Semplicemente Uno Dei Migliori Tributi Degli Ultimi Tempi. VV.AA. – Come On Up To The House: Women Sing Waits

come on up tp the house women sings waits

VV.AA. – Come On Up To The House: Women Sing Waits – Dualtone CD

Il destino di Tom Waits è comune a quello degli altri grandi songwriters del panorama mondiale, da Bob Dylan in giù, è cioè quello di vedere molte delle loro composizioni rifatte da colleghi più o meno famosi con risultati a volte superiori agli originali, talvolta in termini di qualità e più spesso di popolarità e vendite. Tra l’altro Waits in passato non è mai stato tenero verso le sue canzoni rivisitate da altri, pur non negandone l’utilizzo (una volta Glenn Frey disse che il Tom non era per niente contento della versione degli Eagles di Ol’ 55, ma cambiò idea quando vide l’assegno), ma negli ultimi anni si è un po’ ammorbidito, arrivando persino a produrre nel 2001 Wicked Grin, album del bluesman John Hammond composto unicamente da brani dell’artista di Pomona. Sul finire del 2019/inizio 2020 è uscito un tributo molto particolare alle canzoni di Tom, Come On Up To The House, che come fa intuire il sottotitolo Women Sing Waits è formato unicamente da cover incise per l’occasione da donne, siano esse gruppi o soliste.

Waits ha sempre avuto un debole per l’universo femminile, e ha scritto alcune delle più belle canzoni d’amore dagli anni settanta in poi, e questo disco è una sorta di ringraziamento ed apprezzamento che il sesso opposto ha rivolto al cantautore californiano, un tributo bellissimo, intenso e toccante da parte di artiste più o meno note, un disco che suona decisamente unitario nonostante sia stato suonato e prodotto da musicisti diversi. Il produttore esecutivo dell’album è Warren Zanes, ex chitarrista dei Del Fuegos (il quale ha confessato nelle note interne al CD di essere stato introdotto all’arte di Waits da sua madre), che si è occupato di reclutare le artiste per questo tributo, lasciando però loro mano libera sulla scelta di produttore e musicisti (questi ultimi non sono indicati nella confezione, unica pecca del progetto). Come On Up To The House è quindi un disco splendido, con interpretazioni di alto livello emozionale almeno nel 90% dei casi, che forse non superano gli originali (o le cover più famose) ma di certo si avvicinano molto; piccola curiosità: l’album di Waits più “saccheggiato” con ben cinque canzoni su dodici totali è Mule Variations, ovvero il miglior disco di Tom da Rain Dogs in poi, e quindi degli ultimi 35 anni.

Si inizia con il brano che intitola la raccolta, affidato alle Joseph (un trio tutto al femminile di Portland, Oregon): un pianoforte solitario apre la canzone subito assistito da una voce suadente, e la struttura del brano resta invariata tranne che per l’intervento di un violino solista prima, di un quartetto d’archi dopo e di un suggestivo coro verso la fine. Una cover intima e profonda, che dà il via al disco nel modo migliore. Hold On è la più bella canzone di Mule Variations ed una delle migliori del songbook waitsiano, e qui viene affidata alla brava Aimee Mann, che la tratta coi guanti bianchi fornendo un’interpretazione in puro stile rock ballad, inventandosi un arrangiamento soffuso con il ritmo scandito da uno shaker ed una chitarrina elettrica sullo sfondo: grande classe. Molto bella anche Georgia Lee, cantata in maniera emozionante da Phoebe Bridgers (giovanissima cantautrice “indie” di Los Angeles), anche qui con l’accompagnamento ridotto all’osso che fa risaltare la melodia e la bella voce di Phoebe, mentre Ol’ 55 non può prescindere dalla famosa versione degli Eagles, ed infatti la cover delle sorelle Shelby Lynne e Allison Moorer si ispira più a quella della band californiana che all’originale di Tom: le due sisters sono come al solito bravissime e la loro rivisitazione dal sapore western ballad è splendida, tra le migliori del lotto.

