Quando Gli “Scarti” Sono Meglio Dei Brani Originali! Lukas Nelson & Promise Of The Real – Naked Garden

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Lukas Nelson & Promise Of The Real – Naked Garden – Fantasy/Concord CD

Non credo sia un caso che il miglior disco della carriera di Lukas Nelson e dei suoi Promise Of The Real (Tato Melgar, Anthony LoGerfo, Corey McCormick e Logan Metz) sia il loro album omonimo uscito nel 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/09/19/con-babbo-fratello-zia-e-cugine-acquisite-al-seguito-non-male-lukas-nelson-and-promise-of-the-real/ , quarto in totale e primo per la Fantasy, e cioè il lavoro uscito al termine della loro esperienza sia live che in studio come backing band di Neil Young: Lukas ha indubbiamente imparato moltissimo dalla collaborazione con il Bisonte, e la sua maturazione era palese in quel disco che, pur non essendo un capolavoro, era un ottimo esempio di rock americano al 100%, con diverse canzoni di livello egregio. E non dimentichiamo che essere figlio di Willie Nelson se hai un minimo di talento e sai assorbire gli insegnamenti nel modo giusto può essere un enorme vantaggio, anche se è successo più volte che avere come padre una leggenda è stato come il “bacio della morte” per decine di giovani musicisti.

Lo scorso anno Lukas e i POTR hanno pubblicato Turn Off The News (Build A Garden), un lavoro che avrebbe dovuto confermare quanto di buono fatto nel disco del 2017, ma che in realtà si è rivelato una parziale delusione, in quanto sembrava di avere a che fare con un album di pop-rock californiano, che non sarebbe di per sé un difetto, ma l’approccio alle canzoni era troppo rilassato e piuttosto molle, e la sensazione era che i brani stessi non fossero di prima scelta. Ho avuto la fortuna di vedere i POTR dal vivo con Young, e mi sono reso conto di avere di fronte una rock band con le contropalle, perfetta tra l’altro per accompagnare il vecchio Neil (sono una specie di Crazy Horse meno rozzi e più tecnici), ma nel disco di un anno fa non ho ritrovato lo stesso gruppo bensì una band qualunque, senza grinta e mordente. Immaginatevi quindi il mio entusiasmo quando ho appreso che, a distanza di meno di un anno, i nostri sarebbero usciti con un nuovo lavoro che già dal titolo, Naked Garden, si riallacciava all’album del 2019, e nel quale avrebbero inserito outtakes di quelle sessions e versioni alternate di pezzi di Turn Off The News, il tutto con un suono meno lavorato e più crudo.

Temevo quindi il peggio, dato che già il CD di un anno fa non mi aveva entusiasmato e non avevo grandi aspettative per una collezione di brani scartati da quelle registrazioni, ma con mia grande sorpresa devo ammettere che Naked Garden si è rivelato fin dal primo ascolto come un signor disco, un lavoro diretto e piacevole che ci ha restituito il gruppo che aveva fatto ben sperare negli anni precedenti. Sarà il suono più grezzo e rock, con le chitarre di nuovo in primo piano, sarà l’approccio differente verso le versioni alternate dei brani già noti, ma questo disco è un piacere dalla prima all’ultima nota, ed una volta terminato l’ascolto mi viene anche il dubbio che l’anno scorso Lukas non sia stato proprio lungimirante nello scegliere i brani da inserire in Turn Off The News. Quindici pezzi in tutto, di cui sette già conosciuti (Speak The Truth i nostri la suonano dal vivo già da qualche anno, anche se in studio non era ancora stata pubblicata) e otto inediti: le canzoni nuove iniziano con Entirely Different Stars, avvio deciso e potente per un brano dal sapore sudista ed un giro chitarristico di stampo blues, con i primi due minuti acustici seguiti da un’entrata vigorosa della band che dona al pezzo tonalità addirittura psichedeliche. La saltellante Back When I Cared è quasi country e presenta un motivo decisamente orecchiabile ed un arrangiamento “rurale”; Movie In My Mind è una rock ballad tersa, rilassata e molto piacevole, con la strumentazione usata in maniera fluida, mentre Focus On The Music è una country ballad pianistica suonata in modo elegante che risente dell’influenza di papà Willie.

