Ben Prima Di Wilburys Ed ELO (E Della Barba), Ecco I Primi Passi Di Jeff Lynne. The Idle Race – The Birthday Party Deluxe Edition

idle race birthday party

The Idle Race – The Birthday Party Deluxe Edition – Grapefruit/Cherry Red 2CD

Interessante e per chi scrive gradita ristampa di The Birthday Party, album d’esordio degli Idle Race, gruppo pop britannico proveniente da Birmingham che altro non è che la band nella quale Jeff Lynne mosse i primi passi musicali nel lontano 1967, prima di entrare nei Move e successivamente “trasformarli” nella Electric Light Orchestra, band che gli darà fama mondiale e che gli permetterà di far entrare il suo nome nel giro che conta consentendogli di diventare, a partire dalla seconda metà degli eighties, uno dei produttori più richiesti dalla crema del rock internazionale. Lynne non ha mai nascosto il suo grande amore per i Beatles (specialmente il lato McCartney), e questa influenza si manifesta in maniera chiara e lampante ascoltando queste incisioni, una bella serie di canzoni pop gradevoli e dirette, con coretti e melodie orecchiabili, un tocco di vaudeville e persino un pizzico di psichedelia (il suono “californiano” del Jeff produttore è qui ancora molto lontano, ma le radici del suo stile ci sono già).

Eppure gli Idle Race non sono al 100% una creatura di Lynne, in quanto si formarono nel 1966 sull’ossatura dei Nightriders (gruppo nel quale aveva militato anche Roy Wood, amico di gioventù di Jeff ed in seguito con lui sia nei Move che nella prima ELO): il nostro prese il posto di Johnny Mann, e con i “superstiti” Dave Pritchard alla chitarra ritmica, Greg Masters al basso e Roger Spencer alla batteria formò appunto gli Idle Race (in un primo momento il nome era Idyll Race), con i quali esordì nel 1967 con un paio di singoli e nel 1968 con l’album The Birthday Party, disco che non ebbe il minimo successo nonostante il buon livello delle canzoni, un po’ per la scarsa promozione da parte della Liberty, un po’ per la bizzarra scelta di non estrarne neppure un singolo, ma anche perché un certo tipo di pop all’acqua di rose (ed un po’ derivativo) arrivava forse leggermente fuori tempo massimo.

Risentito oggi l’album, pur nella sua brevità (meno di mezz’ora), è un divertente e gradevole esempio di puro pop beatlesiano, nel quale troviamo i germogli del talento di Lynne che scrive tutte le canzoni tranne una, pur con qualche ingenuità di fondo (tra l’altro l’ormai famosa frase “produced by Jeff Lynne” la troveremo dal loro secondo lavoro, in quanto qui alla consolle ci sono Eddie Offord e Gerald Chevin). I brani sono tutti estremamente godibili: la saltellante Skeleton And The Roundabout, una deliziosa ed orecchiabile pop song con uno stile a metà tra il vaudeville degli anni trenta ed i Fab Four, il pop barocco di The Birthday, già con alcuni elementi nel songwriting di Lynne che ritroveremo negli anni a seguire, la squisita I Like My Toys, un pezzo accattivante che avrebbe potuto essere un buon singolo. Ma anche gli altri pezzi, pur non avendo cambiato la storia del pop-rock, sono meritevoli di ascolto, come la solare Morning Sunshine, Follow Me Follow, dalla melodia fresca e con similitudini anche con i Bee Gees, o le ugualmente fresche e piacevoli Sitting In My Tree e On With The Show, le super-beatlesiane Lucky Man, Don’t Put Your Boys In The Army, Mrs. Ward e The Lady Who Said She Could Fly (tutte influenzate dal sound di Sgt. Pepper) e la ballata End Of The Road, con gli archi che in un certo senso anticipano il futuro suono della ELO; non male neanche Pie In The Sky, unico pezzo scritto e cantato da Pritchard.

Questa nuova edizione della Cherry Red non contiene inediti assoluti, ma è comunque interessante perché il primo CD include per la prima volta la versione mono dell’album, mentre nel secondo trova posto la controparte in stereo, il tutto impreziosito da dieci bonus tracks totali, nove nel primo dischetto (tutte in mono) ed una soltanto nel secondo, una versione alternata in stereo di Sitting In My Tree (dato che per motivi ignoti anche nell’edizione originale in stereo dell’album questa canzone era in mono) pubblicata originariamente nella ristampa del 1976. Il primo CD comprende invece sei brani usciti solo su 45 giri nel triennio 1967-68-69 (la pimpante The Lemon Tree, scritta da Roy Wood ed incisa anche dai Move, la bella e rockeggiante My Father’s Son di Pritchard, la bizzarra Imposters Of Life’s Magazine, l’orecchiabile b-side Knocking Nails Into My House, la vibrante Days Of The Broken Arrows, tra pop e rock’n’roll e tipica di Lynne, e la misticheggiante Worn Red Carpet, ancora di Pritchard) e tre takes alternate già pubblicate nell’antologia del 1996 Back To The Story (Lucky Man, Follow Me Follow e Days Of The Broken Arrows).