Angie McMahon, una songwriter australiana che ha debuttato lo scorso anno, propone una rilettura molto rarefatta di Take It With Me, con la voce in primo piano e sonorità d’atmosfera e quasi ambient, ma con un risultato di grande fascino (anche per la bellezza del brano); Jersey Girl è ormai diventata una canzone più di Bruce Springsteen che di Waits, con il Boss che ciclicamente la riprende dal vivo soprattutto quando si esibisce vicino a casa: qui il pezzo è nelle mani di Corinne Bailey Rae (brava cantante britannica che era anche tra le protagoniste di Joni: The River Letters, splendido tributo del 2007 a Joni Mitchell da parte di Herbie Hancock), che la affronta con bella voce limpida ed espressiva ed una strumentazione molto waitsiana, cioè con base folk-rock quasi classica ma con un marimba in evidenza, per un’altra cover estrememente piacevole (anche se vi confesso che se fossi stato io al posto di Zanes per questo brano avrei pensato a Patti Scialfa, per motivi che non sto neanche a spiegarvi). E’ il momento di due pezzi da novanta, cioè Patty Griffin che emoziona con una sontuosa versione pianisitica di Ruby’s Arms, rilettura da brividi lungo la schiena grazie anche all’interpretazione vocale di Patty, e Rosanne Cash che propone la stupenda Time in puro stile da cantautrice raffinata, alla James Taylor, con i suoni dosati alla perfezione dal marito John Leventhal.

La texana Kat Edmonson, con la produzione di Mitchell Froom, ci regala una curiosa You Can Never Hold Back Spring, riletta come se fosse una jazz ballad alla Billie Holiday con classe, bravura e creatività, mentre la bravissima Iris DeMent riveste la toccante House Where Nobody Lives con una deliziosa patina country, ed anche qui la voce fa la differenza. Downtown Train è uno dei brani più celebri di Waits, grazie soprattutto alla cover di grande successo da parte di Rod Stewart (cover che mi è sempre piaciuta nonostante l’arrangiamento “rotondo”, ma più di recente l’ha incisa anche Bob Seger con ottimi risultati): l’ex Jimmy Eat World Courtney Marie Andrews ne fornisce una versione cadenzata anche se leggermente meno strumentata di quella del biondo cantante scozzese, lasciando però intatta la straordinaria melodia e mettendo in evidenza il pianoforte ed un chitarrone “twang”. Il CD si chiude con Tom Traubert’s Blues (della quale ricordo una bella versione dei Pogues), affidata alla band di Los Angeles The Wild Reeds (composta per quattro quinti da donne), una cover discreta che però manca un po’ di pathos, un finale in tono minore che però non inficia affatto il giudizio complessivo sul valore dell’album, un tributo splendido che mi sento di consigliare non solo ai fans di Tom Waits ma agli amanti dell’ottima musica in generale.

Marco Verdi

Recuperi Di Fine Stagione: Un Altro Album Di Duetti, Molto Meglio Del Primo! John Prine – For Better, Or Worse

john prine for better, or worse

John Prine – For Better, Or Worse – Oh Boy CD

Sono sempre stato un grande estimatore di John Prine, uno dei più brillanti cantautori americani degli ultimi quaranta anni che, ad inizio carriera, ha pagato oltremisura il fatto di essere stato inserito dai media nella categoria dei “nuovi Dylan”, una specie di bacio della morte per gli artisti in questione (penso ad Elliott Murphy, Steve Forbert o Dirk Hamilton *NDB Anche Sammy Walker, che forse era quello che assomigliava di più al vecchio Bob) al quale l’unico ad essere sopravvissuto alla grande (nel senso di aver avuto successo di pubblico e commerciale) è stato Bruce Springsteen. Prine ha comunque sempre proseguito per la sua strada, costruendosi un bello zoccolo duro di fans, con il sue stile pacato ma profondamente ironico, e la sua capacità di scrivere grande canzoni con pochi accordi, attingendo al suo background folk e country. Ma John non è mai stato considerato un country artist vero e proprio, i suoi dischi andavano oltre le categorizzazioni (The Missing Years del 1991, uno dei suoi lavori più belli in assoluto, era invero abbastanza rock): il primo disco totalmente country John lo ha pubblicato nel 1999, In Spite Of Ourselves, un album nel quale collaborava con una serie di colleghe ed amiche, nella più pura tradizione dei duetti country tra uomo e donna (ed i brani erano tutte covers di classici). In Spite Of Ourselves era un buon disco, ma a mio parere non un grande disco: mancava la scintilla, la zampata, ed i duetti erano più o meno proposti in maniera scolastica e senza guizzi particolari, rendendo l’album un esercizio alla lunga abbastanza sterile.

