei Blasters, a partire da Barn Burning, originariamente una robusta rock song che qui viene spogliata di ogni parte elettrica ma mantiene il suo approccio coinvolgente, diventando uno scintillante boogie acustico (con sezione ritmica) degno di un consumato bluesman. Bus Station diventa una deliziosa country ballad con tanto di steel e fisarmonica, Little Honey un folk elettrificato di grande forza e guidato dalla slide elettrica di Leisz, degna di Ry Cooder, mentre (I Won’t Be) Leaving è un lento fluido e disteso.

Ma il vero capolavoro di re-interpretazione è senza dubbio la celebre Border Radio, che da scatenato rock’n’roll si trasforma in una folk ballad lenta e di incredibile intensità, con solo due chitarre, un basso ed un feeling enorme: praticamente un’altra canzone. Le bonus tracks iniziano con l’inedita Riverbed Rag, squisito strumentale di stampo bluegrass, un brano originale di Dave che sarebbe stato benissimo nell’album del 1994, con Leisz strepitoso al dobro; The Cuckoo è un traditional in duetto con Katy Moffatt (tratto da un album della cantante texana), bellissima e folkeggiante, mentre il CD si chiude definitivamente con la toccante rilettura da parte di Dave di Kern River, brano di Merle Haggard di recente incluso anche nel tributo dedicato dalla Ace al grande countryman, Holding Things TogetherKing Of California si conferma quindi in tutto il suo splendore anche dopo 25 anni, anzi forse è ancora più bello: se uscisse oggi sarebbe disco dell’anno a mani basse.

Marco Verdi

L’Avventura “Post-Blasters” Cominciò Così. Phil Alvin – Un”Sung Stories”

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Phil Alvin – Un”Sung Stories” – Big Beat/Ace CD

Nel 1985 i Blasters, grande rock’n’roll band californiana tra le più influenti della decade, pubblicarono il loro ultimo disco, lo splendido Hard Line, all’indomani del quale i fratelli Phil e Dave Alvin presero strade separate. All’epoca si pensò che dei due quello che sarebbe andato incontro ad una luminosa carriera solista fosse Phil, frontman e voce solista della band, dimenticando che le canzoni venivano scritte da Dave: il risultato è che oggi Dave è giustamente considerato uno dei migliori musicisti americani in circolazione, e con una discografia di tutto rispetto, mentre Phil ha avuto diversi problemi ad affermarsi al di fuori del suo gruppo originario. Nel 1986 fu però proprio Phil ad esordire per primo (Dave avrebbe risposto l’anno dopo con Romeo’s Escape), con l’album Un”Sung Stories” (scritto proprio così), un lavoro di buon livello che però non mancò di spiazzare gli ascoltatori, in quanto era il classico caso di artista che non dava al pubblico ciò che il pubblico stesso voleva. Tutti infatti si aspettavano da Phil un vero rock’n’roll record, sulla falsariga di quelli pubblicati con i Blasters, ma il nostro invece rispose con un lavoro più complesso ed articolato, nel quale rivisitava brani (spesso oscuri) degli anni venti e trenta, esibendosi o in perfetta solitudine, da vero bluesman, o a capo di una big band.

 

Un disco tra blues e jazz quindi, con dieci pezzi che poi erano tutte cover di vecchi brani di gente come Cab Calloway, Bing Crosby, Hi Henry Brown, William Bunch ed Alec Johnson: l’unico brano “recente” era una rivisitazione di Daddy Rollin’ Stone di Otis Blackwell. Alvin, nei brani con la big band, scelse poi di farsi accompagnare da gruppi all’apparenza lontanissimi dal mondo Blasters, cioè la Dirty Dozen Brass Band in un pezzo ed in altri tre addirittura da quel pazzo scatenato di Sun Ra e la sua Arkestra, dando quindi a quelle canzoni un deciso sapore jazz. Com’era prevedibile il disco non ebbe un grande successo, e la Slash non lo pubblicò neppure in CD (all’epoca agli albori): oggi la Big Beat mette fine a questa mancanza di più di trent’anni e rende finalmente disponibile Un”Sung Stories” anche come supporto digitale (finora esisteva solo una rara e costosa edizione giapponese), con una rimasterizzazione degna di nota e nuove esaurienti liner notes, anche se senza bonus tracks. Ed è un piacere riscoprire (o scoprire, se come il sottoscritto non possedete il vinile originale) questo lavoro, che vede un Phil Alvin in ottima forma divertirsi con un tipo di musica che in America a quel tempo non era popolare per nulla. L’unico brano con la Dirty Dozen è posto in apertura: Someone Stole Gabriel’s Horn è jazzata e swingatissima, un muro del suono che si adatta benissimo ed in maniera credibile alla vocalità di Phil, con un pregevole assolo di sax ad opera di Lee Allen.

