Una Doppia Dose Di Rock’n’Roll D’Annata. Flamin’ Groovies – Vaillancourt Fountain/The Blasters – Dark Night: Live In Philly

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Flamin’ Groovies – Vaillancourt Fountain, San Francisco, CA September 19, 1979 – Liberation Hall CD

The Blasters – Dark Night: Live In Philly – Liberation Hall 2CD

Oggi mi occupo di due album dal vivo che hanno diversi punti in comune. Prima di tutto escono entrambi per la Liberation Hall, una piccola etichetta che potrebbe sembrare illegale ma in realtà è autorizzata dai gruppi in questione alla pubblicazione di queste registrazioni (che erano già uscite come LP per gli ultimi due Record Store Day, uno nel 2018 ed l’altro quest’anno – secondo punto in comune). Entrambi i lavori si occupano poi di concerti inediti di diversi anni fa, ed ambedue all’insegna del più puro rock’n’roll. Cominciamo dunque dai Flamin’ Groovies, band di San Francisco che ultimamente sta avendo un ritorno di interesse, vista la reunion di due anni fa con il buon Fantastic Plastic ed il recente box triplo Good Rockin Tonite!, che si occupava della prima fase della loro carriera (la migliore) https://discoclub.myblog.it/2019/04/03/un-cofanetto-ideale-per-riscoprire-una-band-formidabile-flamin-groovies-gonna-rock-tonite/ . Questo Vallaincourt Fountain è un live album registrato nel 1979, tre anni dopo la loro prima reunion avvenuta per mano dell’unico membro originale ancora nel gruppo, Cyril Jordan, insieme ai chitarristi Chris Wilson e Mike Wilhelm ed alla sezione ritmica formata da George Alexander e David Wright. I Groovies, con la loro miscela esplosiva di rock’n’roll, pop e garage sound sono sempre stati un gruppo fatto per suonare dal vivo, ed in questo CD non si smentiscono, fornendo una prestazione ad alto livello, inficiata però dalla qualità di registrazione che si può equiparare a quella di un discreto bootleg, con un suono ovattato e fangoso, i bassi troppo pronunciati e la batteria quasi nelle retrovie, anche se con il progredire della performance le cose un po’ migliorano.

Peccato, perché il concerto merita, diviso in maniera equa tra melodie dirette ed orecchiabili ed una notevole foga chitarristica. Le cover sono presenti in misura addirittura maggiore rispetto ai brani originali, con due brani a testa per Beatles (Please Please Me e From Me To You) e Rolling Stones (19th Nervous Breakdown e Paint It Black), ma non manca anche un tributo ai Byrds (I’ll Feel A Whole Lot Better, ma anche l’originale dei Groovies Between The Lines sembra un pezzo della band di McGuinn), ai Moby Grape (Fall On You, eseguita con energia da gruppo punk), a Big Joe Williams (la celeberrima Baby, Please Don’t Go, suonata tenendo presente la versione dei Them, ma forse con più cattiveria), ai “contemporanei” NRBQ (la conclusiva I Want You Bad) ed un doppio omaggio al rock’n’roll di Chuck Berry con Around And Around e Let It Rock. Solo sei quindi i pezzi dal songbook di Jordan e compagni (e nessuno dal periodo 1969-71), tra i quali segnalerei la bella Tell Me Again, che sembra una outtake di Tom Petty, il pop-beat anni sessanta di All I Wanted e la trascinante Shake Some Action.

Qualità sonora eccellente invece per Dark Night: Live In Philly, doppio CD che testimonia un concerto tenutosi al Chestnut Cabaret di Philadelphia il 19 Luglio del 1986 con protagonisti i fenomenali Blasters. Non è la prima volta che esce un live d’archivio del quartetto di Los Angeles riferito al 1986, ma se in Live 1986 del 2011 Dave Alvin faceva ancora parte del gruppo, in questo concerto estivo aveva già lasciato la band per intraprendere la carriera solista. I tre rimasti, il vocalist e chitarrista Phil Alvin e la favolosa sezione ritmica di John Bazz e Bill Bateman, avevano quindi reclutato Hollywood Fats (al secolo Michael Leonard Mann), un chitarrista anch’egli della città degli angeli con un background blues di tutto rispetto, che vantava collaborazioni tra gli altri con Muddy Waters e Junior Wells (che aveva coniato il suo soprannome), oltre che una breve militanza nei Canned Heat.