A distanza di diciassette anni Prine decide di dare un seguito a quel disco, ma For Better, Or Worse è tutta un’altra cosa: c’è più passione, più convinzione, ed anche più feeling, e le alchimie fra John e le sue partners funzionano alla grande, facendo di questo album uno dei migliori country records dell’anno (e ve lo dice uno che non ama alla follia i dischi di duetti). Prine è in buona forma, la voce è diventata più fragile, un po’ per l’età ma anche per i seri problemi di salute che ha avuto (pare superati al meglio), ma la differenza la fanno proprio le performances delle cantanti invitate a far parte del progetto, tra l’altro in numero maggiore rispetto al precedente episodio (undici contro nove, e con solo due di loro in comune nei due dischi: Iris DeMent e la moglie Fiona Prine). Di nuovo il repertorio è costituito da covers (l’ultimo album di Prine con canzoni nuove risale ormai al 2005, il peraltro bellissimo Fair & Square), e John è assistito alla produzione dal veterano Jim Rooney, e con un’ottima band, che comprende tra gli altri il fedele (a John) chitarrista Jason Wilber, il noto steel guitarist Al Perkins e l’ottimo pianista Pete Wasner, un gruppo con un suono molto classico e discreto, senza interventi sopra le righe, anche perché giustamente le protagoniste del disco sono le voci di John e delle sue colleghe.

Il CD si apre con Who’s Gonna Take The Garbage Out, in origine un duetto tra Ernest Tubb e Loretta Lynn, proprio con la DeMent ospite (perché non proprio la Lynn invece? Dopotutto è ancora viva ed in ottima forma), una country song pimpante e fresca, con un bel contrasto tra la voce limpida di Iris e quella segnata dal tempo di John. Storms Never Last è un brano di Jessi Colter la cui versione originale era proposta con il marito Waylon Jennings: qui c’è Lee Ann Womack, ed il pezzo, una western ballad coi fiocchi, è riletta in maniera molto pacata dal duo. La tenue Falling In Love Again (Don Williams) vede la brava Alison Krauss al microfono, che impreziosisce la dolcissima melodia con il suo timbro cristallino; Color Of The Blues, di George Jones, è il capolavoro del disco, uno scintillante honky-tonk con una splendida Susan Tedeschi, che si adatta invero in maniera straordinaria ad un genere che non è il suo, al punto che mi viene da chiedermi come sarebbe tutto un disco country da parte sua. La brava Holly Williams si alterna con John nella frizzante e godibile I’m Tellin’ You, uno swing d’altri tempi che originariamente era cantato da sua nonna, Audrey Williams, moglie del grande Hank. Remember Me (Scott Wiseman) vede l’intervento di Kathy Mattea, una delle voci più belle tra quelle coinvolte nel progetto, per un brano malinconico e molto cantautorale, ma dal pathos notevole, mentre Look At Us, con Morgane Stapleton (moglie di Chris), è un honky-tonk che più classico non si può, anche se forse è il pezzo più recente tra quelli presenti, essendo parte del songbook di Vince Gill.

Dim Lights, Thick Smoke And Loud, Loud Music, pezzo che ha avuto decine di versioni, da Flatt & Scruggs a Dwight Yoakam (qui c’è Amanda Shires, l’attuale signora Isbell) , è ancora gustosa e swingata, una delle più mosse del CD, e molto bella è anche Fifteen Years Ago (Conway Twitty), ancora con la Womack protagonista. Cold Cold Heart è la canzone più famosa tra quelle presenti, essendo uno dei superclassici di Hank Williams, e John la interpreta in maniera rigorosa in compagnia di Miranda Lambert; anche Dreaming My Dreams è molto nota, una ballata tra le più belle di Waylon Jennings, con ancora la brava Kathy Mattea ad alternarsi con Prine. Kacey Musgraves è una delle country-rockers più dinamiche tra le emergenti del panorama attuale, e la vivace Mental Cruelty, di Buck Owens, è perfetta per lei, mentre Mr. & Mrs. Used To Be, ancora di Tubb & Lynn ed ancora con Iris DeMent, è un altro country tune terso e profondamente melodico, con un eccellente Wasner al piano. Il CD si conclude con la fluida My Happiness (Jim Reeves), nella quale John è raggiunto dalla moglie Fiona (che non è una cantante professionista ma se la cava egregiamente), e con Just Waitin’, un pezzo tra i meno noti di Hank Williams, che vede John chiudere in solitudine, con un talkin’ ironico che sembra più un brano suo che un classico del grande Hank.