Poi ci sono i tre pezzi con Sun Ra (il cui pianoforte è deciso protagonista) e la sua Arkestra di 14 elementi, a partire dallo splendido medley di brani di Calloway The Ballad Of Smokey Joe (che comprende Minnie The Moocher, Kicking The Gong Around e The Ghost Of Smokey Joe): Alvin canta benissimo ed il gruppo lo accompagna con classe sopraffina, una goduria in poche parole. Le altre due canzoni con Herman Blount (vero nome di Sun Ra) e compagni sono The Old Man Of The Mountain (di nuovo Calloway), vibrante ed ancora ricca di swing, ed una lenta e drammatica rilettura di Brother Can You Spare A Dime?, noto brano risalente al periodo della Grande Depressione. C’è poi l’Alvin solitario, proprio come un bluesman degli anni trenta (ma la chitarra con cui si accompagna è elettrica), che suona tre blues cristallini (Next Week Sometime, in cui anche per come canta mi ricorda David Bromberg, Titanic Blues e Gangster’s Blues) e la folkeggiante e bellissima Collins Cave (per la quale Woody Guthrie si è sicuramente ispirato per scrivere la sua Pretty Boy Floyd, anche se si parla di un Floyd diverso), con in aggiunta il violino di Richard Greene.

Completano il quadro il coinvolgente gospel Death In The Morning, con David Carroll (che negli anni novanta si unirà ai riformati Blasters) alla batteria e soprattutto con l’eccellente contributo vocale dei Jubilee Train Singers, e la già citata Daddy Rollin’ Stone, sempre con Carroll, il piano dell’ex Blasters Gene Taylor e le chitarre di Mike Roach e Gary Masi, un pezzo cadenzato e ficcante, unico caso in cui Phil si avvicina parecchio al suono della sua vecchia band. Il seguito della carriera di Phil sarà piuttosto avaro di soddisfazioni, con l’aggiunta nel nuovo millennio di gravi problemi di salute che verranno fortunatamente superati: un solo altro disco da solista (County Fair 2000 del 1994, altro album che andrebbe rispolverato), varie reunion coi Blasters sia con che senza Dave Alvin, e due splendidi album recenti condivisi a metà con il più talentuoso fratello. Un”Sung Stories” non sarà un capolavoro ma vale sicuramente l’acquisto: nel 1986 la riscoperta delle radici e dei brani dell’anteguerra era di là da venire, e quindi possiamo anche dire che Phil Alvin era avanti coi tempi.

Marco Verdi

Un Po’ Di Sano Rock’n’Roll Per Divertirsi! Dan Baird & Homemade Sin – Screamer

dan baird screamer

Dan Baird & Homemade Sin – Screamer – JCPL CD

Nuovo album per Dan Baird, rocker californiano ma trapiantato ad Atlanta, che ebbe il suo periodo di maggior successo negli anni ottanta quando era a capo dei Georgia Satellites, uno degli acts di puro rock classico più freschi della decade. In seguito all’abbandono del gruppo Baird ha continuato a pubblicare dischi con una certa regolarità, ma non è mai più andato aldilà dello status di cult artist, pur riuscendo a garantire una qualità media piuttosto buona (ed in alcuni casi ottima, come ad esempio in Buffalo Nickel del 1996); Dan ha tentato anche diversi progetti collaterali senza grandi risultati, ed in almeno nel caso degli Yayhoos, in cui il nostro era insieme all’ex Del Lords Eric Ambel, le potenzialità per fare molto meglio c’erano tutte. Ma Baird non si è mai perso d’animo, ha continuato a fare la sua musica, un rock’n’roll chitarristico decisamente piacevole e diretto, a differenza dei Satellites che, riformatisi intorno all’unico altro membro originale Rick Richards, sono ancora in giro ma discograficamente parlando hanno prodotto solo la miseria di un album nel 1997. Dan invece tredici anni fa ha formato una nuova band, gli Homemade Sin, con i quali ha già pubblicato diversi album, un combo che attualmente vede al suo interno un altro ex Georgia Satellites, Mauro Magellan (batteria), il validissimo chitarrista Warner E. Hodges, già con Jason & The Scorchers, ed il bassista Sean Savacool.