My Own Wave è un brano particolare, una ballata con elementi sia rock che funky che country, il tutto molto godibile e con un refrain immediato, Fade To Black mi ricorda invece certi midtempo cadenzati di Tom Petty, con in più un retrogusto blue-eyed soul. I brani inediti terminano con la solida Couldn’t Break Your Heart, bella rock’n’roll song dai toni crepuscolari, e con la sorprendente The Way You Say Goodbye, un valzerone d’altri tempi in cui Lukas sembra quasi Roy Orbison (voce a parte). E veniamo ai pezzi già noti: detto della già citata Speak The Truth (un gradevole brano funkeggiante ed annerito), ci sono due versioni alternate di Civilized Hell, una elettrica molto più diretta di quella dell’anno scorso, con un drumming possente ed una slide appiccicosa, ed una intensa e rallentata rilettura acustica (anche se il mio orecchio percepisce anche qui una chitarra elettrica). La solare Out In L.A. era già tra le più piacevoli di Turn Off The News, e questa versione extended non mi fa cambiare idea, così come la splendida rilettura alternata della bella Bad Case, decisamente trascinante e tra i migliori momenti del CD. Chiudono Naked Garden due missaggi differenti e più spontanei di Stars Made Of You e Where Does Love Go, quest’ultima bellissima, coinvolgente e con agganci alle produzioni di Jeff Lynne per Tom Petty e Traveling Wilburys.

Una bella sorpresa dunque questo Naked Garden, ed ennesima dimostrazione che a volte quello che viene lasciato fuori dai dischi è meglio di ciò che viene pubblicato.

Marco Verdi

Signore E Signori: Il Disco Dell’Estate 2020! Jimmy Buffett – Life On The Flip Side

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Jimmy Buffett – Life On The Flip Side – Mailboat CD

Jimmy Buffett è un personaggio abbastanza unico nel panorama musicale americano: originario dell’Alabama (ma nato in Mississippi), cantautore di stampo classico dichiaratamente ispirato a James Taylor, ha sviluppato fin dai primi anni una passione per i suoni ed i ritmi delle isole caraibiche, creando un sound gioioso e solare in cui le steel drums hanno una parte determinante e perfezionando una lunga serie di album perfetti da ascoltare durante i mesi estivi, con canzoni dai testi spesso ironici ispirati al dolce far niente ed alla fuga dalla dura realtà quotidiana. Il suo songbook è ricco di classici del calibro di Margaritaville, Volcano, One Particular Harbour, Cheeseburger In Paradise, Fins, Come Monday, Changes In Latitudes, Changes In Attitudes e molti altri, ed anche le sue esibizioni dal vivo sono famose, con decine di migliaia di fans presenti ad ogni concerto (noti come “Parrotheads”): tutto ciò ha reso il nostro molto più popolare in America che dalle nostre parti, ed infatti in Europa (Parigi a parte) non viene praticamente mai. Negli ultimi anni Buffett ha parecchio diradato la sua produzione discografica, con un solo album pubblicato nella decade appena trascorsa (a parte il natalizio ‘Tis The SeaSon del 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/11/30/caraibi-tradizione-due-modi-diversi-celebrare-il-natale-jimmy-buffett-tis-the-seasonloretta-lynn-white-christmas-blue/ ), l’ottimo Songs From St. Somewhere che era il seguito dell’altrettanto valido Buffet Hotel del 2009.