Se In Spite Of Ourselves non vi aveva convinto del tutto, fate vostro senza problemi questo For Better, Or Worse, è tutta un’altra cosa. Adesso però mi piacerebbe rivedere John Prine alle prese con un album composto interamente da lui.

Marco Verdi

Non Solo Figli Di Papà, Ma Anche Ottima Musica! Una Piccola Cronistoria Dei Pines.

pines above the prairie

Pines – Above The Prairie – Red House Records 2016

Pines – Dark So Gold – Red House Records 2012

Pines – Tremolo – Red House Records 2009

Pines – Sparrows In The Bell – Red House Records 2007

Pines – The Pines – Trailer Records 2004

Dobbiamo ringraziare Bo Ramsey storico collaboratore, autore, produttore, chitarrista (anche di Joan Baez e Lucinda Williams) ma principalmente amico e sodale di Greg Brown, se abbiamo scoperto i Pines, una indie-band originaria dello stato dello Iowa, ma di stanza nel Minnesota. In pista da più di  una decade, i Pines nascono come un trio, formatosi nel lontano 2002 per merito del cantante-chitarrista David Hulkfelt, e dei multi-strumentisti Benson e Alex Ramsey (entrambi figli di cotanto padre), cresciuti e abbeverati musicalmente alle radici del country, del folk e del blues.

pines the pines

Il loro esordio con l’etichetta Trailer Records, prodotto guarda caso da Bo Ramsey, avviene con l’omonimo The Pines (‘04), un lavoro con brani up-tempo folk rock, che vedeva coinvolti amici e colleghi musicisti, tra i quali il bravo David Zollo (visto recentemente in concerto a Pavia), Dave Moore e Pieta Brown (figlia di Greg Brown) alternando brani strumentali con il bluesy folk di Bound The Fall, la dolce melodia di Pale White Horse, e le svisate blues più accentuate di Stevenson Motel Breakdown.

pines sparrows in the bell

Dopo qualche anno di gavetta si accasano alla Red House Records (l’etichetta fondata da Greg Brown) e incidono Sparrows In The Bell (07) con brani in gran parte acustici e di atmosfera, contando ancora sull’apporto della chitarra di Bo, e avendo come ospiti musicisti di valore tra i quali Chris Morrissey della band di Andrew Bird, J.T.Bates, e il cantautore Mason Jennings, album che ha i suoi momenti memorabili nel decadente blues di Don’t Let Me Go e Careless Love, il lieve country-folk di Midnight Sun e Circle Around The Sun, e il delicato bluegrass dell’iniziale Horse & Buggy.

pines tremolo

Con Tremolo (09) prosegue il percorso indie-rock, ma anche folk dei Pines, disco dove spiccano Heart & Bones https://www.youtube.com/watch?v=lyQ5FZ9y51s , due ballate lente e sussurrate come Meadows Of Dawn e Shiny Shoes, e cover d’autore come Skipper And His Wife di John Koerner e Spike Driver Blues del grande Mississippi John Hurt. Con la produzione sempre di Ramsey babbo, negli anni i Pines diventano una vera e propria band con l’aggiunta di Michael Rossetto al banjo, J.T.Bates alla batteria, James Buckley al basso e il chitarrista Jacob Hanson.

pines dark so gold

E con il quarto lavoro Dark So Gold (12) i ragazzi alzano l’asticella: a partire dall’ottima Cry Cry Crow, un brano che tanti osannati gruppi oggi non sanno più scrivere https://www.youtube.com/watch?v=3ZbcWxWCGqE , i dolci accordi di una strumentale Moonrise, Iowa, le note elettriche di un blues moderno in Rise Up And Be Lonely, una ballata dolceamara come Be There In Bells dove si rincorrono il piano e una slide guitar, fino ad arrivare al vivace folk -rock di una solare Chimes.