E se Alvin (Dave) era per i Blasters il songwriter, direi che Fats riusciva almeno a non far rimpiangere l’Alvin chitarrista, essendo dotato di una tecnica portentosa e di un feeling grande quanto lui: avrebbe potuto avere una lunga e luminosa carriera, se non fosse mancato appena cinque mesi dopo il concerto di cui mi accingo a scrivere a causa di un infarto (causato però dalle droghe), all’età di soli 32 anni. E’ risaputo che i Blasters dal vivo sono sempre stati una macchina da guerra, ed in questa serata non si smentiscono di certo, fornendo una prestazione formidabile in tutti i suoi componenti: di Fats ho già detto, ma Bazz e Bateman non sono da meno, macinando ritmo alla guisa di un treno lanciato, e pure Phil è in gran forma vocale. La serata inizia subito alla grandissima con la strepitosa Marie Marie, suonata come al solito ai mille all’ora, con Fats che dimostra immediatamente di avere il manico e gli altri che gli vanno dietro senza perdere una battuta. Tra i 27 brani totali trovano spazio tutti i classici del gruppo californiano, come Trouble Bound, Long White Cadillac, American Music, la splendida Border Radio e l’altrettanto bella So Long Baby Goodbye, che chiude lo show. Il rock’n’roll la fa naturalmente da padrone, con brani al fulmicotone come No Other Girl, il rockabilly anni cinquanta But I Don’t Want To (sentite la chitarra), la velocissima Crazy Baby, la deliziosa Help You Dream, la cadenzata Hear Me Cryin’, l’eccezionale Blue Shadows ed una scatenata versione di Keep A-Knockin’ di Little Richard. Ma i nostri non sono certo monotematici, e così nel corso della serata non mancano sconfinamenti in altri generi, come lo swamp-rock alla Creedence (Just Another Sunday, Dark Night, la straordinaria Common Man), il country (Never No More Blues, di Jimmie Rodgers, irresistibile), il blues (la saltellante Flat Top Joint, la grintosa Hoodoo Man e lo strepitoso shuffle elettrico Too Tired, con un grandissimo Fats), il country-blues alla Mississippi John Hurt (Keep It Clean) e la pura e semplice rock song di stampo classico (la stupenda Colored Lights,scritta da John Mellencamp).

Splendido concerto (sia pure in assenza di Dave Alvin), da non perdere.

Marco Verdi

L’Avventura “Post-Blasters” Cominciò Così. Phil Alvin – Un”Sung Stories”

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Phil Alvin – Un”Sung Stories” – Big Beat/Ace CD

Nel 1985 i Blasters, grande rock’n’roll band californiana tra le più influenti della decade, pubblicarono il loro ultimo disco, lo splendido Hard Line, all’indomani del quale i fratelli Phil e Dave Alvin presero strade separate. All’epoca si pensò che dei due quello che sarebbe andato incontro ad una luminosa carriera solista fosse Phil, frontman e voce solista della band, dimenticando che le canzoni venivano scritte da Dave: il risultato è che oggi Dave è giustamente considerato uno dei migliori musicisti americani in circolazione, e con una discografia di tutto rispetto, mentre Phil ha avuto diversi problemi ad affermarsi al di fuori del suo gruppo originario. Nel 1986 fu però proprio Phil ad esordire per primo (Dave avrebbe risposto l’anno dopo con Romeo’s Escape), con l’album Un”Sung Stories” (scritto proprio così), un lavoro di buon livello che però non mancò di spiazzare gli ascoltatori, in quanto era il classico caso di artista che non dava al pubblico ciò che il pubblico stesso voleva. Tutti infatti si aspettavano da Phil un vero rock’n’roll record, sulla falsariga di quelli pubblicati con i Blasters, ma il nostro invece rispose con un lavoro più complesso ed articolato, nel quale rivisitava brani (spesso oscuri) degli anni venti e trenta, esibendosi o in perfetta solitudine, da vero bluesman, o a capo di una big band.

 

Un disco tra blues e jazz quindi, con dieci pezzi che poi erano tutte cover di vecchi brani di gente come Cab Calloway, Bing Crosby, Hi Henry Brown, William Bunch ed Alec Johnson: l’unico brano “recente” era una rivisitazione di Daddy Rollin’ Stone di Otis Blackwell. Alvin, nei brani con la big band, scelse poi di farsi accompagnare da gruppi all’apparenza lontanissimi dal mondo Blasters, cioè la Dirty Dozen Brass Band in un pezzo ed in altri tre addirittura da quel pazzo scatenato di Sun Ra e la sua Arkestra, dando quindi a quelle canzoni un deciso sapore jazz. Com’era prevedibile il disco non ebbe un grande successo, e la Slash non lo pubblicò neppure in CD (all’epoca agli albori): oggi la Big Beat mette fine a questa mancanza di più di trent’anni e rende finalmente disponibile Un”Sung Stories” anche come supporto digitale (finora esisteva solo una rara e costosa edizione giapponese), con una rimasterizzazione degna di nota e nuove esaurienti liner notes, anche se senza bonus tracks. Ed è un piacere riscoprire (o scoprire, se come il sottoscritto non possedete il vinile originale) questo lavoro, che vede un Phil Alvin in ottima forma divertirsi con un tipo di musica che in America a quel tempo non era popolare per nulla. L’unico brano con la Dirty Dozen è posto in apertura: Someone Stole Gabriel’s Horn è jazzata e swingatissima, un muro del suono che si adatta benissimo ed in maniera credibile alla vocalità di Phil, con un pregevole assolo di sax ad opera di Lee Allen.