Life On The Flip Side segna quindi il più che gradito ritorno di Jimmy, e fin dalla confezione esterna (un elegante slipcase che contiene il CD in digipak ed un libretto di ben 62 pagine con foto, testi ed esaurienti note brano per brano) si capisce che il nostro ha fatto le cose in grande. Il layout mi ricorda parecchio quello di Fruitcakes, disco del 1994 che non a caso è per il sottoscritto il suo migliore in assoluto (insieme a Last Mango In Paris del 1985 e License To Chill del 2004), e la cosa di cui però mi compiaccio maggiormente è che, una volta ascoltato l’album, posso affermare di avere tra le mani uno dei lavori più belli di Buffett, e di certo il suo migliore dallo stesso License To Chill in poi. Jimmy è accompagnato come sempre dalla Coral Reefer Band, un formidabile ensemble di ben 12 tra musicisti e coristi (tra i quali spiccano i chitarristi e songwriters per conto proprio Mac McAnally e Will Kimbrough, il tastierista e direttore musicale Michael Utley, lo steel drummer Robert Greenidge e la fantastica sezione ritmica formata da Jim Mayer al basso, Roger Guth alla batteria ed Eric Darken alle percussioni), ma quello che rende Life On The Flip Side un gradino sopra altri lavori di Buffett è proprio l’eccellente qualità delle 14 canzoni, con il nostro responsabile da solo o con altri (soprattutto Kimbrough e McAnally) di un buon 80% del totale; come ulteriore ciliegina abbiamo il coinvolgimento di Lukas Nelson in un pezzo e, in ben tre canzoni, del noto cantautore irlandese Paul Brady, il quale mostra un’insolita vena gioiosa e “vacanziera”.

Inizio splendido proprio con uno dei brani che vede Brady collaborare sia alla scrittura che ai cori: Down At The Lah De Dah è un irresistibile pezzo country caraibico e solare tra i più belli e diretti mai pubblicati da Jimmy, una vera gioia per le orecchie con uno di quei motivi che non escono più dalla testa. Avvio strepitoso, sentire per credere. Who Gets To Live Like This vede la partecipazione di Nelson alla stesura del pezzo (ed ai cori), per una gradevole canzone di stampo reggae e con una linea melodica rilassata e godibile tipica di Jimmy (non manca l’assolo di steel drums); con The Devil I Know “sconfiniamo” in una ballroom texana, per un country’n’roll tutto ritmo e godimento sonoro, con il leader che mostra di divertirsi non poco (e noi con lui), mentre The Slow Lane è un’ariosa ballata con la slide che dona un sapore southern anche se l’elemento reggae non tarda a manifestarsi, un cocktail da gustare tutto d’un fiato. Cussin’ Island non cambia registro, siamo sempre in spiaggia con un margarita in mano ed una palma a farci ombra, Oceans Of Time (secondo brano di Brady, già noto nella versione del suo autore) è invece una splendida ballata lenta di stampo country, suono pieno e melodia avvolgente, tra le più belle del CD. La cadenzata Hey, That’s My Wave, caratterizzata da un ottimo refrain corale, fa tornare la voglia di prendere un volo per le Bahamas (la canzone è dedicata alla memoria di Dick Dale, e non manca un assolo chitarristico di stampo surf).

The World Is What You Make It è il terzo brano di Brady (risalente al 1995), con Paul stesso che duetta assieme a Jimmy e la Coral Reefer Band a fornire un background decisamente rock con le chitarre in primo piano, mentre la divertente Half Drunk ha un raffinato arrangiamento laidback dal sapore dixieland, un tipo di sound in cui il nostro si muove con classe ed eleganza. Mailbox Money è un country-rock elettrico e coinvolgente con un altro di quei ritornelli che non si staccano dalle orecchie, al contrario di Slack Tide che è una deliziosa ballad guidata dalla chitarra acustica e dal pianoforte, un brano che fa emergere il Buffett cantautore “serio”, non di certo inferiore a quello festaiolo. Il CD volge al termine, ma c’è ancora tempo per una doppia full immersion nei ritmi e colori delle isole del Mar dei Caraibi (la bellissima Live, Like It’s Your Last Day, vero riassunto in un titolo della filosofia di vita buffettiana, e la spassosa e trascinante 15 Cuban Minutes) e per il finale intimo e toccante di Book On The Shelf, intensa ballata nobilitata da una fisarmonica sullo sfondo nella quale il nostro dichiara di non avere ancora voglia di appendere la chitarra al chiodo. E questa è una gran bella notizia, perché soprattutto in questi momenti difficili c’è sempre più bisogno di dischi come Life On The Flip Side, in grado di farci trascorrere un’oretta di piacevole spensieratezza.