Adesso arriva sul nostro lettore questo Above The Prairie, e i Pines sono pronti a fare il botto, e per farlo si sono chiusi in sala d’incisione oltre ai due leader David Hulkfelt chitarra acustica e voce, e Benson Ramsey chitarre, tastiere e voce, il fratello Alex Ramsey al pianoforte e voce, di nuovo J.T.Bates alla batteria, James Buckley al basso, Jacob Hanson alle chitarre elettriche, Michael Rossetto al banjo, e una schiera di ospiti capitanati dal violinista Ray David Young (membro dei Trampled By Turtles), Tim Britton flauto e pipes, il compianto John Trudell (grande musicista nativo americano, poeta e attivista, scomparso da poco), Iris DeMent, e il non trascurabile apporto della famiglia Brown (Greg (padre), Pieta e Constie (figlie e sorelle), e per quanto riguarda la produzione la lascio indovinare a chi legge.

Come nei lavori precedenti le dieci tracce di Above The Prairie si suddividono in canzoni e brani strumentali, entrambi di notevole fattura. Il brano d’apertura Aerial Ocean si differenzia subito dalle altre canzoni, con una melodia che dà supporto alla voce del cantante su tematiche care a Mark Knopfler, a cui fanno seguito la bella There In Spirit dall’incedere “folkeggiante”, il primo brano strumentale del lavoro Lost Nation, con delle note che disegnano una musica da “paesaggi lunari”, e la ritmata Hanging From The Earth, dove il pianoforte di Alex si mescola con i battiti della batteria. Con Here arriva la perla del disco, con un intro lento del pianoforte, che poi nello sviluppo si tramuta quasi in un inno di stampo “celtico”, pezzo che vede il violino di Young svolazzare sulle armonie vocali della brava Iris DeMent e il resto della famiglia canterina di Greg Brown, mentre un bel vortice di suoni accompagna in tutto il suo percorso Where Something Wild Still Grows, passando poi ad una tenue e sussurrata Sleepy Hollow, che introduce il secondo brano strumentale Villisca, dove emerge la bravura di Britton alle cornamuse, e una “dylaniana” Come What Is dal suono indie-folk. L’album si chiude con un’epica ballata Time Dreams, che vede la partecipazione di John Trudell e dei suoi Quitman (probabilmente si tratta del suo testamento musicale, è morto il giorno 8 Dicembre dello scorso anno), con la splendida voce narrante di John che recita pensieri spirituali e profondi, “sopra la prateria”.

I Pines (il nome è inspirato a In The Pines , una canzone della tradizione folk degli Appalachi) con questo Above The Prairie, chiudono idealmente un percorso iniziato con Sparrows In The Bell e soprattutto Tremolo e Dark So Gold (quelli che li hanno fatti conoscere non solo al pubblico del Midwest). Il passaggio fondamentale è stato l’inserimento di altri strumenti, tra cui chitarra elettrica, basso e batteria, oltre all’uso determinante del pianoforte e violino, a completamento di testi fortemente introspettivi, che tendono a creare composizioni sicuramente eterogenee, magistralmente giocate sulle voci particolari di Ramsey e Huckfelt. In conclusione Above The Prairie è un ottimo disco, suonato e arrangiato benissimo, con una band assolutamente da scoprire e amare, e per chi scrive si tratta della seconda “rivelazione” di inizio anno, dopo l’album di Marlon Williams http://discoclub.myblog.it/2016/02/11/vecchio-nuovo-debutto-bollino-blu-marlon-williams-marlon-williams/ .

NDT: Ascoltando questi dischi ho mi è parso di cogliere anche qualche similitudine con gli ultimi lavori dei Lowlands dell’amico Ed Abbiati, e questo deve certamente suonare a favore di Ed e del suo gruppo, in quanto forse non è da tutti avere alle spalle la distribuzione di una etichetta piccola ma gloriosa come la Red House, e la produzione di “babbo” Bo.!

Tino Montanari