Screamer, prodotto da Joe Blanton, è il quinto lavoro di studio per Baird e il suo gruppo (che hanno all’attivo anche quattro live), e segue ad un anno di distanza i due dischi che il nostro ha pubblicato nel 2017, Rollercoaster, con la band, e SoLow, nel quale Dan si occupava di suonare quasi tutto in prima persona. Ma Screamer è un disco che ha rischiato di non nascere mai, in quanto a inizio anno a Baird è stata diagnosticata una forma non troppo aggressiva di leucemia, che comunque anche se leggera è sempre una bruttissima bestia: fortunatamente le cure sono andate per il meglio, e sebbene provato fisicamente Dan è riuscito a poco a poco a scrivere ed incidere i dodici brani di questo CD, premendo volutamente l’acceleratore sul puro divertimento, reazione perfettamente comprensibile al fatto di essere uscito da una malattia che il più delle volte non lascia scampo. Ed in Screamer di divertimento ce n’è a iosa, un dischetto di rock chitarristico tra i più godibili da me ascoltati ultimamente, e di certo tra i lavori migliori del nostro: chitarre, ancora chitarre, ritmo e belle canzoni.Un bel riff introduce Bust Your Heart, una gustosa rock’n’roll song tra Rolling Stones e Tom Petty, un pezzo al fulmicotone che predispone subito al meglio. Le chitarre la fanno da padrone anche nella ficcante What Can I Say To Help, dall’approccio alla Creedence ed un motivo di presa sicura, mentre Adilyda dimostra che Dan ci sa fare anche con i brani più lenti, con una canzone elettroacustica dalle sonorità molto anni settanta ed un deciso sapore southern: davvero bella https://www.youtube.com/watch?v=IZxj7KXfLRQ .

Everlovin’ Mind è un trascinante rock’n’roll alla Blasters dal ritmo irresistibile, divertimento puro, mentre con Something Better torniamo al Sud (non dimentichiamo che Baird è californiano solo di nascita), altra sontuosa rock ballad di stampo classico con le chitarre che danno sempre quel quid in più; You’re Goin’ Down è ancora rock’n’roll puro e semplice, cantato in maniera un po’ sguaiata ma inappuntabile dal punto di vista strumentale, Charmed Life è splendida, un country-rock elettrico, grintoso e suonato in maniera asciutta e potente, con un gran ritmo ed una vitalità notevole, mentre la saltellante e fluida Up In the Kitchen mantiene il piede sull’acceleratore pur avendo un approccio più disteso (ed il ritornello è ottimo). Mister And Ma’am ha un ritmo forsennato, con Hodges che tira fuori una strepitosa prestazione chitarristica in perfetto stile surf, Something Like Love, con lo stesso Hodges come voce solista, è l’ennesima irresistibile rockin’ song di un disco che non ha una sola nota da buttare. Chiudono il CD, cinquanta minuti di rock’n’roll come non sentivo da un po’, la ruspante You Brake It, tra le più godibili e coinvolgenti, e la cadenzata Good Problem To Have, altro gran bel pezzo dagli umori sudisti. Un dischetto da non sottovalutare assolutamente, potrebbe essere il miglior Dan Baird di sempre: per chi ama il classico rock chitarristico made in USA.