Marco Verdi

Facciamo Finta Che Questo Disco Non Esista! Brantley Gilbert – Fire & Brimstone

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Brantley Gilbert – Fire & Brimstone – Valory/Universal CD

Brantley Gilbert, musicista nativo della Georgia, dopo aver esordito nel 2009 con un album dalle vendite incerte (Modern Day Prodigal Son), ha capito in fretta come funziona il giochino a Nashville ed in breve tempo è diventato uno degli artisti country più popolari d’America, con ben tre album di fila andati al numero uno della classifica, compreso quello di cui mi accingo a scrivere. Il nostro ha infatti smesso molto presto di fare musica di qualità preferendo la via più facile: ha saputo entrare nel giro giusto circondandosi così di produttori di grido, sessionmen che vanno a lavorare timbrando il cartellino e mettendo a punto degli album di pop radiofonico travestito da country, che però è il genere che dalle parti della capitale del Tennessee ti fa volare alto nelle classifiche.

Fire & Brimstone, il nuovo CD di Gilbert, non si distacca dalla mediocrità congenita che è ormai la sua carriera, e dal suo punto di vista Brantley ha anche ragione: ho trovato il filone d’oro, perché mai dovrei cambiare? Musica anonima dunque, canzoni fatte con lo stampo con una strumentazione infarcita di suoni finti, all’insegna di synth, loop vari e drum programming a go-go. Anche l’approccio del titolare del disco è piuttosto molle, senza grinta, come se già sapesse che basta il minimo sindacale di impegno per avere successo: il risultato finale è un lavoro che ha ben poco di interessante per chi ama il vero country, con l’aggravante di essere anche piuttosto lungo. L’inizio è appannaggio di Fire’t Up, un rockin’ country elettrico che ad un ascolto distratto potrebbe sembrare aggressivo e grintoso, ma qualcosa non quadra: i suoni sono infatti finti, poco spontanei e pieni di effetti, ed il tutto va a scapito dell’immediatezza. Not Like Us, ancora dura e chitarristica, è un po’ meglio dal punto di vista del suono anche se non sono del tutto convinto: l’assolo è decisamente hard e poi comunque la canzone è deficitaria dal punto di vista dello script.

Anche Welcome To Hazeville, una ballata qualsiasi e per di più con un drumming che sa di sintetico, non è niente di speciale, e dispiace che in una tale pochezza siano stati coinvolti il bravo Lukas Nelson e soprattutto il leggendario padre Willie (che però si limita a cantare una breve frase alla fine), per di più insieme al rapper Colt Ford: in poche parole, un pasticcio brutto e musicalmente criminale. What Happens In A Small Town sembra la continuazione del brano precedente, e devo guardare il lettore per capire che la traccia è cambiata (ed il refrain è puro pop commerciale), She Ain’t Home prosegue con banalità un tanto al chilo, una ballata buona per chi non sa neanche cosa sia il vero country, Lost Soul’s Prayer è bruttina e ha un arrangiamento finto-rock che non va da nessuna parte. Il disco come ho già detto è pure lungo, 15 canzoni, ed in certi punti è una sofferenza: fra i pezzi rimanenti salvo solo Tough Town, che se non altro ha un buon tiro rock ed i suoni abbastanza sotto controllo, la title track, ballata elettroacustica nobilitata dalla presenza di Jamey Johnson ed Alison Krauss (ed anche la canzone non è malaccio, forse la migliore del CD), l’orecchiabile Bad Boy e la discreta Man Of Steel, dalle (molto) vaghe atmosfere western.

Il resto però è da mani nei capelli, almeno per chi li ha ancora.