Lynne rimarrà nel gruppo anche per il seguente Idle Race (1969), dopodiché accetterà l’invito da parte di Wood di entrare nei Move (ed il seguito è noto), mentre il resto della band, con qualche cambio in formazione, pubblicherà ancora Time Is nel 1971 e poi, dato anche il perdurante insuccesso, diventerà il nucleo della Steve Gibbons Band.

Marco Verdi

L’Astronave E’ Tornata Ai Fasti Di Un Tempo? Jeff Lynne’s ELO – Wembley Or Bust (E Un Breve “Saluto” A Malcolm Young)

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Jeff Lynne’s ELO – Wembley Or Bust – Columbia/Sony 2CD/BluRay – 2CD/DVD – 2CD – 3LP

Dopo il flop del suo album del 2001 Zoom (accreditato alla Electric Light Orchestra per ragioni di marketing) con conseguente annullamento della tournée successiva per mancato interesse del pubblico, secondo me neppure lo stesso Jeff Lynne avrebbe pensato ad un ritorno di popolarità del gruppo che gli diede fama e successo negli anni settanta. Negli ultimi anni c’è però stata una decisa spinta “revivalistica” verso gli acts più popolari del cosiddetto periodo “classic rock”, ed anche il barbuto songwriter-cantante-produttore ne ha beneficiato, prima con l’assaggio del concerto di Hyde Park di due anni fa (e relativo DVD), poi con il nuovo album di studio uscito sempre nel 2015, Alone In The Universe (per la verità non un grande successo, a dimostrazione che oggigiorno le rockstar i soldi li fanno con i concerti e non con i dischi http://discoclub.myblog.it/2015/12/04/la-serie-chi-si-accontenta-gode-jeff-lynnes-elo-alone-the-universe/ ), entrambi sotto il nuovo moniker Jeff Lynne’s ELO, creato ad hoc per prendere le distanze dal gruppo farlocco messo su dai suoi ex compagni negli anni novanta. A quel disco è seguito un tour quello sì di grande impatto (e già ci sono nuove date pronte per il 2018), culminato con la serata del 24 Giugno di quest’anno al Wembley Stadium di Londra, a detta dello stesso Lynne l’evento “top” della sua carriera artistica.

Ed a ragione, in quanto il mitico stadio londinese era tutto esaurito, con un colpo d’occhio impressionante, tutto molto ben evidenziato dalle immagini del film-concerto uscito per celebrare la serata, Wembley Or Bust, che a differenza del live a Hyde Park comprende anche la versione audio. Ed il concerto è altamente spettacolare, grazie all’enorme palco sul quale incombe la ben nota astronave da sempre simbolo del gruppo, ma anche al suono potente e decisamente più rock che su disco, ad opera di una numerosa live band che però non ha nulla a che vedere con la ELO originale, che è ormai un progetto di studio del solo Jeff: l’unico membro passato, il pianista Richard Tandy, è assente per problemi di salute, ma ci sarà nel tour del 2018. Sul palco, compreso Lynne, sono ben in tredici, in modo da ricreare al meglio le architetture pop della band inglese, ed anche le complesse armonie vocali, molto influenzate da Beatles e Beach Boys: non li nomino tutti, ma meritano senz’altro una citazione il chitarrista ritmico e direttore musicale Mike Stevens, il bassista Lee Pomeroy, la seconda chitarra solista e slide Milton McDonald, il backing vocalist (che di tanto in tanto canta anche qualche strofa come voce solista) Iain Hornal, ed il trio di archi tutto al femminile formato dalle sorelle Rosie ed Amy Langley (entrambe molto attraenti) rispettivamente al violino e violoncello, e Jessica Cox anch’essa al violoncello.