Poi ci sono i tre pezzi con Sun Ra (il cui pianoforte è deciso protagonista) e la sua Arkestra di 14 elementi, a partire dallo splendido medley di brani di Calloway The Ballad Of Smokey Joe (che comprende Minnie The Moocher, Kicking The Gong Around e The Ghost Of Smokey Joe): Alvin canta benissimo ed il gruppo lo accompagna con classe sopraffina, una goduria in poche parole. Le altre due canzoni con Herman Blount (vero nome di Sun Ra) e compagni sono The Old Man Of The Mountain (di nuovo Calloway), vibrante ed ancora ricca di swing, ed una lenta e drammatica rilettura di Brother Can You Spare A Dime?, noto brano risalente al periodo della Grande Depressione. C’è poi l’Alvin solitario, proprio come un bluesman degli anni trenta (ma la chitarra con cui si accompagna è elettrica), che suona tre blues cristallini (Next Week Sometime, in cui anche per come canta mi ricorda David Bromberg, Titanic Blues e Gangster’s Blues) e la folkeggiante e bellissima Collins Cave (per la quale Woody Guthrie si è sicuramente ispirato per scrivere la sua Pretty Boy Floyd, anche se si parla di un Floyd diverso), con in aggiunta il violino di Richard Greene.

Completano il quadro il coinvolgente gospel Death In The Morning, con David Carroll (che negli anni novanta si unirà ai riformati Blasters) alla batteria e soprattutto con l’eccellente contributo vocale dei Jubilee Train Singers, e la già citata Daddy Rollin’ Stone, sempre con Carroll, il piano dell’ex Blasters Gene Taylor e le chitarre di Mike Roach e Gary Masi, un pezzo cadenzato e ficcante, unico caso in cui Phil si avvicina parecchio al suono della sua vecchia band. Il seguito della carriera di Phil sarà piuttosto avaro di soddisfazioni, con l’aggiunta nel nuovo millennio di gravi problemi di salute che verranno fortunatamente superati: un solo altro disco da solista (County Fair 2000 del 1994, altro album che andrebbe rispolverato), varie reunion coi Blasters sia con che senza Dave Alvin, e due splendidi album recenti condivisi a metà con il più talentuoso fratello. Un”Sung Stories” non sarà un capolavoro ma vale sicuramente l’acquisto: nel 1986 la riscoperta delle radici e dei brani dell’anteguerra era di là da venire, e quindi possiamo anche dire che Phil Alvin era avanti coi tempi.

Marco Verdi

Elementare Watson! Undici Album, Undici Canzoni: Bellissime. Dave Alvin – Eleven Eleven

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Dave Alvin – Eleven Eleven -Yep Roc Records

La famosa esclamazione di Sherlock Holmes l’avevo già utilizzata in svariate occasioni nel mio Blog ma mai come titolo di un Post e per dirne un’altra, più prosaica, ci sta “come il cacio sui maccheroni” per questo nuovo album di Dave Alvin, Eleven Eleven. L’undicesimo di una gloriosa carriera si diceva (ma tra Live, dischi dei Blasters e collaborazioni ne ha fatti molto di più): undici canzoni che lo riportano allo stile più rock & blues di Ashgrove rispetto alle ultime cose con le Guilty Women. D’altronde come lo stesso Alvin ha dichiarato (è lì che vi aspetta all’ingresso nel suo sito) – “Ci sono due tipi di musica folk: musica folk quieta e musica folk rumorosa, Io le suono entrambe!” – a questo punto il vostro fedele recensore prende e porta a casa e si potrebbe concludere qui.