Marco Verdi

Sembra Sbucato Dal Passato, Ma Che Bravo! Brad Stivers – Took You Long Enough

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Brad Stivers – Took You Long Enough – VizzTone Label               

Brad Stivers, anche dall’abbigliamento con cui si presenta sulla copertina di questo Took You Long Enough, sembra provenire da un’era che è quella del R&R anni ’50/primi ‘60, con retrogusti soul e R&B, e parecchio blues, insomma quella che ai giorni nostri chiamiamo roots music. Il giovane Brad (intorno ai 25 anni, quindi quasi un bambino per il Blues) viene dall’area di Austin, Texas, ma prima ha girato tutti gli Stati Uniti: dalla California al Colorado, passando per lo stato di Washington, e anche una capatina in quel di Memphis, Tennessee. E’ stato finalista all’International Blues Challenge del 2014 ed ora, armato della sua fida Telecaster, esordisce su etichetta VizzTone, la piccola ma agguerrita label di Chicago, completando quindi il giro in musica degli States (e per festeggiare l’evento si è appena fatto anche un cospicuo tour in Spagna, e prima era passato anche da Italia e Svizzera): tra i nomi di pregio utilizzati nell’album vi segnalo l’ottimo Bukka Allen all’organo Hammond B3, la pianista e cantante Emily Gimble e il vecchio lead vocalist degli Storyville Malford Milligan (qualcuno li ricorda?).

10 brani che fin dall’iniziale 2.000 Miles ci rimandano al sound dei primi Blasters, quelli che fondevano rock e blues con una grinta notevole, Brad unisce nella sua figura, la voce potente ed espressiva di Phil e lo stile esuberante da guitar slinger di Dave Alvin, inchiodando subito un assolo da vero virtuoso. Ma pure la successiva You’re Just About To Lose Your Clown, con la presenza del sax ficcante di Mark Wilson e un ritmo errebì ondeggiante e variegato che rende omaggio al maestro Ray Charles, con i tocchi dell’organo di Allen ad insaporire ulteriormente il menu, segnalano l’arrivo di un nuovo talento sulla scena, quando poi inizia a titillare la sua solista si capisce che siamo capitati a bordo per un bel viaggio; a tutto boogie per una poderosa Put It Down, quando il ritmo si fa frenetico, la sezione ritmica pompa di brutto e il “ragazzo” ci dà dentor con la sua chitarra alla grande, le mani volano veramente sul manico della sua solista. E non manca un funky blues turgido come l’ottima title track Took You Long Enough, dove oltre al guitar slinger si gustano anche le nuances della sua bella voce; e in Here We Go Again non manca neppure una languida e deliziosa country ballad, cantata in coppia con Emily Gimble, che accarezza con calore anche i tasti del suo pianoforte.

Per poi scatenarsi nuovamente, questa volta con la presenza di Malford Milligan, in una poderosa, e lunga (oltre i 6 minuti) Nickel And A Nail, un blues con decisi connotati soul & R&B, dove si apprezza la voce di Milligan, grande cantante che mi ero perso per strada, ma che in questa cover di un vecchio brano di O.W. Wright mette in luce tutto il suo talento, mentre Bukka Allen e Stivers curano con gran gusto la parte strumentale, per un brano veramente fantastico. One Night Of Sin è una cover strumentale curatissima del brano di Fats Domino dove Brad gioca con i toni e i volumi della sua Fender https://www.youtube.com/watch?v=APdKG4GIWHI , per poi scatenarsi nuovamente in un poderoso shuflle come la sanguigna Can’t Wait che si avvicina al blues più canonico Chicago style degli artisti VizzTone e poi anche nel gagliardo slow blues della intensa Save Me, di nuovo con la chitarra (e anche la voce) in grande spolvero. E per non farci mancare nulla nello strumentale finale, un’altra cover assai azzeccata, rende omaggio anche allo stile chitarristico di Jimmy Nolen, il vecchio chitarrista di James Brown, in una Cold Sweat tutta “chicken-pickin” e linee soliste fluide e di grande tecnica. Un nome da appuntarsi con cura, veramente bravo questo Brad Stivers https://www.youtube.com/watch?v=sboDCzc_WRU !