Marco Verdi

Forse L’Unico Modo Per Fermarlo E’ Sparargli! Willie Nelson – Ride Me Back Home

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Willie Nelson – Ride Me Back Home – Legacy/Sony CD

Alla bella età di 86 anni suonati il grande texano Willie Nelson non ha la minima intenzione non solo di fermarsi, ma neppure di rallentare. Se ormai dal vivo fa fatica e si prende le sue (comprensibilissime) pause, in studio continua a viaggiare al ritmo di almeno un disco all’anno, quando non ne fa due (tipo lo scorso anno, prima con lo splendido Last Man Standing e poi con My Way, raffinato omaggio a Frank Sinatra), e sempre con una qualità piuttosto alta. Ora il barbuto countryman inaugura il suo 2019 con questo Ride Me Back Home, album in studio numero 69 per lui, un altro ottimo lavoro che, pur non raggiungendo forse i picchi creativi di Last Man Standing (che era però uno dei suoi migliori in assoluto, almeno negli ultimi venti anni https://discoclub.myblog.it/2018/05/07/non-solo-non-molla-ma-questo-e-uno-dei-suoi-dischi-piu-belli-willie-nelson-last-man-standing/ ), si posiziona tranquillamente molto in alto nella classifica qualitativa dei suoi dischi. Prodotto dall’ormai inseparabile Buddy Cannon, Ride Me Back Home è la solita prova di bravura, un lavoro decisamente raffinato e suonato con classe immensa da un gruppo di musicisti coi controfiocchi (tra i quali spiccano i formidabili Jim “Moose” Brown e Matt Rollings, entrambi al piano ed organo, James Mitchell alla chitarra, la sezione ritmica formata da Larry Paxton al basso e Fred Eltringham alla batteria, Bobby Terry alla steel e l’immancabile Mickey Raphael all’armonica) e cantato da Willie con una voce che, pur mostrando i segni dell’età, riesce ancora a dare i brividi ed a sprizzare carisma da ogni nota.

L’album, undici canzoni, si divide in maniera equilibrata tra brani originali scritti dal nostro a quattro mani con Cannon, più il rifacimento di un vecchio pezzo, un paio di canzoni nuove da parte di songwriters esterni ed una manciata di cover. I tre brani a firma Nelson-Cannon sono inaugurati da Come On Time, country song dal ritmo vivace e coinvolgente, texana al 100%, con una bella chitarrina ed un ritornello tipico del nostro; Seven Year Itch è un pezzo dal passo cadenzato ed atmosfera old-time, sembra quasi provenire dal songbook di Tennessee Ernie Ford, mentre One More Song To Write è una squisita country ballad dalla veste che richiama atmosfere sonore al confine col Messico. Stay Away From Lonely Places è un remake di un brano che Willie aveva scritto nel 1971: puro jazz d’alta classe con la band che sfiora appena gli strumenti, batteria spazzolata e Rollings che lavora di fino al piano, con Willie che si destreggia alla perfezione nel suo ambiente naturale. I due pezzi nuovi ma non scritti da Willie sono la title track (che apre l’album), bellissimo slow pianistico sfiorato dalla steel e valorizzato da una deliziosa melodia, e Nobody’s Listening, una canzone sempre dall’incedere lento ma con un arrangiamento atipico quasi più rock che country, un pianoforte liquido ed uno sviluppo fluido e rilassato.