Lynne sul palco ricorda un po’ Roy Orbison: non si muove molto, non è un vero animale da palcoscenico, a volte appare anche piuttosto intimidito dall’enorme quantità di pubblico, ma bastano ed avanzano le sue canzoni per mandare in visibilio gli oltre sessantamila presenti sugli spalti (con un’età media, bisogna dirlo, abbastanza elevata). Dopo l’apertura con la trascinante Standing In The Rain, tra rock, pop, e musica sinfonica, vediamo sfilare una bella serie di brani che, volenti o nolenti, sono ormai dei classici del pop-rock internazionale: la danzereccia Evil Woman, l’errebi Showdown, la godibile Living Thing, nella quale troviamo le radici del Wilbury sound, le deliziose ballate Can’t Get It Out Of My Head e Telephone Line, molto beatlesiane, l’antica 10538 Overture, il gioiellino pop Sweet Talkin’ Woman, la mossa Turn To Stone (che non mi ha mai entusiasmato) e la trascinante Don’t Bring Me Down. Dall’ultimo album Jeff suona solo un pezzo, la ballad When I Was A Boy (dal ritmo leggermente accelerato rispetto alla versione in studio), mentre pesca dal suo songbook anche qualche sorpresa, come una sempre splendida Handle With Care (giusto omaggio ai Traveling Wilburys), l’inattesa Xanadu, in origine cantata da Olivia Newton-John, la festosa All Over The World e la mini-suite di quattro minuti Wild West Hero. Non viene dimenticata anche la ELO più “disco music”, Last Train To London e Shine A Little Love, fortunatamente controbilanciate dalla parte rock’n’roll formata da Do Ya (un’eredità dei Move), Rockaria! e Ma-Ma-Ma Belle. Gran finale con la famosissima Mr. Blue Sky, forse la signature song di Lynne per antonomasia, e la sempre strepitosa Roll Over Beethoven, puro e trascinante rock’n’roll, con i violini tenuti al minimo sindacale in favore delle chitarre.

Sono ben conscio che Jeff Lynne e la ELO rientrano nella categoria “piaceri proibiti”, ma sono convinto che se il pop cosiddetto da classifica di oggi fosse a questi livelli vivremmo in un mondo (musicale) migliore.

Marco Verdi

P.S: a proposito di piaceri proibiti, volevo spendere due parole in ricordo di Malcolm Young, storico chitarrista ritmico degli AC/DC, scomparso il 18 Novembre scorso a soli 64 anni per problemi pare legati al cuore (ma anni fa aveva sconfitto un cancro ai polmoni, e nel 2014 aveva dovuto abbandonare il gruppo a causa di una forma tutto sommato precoce di demenza senile). Fratello meno famoso di Angus Young (iconico leader della band australiana di origine scozzese, grazie anche al suo abbigliamento da scolaretto ed al passo dell’oca, che però fu introdotto nel rock’n’roll da Chuck Berry), Malcolm è sempre stato un leader silenzioso ma determinante per il suono del gruppo, essendo parte integrante e fondamentale della spina dorsale ritmica dei potenti brani del quintetto: dagli addetti ai lavori è stato infatti giudicato uno dei migliori chitarristi ritmici in campo hard rock di sempre. Adesso Malcolm ritroverà il vecchio amico Bon Scott, e magari organizzeranno una bella jam session a tutto rock…non prima magari di essersi fatti un goccetto.

*NDB del P.S. Circa un mese prima, il 22 ottobre scorso, è morto a 71 anni, anche George Young, che era il fratello maggiore di Angus e Malcolm, nonché il produttore con Harry Vanda dei primi dischi degli AC/DC e prima ancora, sempre con l’accoppiata Vanda/Young era stato il leader degli Easybeats, una delle band storiche del primo rock australiano autori del mega successo mondiale Friday On My Mind (immortalato per i posteri anche da David Bowie su Pin Ups, il suo disco di cover, e per noi italiani, come La Follia, dai Ribelli di Demetrio Stratos, come Lato B di Pugni Chiusi https://www.youtube.com/watch?v=OlHVY9bZtDA). Il disco originale era prodotto da Shel Talmy, quello degli Who e dei Kinks.

Novità Di Marzo Parte I. Todd Snider, Katie Melua, Move, Cast, Magnetic Fields, Andrew Bird

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Questa settimana la lista delle nuove uscite è più scarna del solito non perché non ci siano nuovi dischi in uscita ma tra recensioni, anteprime delle anticipazioni e post appositi ormai gli argomenti sono stati sviscerati tutti. Come sapete martedì prossimo 6 marzo, tra i tanti, esce anche il nuovo Bruce Springsteen e la recensione di un paio di giorni fa ha fruttato al Blog il suo record di visite in un giorno, quasi 750, che per un Blog “specializzato” e non “troppo frivolo” non è male (evidentemente l’argomento interessava). Quindi grazie e spargete la conoscenza tra gli amici. Passiamo agli altri dischi interessanti in uscita martedì prossimo.