Bruno Conti

Nome, Cognome E Professione! Ray Fuller And The Bluesrockers – Long Black Train

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Ray Fuller And The Bluesrockers  – Long Black Train – Azuretone Records

Ah, quei bei gruppi dove si capisce subito dal nome che genere facciano! Ray Fuller e i suoi Bluesrockers vengono da Columbus, Ohio, non certo una delle culle riconosciute del blues americano, ma abbiamo visto più volte che nell’immenso panorama musicale americano spesso i fautori delle 12 battute si trovano anche nelle più sperdute lande e la capitale dello stato del Nord Ovest è comunque una città con quasi un milione di abitanti ed una fiorente scena musicale: tra i gruppi che vengono da là ricordiamo O.A.R ed ekoostik hookah, oltre al gruppo country dei Rascal Flatts, sempre in ambito country Dwight Yoakam, che quindi  all’origine è un “nordista”, come pure di Columbus sono Phil Ochs, Joe Walsh e la cantante jazz Nancy Wilson, ma ce ne sarebbero molti altri. Finito il momento della divulgazione alla Alberto Angela, torniamo ai nostri amici Bluesrockers: classico quartetto blues con Ray Fuller, voce, chitarre ed autore di tutti i brani, Doc Malone, armonica e la sezione ritmica con Myke Rock e Darrell Jumper.

Leggendo le solite biografie il nostro viene presentato come una sorta di leggenda locale e qualcosa di vero ci deve pur essere se il Fuller, sotto varie denominazioni, è in pista dal 1974, ha addirittura una formazione per gli States e una diversa per i tour europei, ha fatto la sua gavetta aprendo i concerti di Muddy Waters e John Lee Hooker, che gli hanno espresso la loro approvazione, e ha pubblicato una decina di album, alcuni solo in vinile, altri per piccole oscure etichette, ma anche uno per la Rounder nel 1989 e un recente Live At Buddy Guy’s Legends..Diciamo quindi che non è un novellino, ma neppure uno che ti fa esclamare: ah Ray Fuller! I paragoni con Elmore James e Hound Dog Taylor si sprecano, vista la sua perizia alla slide, ma anche con George Thorogood per la grinta e per i ritmi a tempo di boogie della sua musica https://www.youtube.com/watch?v=7zIUdXDcl0Y : a questo proposito con Burn Me Up si entra subito in tema, il brano sembra una outtake perduta dell’opera omnia di Thorogood, un po’ blues, un po’ R&R, anche se la registrazione è abbastanza cruda e primitiva e la voce probabilmente non memorabile, però Malone all’armonica si difende comunque bene. Devil’s Den ricorda certi riff di Fogerty con i Creedence, inzuppati però nel blues, insomma musica sana ed onesta che fa muovere il piedino, Voodoo Mama profuma del vecchio British Blues Rock (altra influenza) di band come i Savoy Brown, i Chicken Shack o i Ten Years After, anche se la presenza dell’armonica vira il sound verso il blues classico di Chicago.

Però è quando Fuller si esibisce con il bottleneck che le cose si fanno serie: come nella eccellente Hip Shakin’ Mama dove Ray si conferma virtuoso della modalità slide, ma si difende in modo eccellente anche nello slow blues atmosferico di una Cold Day In Hell, minacciosa il giusto, per quanto manca sempre quel piccolo quid che farebbe il fuoriclasse, pur se il tocco di chitarra è quello giusto https://www.youtube.com/watch?v=q79bZUg-HbQ . La title track potrebbe passare per un titolo dei primi Blasters, mentre Louisiana Woman ha un ritmo funky e un arrangiamento più complesso e variegato, con la chitarra tagliente e tirata, con Let’s Get Dirty che torna a quel sound à la Suzie Q, per intenderci e con le dovute proporzioni. Somethin’ Shakin’ tiene conto di quel Bluesrockers della ragione sociale e la slide infuocata di Fuller duetta con forza e passione con l’armonica di Malone, mentre New Tattoo ha perfino un tocco stonesiano nel bel groove rock che la band trova per l’occasione, ruvido anche se irrisolto. La media qualitativa è buona, ma pare a tratti mancare quella piccola scintilla che fa accendere il trenino a pieno regime: anche lo slow Whiskey Drinkin’ Woman piace per l’impegno ma non decolla del tutto, come pure la successiva Pipeline Blues che ha tutti gli stereotipi del genere, un sano dualismo tra armonica e slide, ma non ti fa fremere più di tanto. Ottima invece Evil On Your Mind, con un bel giro di basso sparato in faccia con cattiveria, la grinta di Fuller sia alla voce come alla solista, vibranti e cariche di feeling, per poi concludere con You’ve Got The Blues, altro bel boogie R&R alla Thorogood, impreziosito dall’ottimo lavoro all’armonica di Doc Malone perfetto contrappunto alla solista di Ray Fuller.

Bruno Conti