Invece no! Primo, perchè si tratta di un altro dei dischi migliori di quest’anno e altre due parole quindi le merita. Secondo, mi sono dimenticato. Comunque vediamo alcuni fatti: il CD è entrato direttamente nelle classifiche Usa ben al 159° posto, non accadeva dai tempi dell’esordio Romeo’s Escape che raggiunse addirittura il 116 (un poco di amara ironia non guasta). Per la prima volta in un suo disco solista Dave Alvin impiega i suoi “vecchi colleghi” dei Blasters (che sono stati riabilitati dal sindaco di Davis, una piccola cittadina della California che li aveva banditi nel lontano 1982): c’è il fratello Phil Alvin, amico/nemico come in tutte la famiglie musicali che rispettino, impegnato a duettare con Dave nella divertente e ironica What’s Up With Your Brother, un boogie blues tirato e chitarristico che vede impegnato anche il pianino scatenato di Gene Taylor e se devo esprimere una preferenza, Phil sarà anche il cantante “vero” ma io preferisco la voce baritonale, profonda ed espressiva di Dave Alvin, in questo brano e in generale. Mi dispiace ma lo dovevo dire, mi scappava.

Ma torniamo all’inizio: il CD si apre con un formidabile brano come Harlan County Line un altro blues selvaggio e tirato dove le chitarre tirano fendenti dai canali dello stereo, una slide, penso Greg Leisz, e la solista di Alvin si spartiscono i compiti mentre la sezione ritmica di Don Heffington alla batteria e Bob Glaub al basso condisce un ritmo incalzante per narrare una sordida storia ambientata nella contea mineraria di Harlan. Se aggiungiamo Rick Shea, l’altro chitarrista dei Guilty Ones, abbiamo la formazione al completo, anche se in finale di brano si capta anche il suono di un vibrafono che aggiunge profondità al sound. Johnny Ace Is Dead, altro brano molto bello che narra la storia di uno dei casi più strani della storia dei rock dei primordi (anche Paul Simon gli ha dedicato una bellissima canzone): si dice che Johnny Ace, una delle prime stelle del R&B (era quello di Pledging My love) agli inizi degli anni ’50 si sia ucciso in un gioco di roulette russa, secondo altri si è sparato per sbaglio mentre si puntava alla testa la pistola, “tanto è scarica”, in ogni caso una fine stupida. La canzone con i suoi ritmi incalzanti descrive alla perfezione la tragedia incombente “Big Mama Cried, Dear Lord, Big Mama Said…Johnny Ace Is Dead”, la Big Mama in questione è la cantante Big Mama Thornton che fu testimone dell’evento, le chitarre ululano e piangono mentre la voce partecipe di Dave Alvin racconta quel che successe, quasi come un testimone fuori quadro.

Black Rose Of Texas è una stupenda ballata dedicata a Amy Farris, la violinista e cantante morta suicida nel 2009, una delle Guilty Women: una delle più belle e dolenti canzoni scritte da Dave Alvin per una amica mai dimenticata, nobilitata ulteriormente da un assolo stratosferico di slide nella parte centrale. Dopo un trio di canzoni così è quasi fisiologico un piccolo calo qualitativo che coincide con il boogie pianistico (ancora Gene Taylor) di Gary Indiana 1959, ma proprio piccolo perché il brano ambientato ai tempi delle lotte per il lavoro nelle acciaierie a fine anni ’50, è comunque attraversato ancora una volta da sferzate della chitarra elettrica di Alvin che si conferma uno dei chitarristi più “pericolosi” del rock americano. E lo ribadisce nei ritmi alla Bo Diddley (lo diranno tutti, ma è così) di Run Conejo Run un altro brano di grande impatto sonoro, chitarristico fino al midollo e dedicato all’amico scomparso Chris Gaffney.

No Worries Mija è una bella border song con piano e accordion che neppure Ry Cooder o i Los Lobos avrebbero saputo raccontare meglio: Dave Alvin è di Downey, California la cittadina che ha dato i natali anche a Karen Carpenter, ma conosce questo storie texane di confine e come pochi altri le sa raccontare. Del duetto col fratello Phil abbiamo detto, rimane un’altra bella canzone dalle atmosfere sospese come Murrietta’s Head, il duetto country-folk con l’altra Guilty Woman Christy McWilson nella delicata Manzanita con le due voci che si combinano alla perfezione e Dirty Nightgown un altro brano rock-blues con ampio uso di chitarra ma meno efficace di quelli che troviamo nelle prima parte dell’album, anche se sempre di livelli qualitativi elevati ma Dave Alvin ci aveva abituato troppo bene con le 5 o 6 canzoni iniziali. La conclusiva Two Lucky Bums, un brano cantato in duetto con l’amico Chris Gaffney non c’entra molto con il resto del disco, un brano delicatamente jazz e retrò che rimane come ultimo ricordo di un amico che non c’è più e comunque ha una sua dignità musicale.

Da mettere nella lista dei migliori dell’anno, fare un appunto e ricordarsi alla fine dell’anno.

P.S. Il CD ha un codice di download per scaricare materiale bonus extra, almeno nelle prime copie.

Bruno Conti