Poi abbiamo due canzoni del grande Guy Clark, che Willie non aveva ancora omaggiato da dopo la scomparsa avvenuta nel 2016: My Favorite Picture Of You è uno dei brani più personali della carriera del grande songwriter texano (era dedicata alla moglie Susanna, mancata prima di lui), una ballatona intensa sempre con il piano in evidenza ed un arrangiamento raffinato, da brano afterhours, mentre Immigrant Eyes è davvero splendida, un pezzo toccante e superbamente eseguito, con un ispiratissimo assolo di Willie con la sua Trigger. Infine le altre cover: non ho mai amato particolarmente Just The Way You Are, una delle canzoni più popolari di Billy Joel, ma Willie la spoglia delle originali sonorità da sottofondo per un cocktail party e riesce a farla sua, anche se rimane quel retrogusto di artefatto, molto meglio It’s Hard To Be Humble (di Mac Davis) un tipico e scintillante valzerone texano cantato a tre voci da Nelson con i figli Lukas e Micah, un tipo di brano in cui il nostro è maestro indiscusso; chiude il CD Maybe I Should’ve Been Listening, un pezzo scritto da Buzz Rabin nel 1977, altro lento molto intenso e cantato in maniera toccante e profonda  Ennesimo bel disco dunque per il vecchio Willie, anche se sono sicuro che mentre noi siamo qui che lo ascoltiamo lui sta già pensando al prossimo.

Marco Verdi

Una Colonna Sonora “Strana”, Ma Qualcuno Si Aspettava Il Contrario? Neil Young & Promise Of The Real – Paradox

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Neil Young & Promise Of The Real – Paradox – Reprise/Warner CD – 2LP

Quello tra Neil Young e le colonne sonore non è mai stato un rapporto normale, se escludiamo i film-concerto come Rust Never Sleeps e Year Of The Horse: il musicista canadese ha spesso scelto la strada più tortuosa anche per i suoi album “regolari”, figuriamoci per quelli di commento alle immagini. A partire dal “mitico” Journey Through The Past, passando per il quasi dimenticato Where The Buffalo Roam (nel cui soundtrack album erano però presenti diversi classici della musica americana), per finire con Dead Man di Jim Jarmush (per chi scrive il lavoro più pesante e noioso in assoluto di Neil), il Bisonte ha sempre seguito il credo del “famolo strano”: forse l’unico caso di disco fruibile separatamente dalla pellicola è quello di Greendale, album del 2003 con i Crazy Horse. Ed anche la colonna sonora di Paradox, film girato per Netflix dall’attrice Daryl Hannah (fidanzata di Young), non sfugge alla regola; non ho visto il film, che dovrebbe essere un bizzarro western futuristico/ambientalista interpretato dallo stesso Neil con i Promise Of The Real (cioè i figli di Willie Nelson, Lukas e Micah…e nel film c’è pure Willie), ma il disco con i brani tratti dal lungometraggio non è privo di stranezze, anche se tutto sommato non è indispensabile vedere il film per ascoltarlo. Neil è accompagnato da una versione un po’ spuria dei POTR (che con questo giungono quindi al quarto album con il Bisonte, dopo The Monsanto Years, The Visitor ed il live Earth), in quanto tra i musicisti presenti figurano anche il bassista Paul Bushnell ed il grande batterista Jim Keltner.

Paradox è quindi un disco strano, forse non indispensabile se non siete dei fan sfegatati di Neil, ma che contiene diverso materiale interessante ed almeno un capolavoro, oltre però a diverse bizzarrie (e vere e proprie canzoni nuove non ce ne sono). L’album si può dividere in tre sezioni: i pezzi incisi in studio, quelli dal vivo e le stranezze vere e proprie. I primi iniziano con Show Me, breve ripresa acustica (ma con la sezione ritmica) di un brano presente su Peace Trail, album del 2016 di Young, direi discreta ma nulla più; dallo stesso album è presente anche un rifacimento della title track, un brano tipico del nostro, dalla melodia scorrevole ed un buon ritornello, forse meglio dell’originale. Poi troviamo Hey, uno strano strumentale tra il distorto e l’allucinato, non particolarmente accattivante, una country song eseguita come se fossero tutti riuniti attorno ad un falò (Diggin’ In The Dirt), un altro strumentale, stavolta interessante, tra rock e blues (Running To The Silver Eagle), che sembra Bo Diddley sotto l’effetto di qualche sostanza proibita, ed una riuscita ripresa per voce, ukulele ed un accenno di orchestra di Tumbleweed (era su Storytone). Oltre a sei diversi brani strumentali intitolati Paradox Passage, quasi esclusivamente per chitarra elettrica solista (o, come nel caso del # 3, acustica), di difficile ascolto se separati dalle immagini. Il capitolo “stranezze” inizia con la breve introduzione parlata Many Moons Ago In The Future, con la voce narrante di Willie Nelson, il quale è solista anche nella sua Angels Flying Too Close To The Ground, uno dei suoi pezzi più noti, che però qui è eseguita in maniera fin troppo informale ed eccessivamente rilassata.