Katie Melua, la cantante di origine Georgiana (ex repubbliche russe non USA), con questo nuovo disco Secret Symphony, il quinto della sua discografia, sempre per la Dramatico Records/Edel, dopo la parentesi con il produttore William Orbit dello scorso album, torna a collaborare con il suo scopritore, mentore e boss dell’etichetta Mike Batt. Accompagnata dalla Secret Symphony Orchestra sotto la supervisione di Mike Batt, questa volta la Melua, a parte un paio di brani originali, si cimenta come interprete di brani altrui, la maggior parte di Batt ma anche cover di Francoise Hardy, Ron Sexsmith, Fran Healy (quello dei Travis) e un classico come Nobody Knows You When You’re Down And Out scritto da Jimmie Cox ma reso celebre da Bessie Smith e da mille altri che nel corso degli anni l’hanno cantata (Odetta, Janis Joplin, Nina Simone, Otis Redding, Clapton più volte, anche John Lennon e Carla Bruni, il sacro e il profano).

Dopo il doppio dal vivo dello scorso anno Todd Snider ci presenta un nuovo album Agnostic Hymns & Stoner Fables che si dice lo riporti ai fasti della sua prima produzione. Registrato in quel di Nashville, ma nella parte giusta della città, anche questo disco tocca temi sociali che sono tornati in auge nella musica americana del dopo (o durante) crisi. Esce per la Aimless Records, in tutto il disco c’è Amanda Shires al violino che fa la Scarlet Rivera della situazione (e anche come avvenenza ci siamo) e c’è pure una bella cover di un “oscuro” brano di Jimmy Buffett, West Nashvllle Grand Ballroom Gown (per i più curiosi era su Living & Dying in 3/4 Time, uno dei primi e più belli di Buffett). Se gli volete dare una ascoltata…todd-sniders-agnostic-hymns-and-stoner-fables.html

Andrew Bird è un musicista abbastanza prolifico (per usare un eufemismo): tra dischi in studio, dal vivo, EP, gruppi in cui ha militato e collaborazioni varie avrà pubblicato ben più di venti album in una quindicina di anni. Tra l’altro è un cantautore anomalo perchè il suo strumento principale è il violino anche se suona pure la chitarra. In effetti questo Break It Yourself è il suo sesto album da solista, il primo per la Mom+Pop Records (la stessa che pubblica Ingrid Michaelson e Joshua Radin) negli Stati Uniti e per la Bella Union distr. Universal in Europa. Tra rock, folk e qualcuno ha detto pop barocco (sarà il violino) questo signore è uno di quelli bravi ed interessanti, da scoprire.

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Un’altra chicca di archivio per uno dei gruppi storici del pop britannico, i Move (la BBC 1 inaugurò le sue trasmissioni con Flowers In The Rain nel settembre 1967). Per noi italici i Move erano anche quelli di Blackberry Way, Tutta Mia La Città nella traduzione di Mogol per l’Equipe 84. Ma i Move sono stati soparattutto il gruppo di Roy Wood e di Bev Bevan e Carl Wayne (senza di lui e con l’aggiunta di Jeff Lynne sarebbero diventati poi l’Electric Light Orchestra). Questo doppio CD Live At the Fillmore 1969  è la registrazione inedita di un concerto completo dell’epoca edito dalla Nova Sales & Distribution. Tra l’altro contrariamente a quanto ho letto, e compatibilmente con l’epoca, la qualità del suono non mi sembra affatto male e consente di gustare il gruppo nella proprio fase rock e psichedelica con versioni lunghe e ricche di assoli dei loro brani classici e non. Per gli amanti una piccola chicca.

Tornano i Cast di John Power (già bassista nei La’s), uno dei gruppi in auge nel periodo del Britpop. Dopo 10 anni di pausa tornano con questo nuovo Troubled Times, già edito da qualche mese in formato digitale e ora distribuito in proprio sulla loro etichetta. Se vi piace il power pop.

I Magnetic Fields sono fondamentalmente la creatura di Stephin Merritt e sono in circolazione da oltre vent’anni (l’esordio è del 1991 con Distant Plastic Trees) ma sono conosciuti soprattutto per 69 Songs un triplo CD che conteneva, come da titolo, 69 canzoni di cui almeno la metà erano piccole perle di pop di grande qualità. Però mi sembra che nè prima né dopo abbiano fatto dei dischi all’altezza della reputazione di quel disco. Anche questo Love At the Bottom Of The Sea pubblicato dalla Domino Records, più orientato sull’elettronica ma con qualche escursione pop non mi sembra entusiasmante anche se qualche spunto interessante non manca ma hanno un loro seguito per cui si segnala comunque!

Avrei finito, ma, anche se lo spazio non c’entra nulla, vorrei ricordare che il 29 febbraio è scomparso anche Davy Jones, il cantante originale dei Monkees una delle più popolari formazioni americane degli anni ’60, aveva 66 anni. E il brano del video mi piaceva un casino, insieme a tantissime altre!

Bruno Conti