Lo stesso trattamento low-fi viene riservato al classico di Jimmy Reed Baby What You Want Me To Do?, cantata quasi sottovoce, ed a Happy Together dei Turtles, appena accennata e poi tutti giù a cazzeggiare. Offerings sembrava l’inizio di una bella folk song, ma si interrompe dopo appena cinquanta secondi, mentre il blues acustico How Long? è più un esercizio fine a sé stesso che una vera canzone. E veniamo ai brani dal vivo, che sono solo due ma fanno la differenza (registrati entrambi al Desert Trip di due anni fa): una suggestiva Pocahontas per voce ed organo a pompa, sempre bellissima anche in questa veste insolita, e soprattutto una strepitosa Cowgirl Jam, che altro non è che una rilettura solo strumentale di Cowgirl In The Sand, dieci minuti di puro rock infuocato alla maniera del nostro, con i POTR che sembrano i migliori Crazy Horse (ma con più tecnica), assoli a ripetizione ed un feeling mostruoso, il classico pezzo che da solo varrebbe l’acquisto https://www.youtube.com/watch?v=vQxfoRpbijM .(*NDB Anche se la canzone completa al Desert Trip era durata più di 21 minuti!) La versione in doppio vinile di Paradox è appena uscita, ma solo in America: nel nostro continente arriverà il 13 Aprile in LP ed una settimana dopo in CD: non è un disco indispensabile, ma la bellezza dei due brani dal vivo (soprattutto Cowgirl Jam) è tale che un pensierino ce lo potreste anche fare.

Marco Verdi

Si Potrebbero Fare Anche Meno Dischi, Ma Più Centrati! Neil Young & Promise Of The Real – The Visitor

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Neil Young & Promise Of The Real – The Visitor – Reprise/Warner CD

Negli ultimi anni Neil Young è più attivo che mai: esattamente un anno fa, a dicembre, aveva pubblicato il non eccelso Peace Trail (che avevo indicato come delusione del 2016) http://discoclub.myblog.it/2016/12/11/supplemento-della-domenica-disco-normale-neil-forse-anche-troppo-neil-young-peace-trail/ , mentre quest’anno fino a questo momento si era occupato di archivi, prima con l’inedito Hitchhiker (molto bello) http://discoclub.myblog.it/2017/09/01/anteprima-bis-una-gradita-sbirciatina-agli-archivi-neil-young-hitchhiker/ , poi con i due cofanettini contenenti i suoi album degli anni settanta http://discoclub.myblog.it/2017/08/27/uno-sguardo-al-passato-per-il-bisonte-parte-2-neil-young-original-release-series-discs-8-5-12/  , fino al primo di questo mese, quando ha messo online (e gratuitamente, per ora) sul proprio sito il suo intero archivio, una mossa senza precedenti che spero non precluda in futuro la pubblicazione dello stesso anche su supporti fisici. *NDB Se volete divertirvi, finché non si paga, perché dopo l’iscrizione vi arriverà una mail che vi avvisa di quanto segue: (And don’t worry; once your trial is up, you’ll be able to sign up for a subscription at a very modest cost.) Nel frattempo  https://www.neilyoungarchives.com/#/?_k=o9fnm8

Nella stessa data è uscito anche The Visitor, nuovissimo album registrato insieme ai Promise Of The Real, messo sul mercato un po’ a sorpresa anche se si sapeva della sua esistenza (ma con il Bisonte, fino a quando un disco non è nei negozi, non si sa mai). The Visitor è il terzo lavoro che Neil pubblica con il gruppo guidato da Lukas Nelson (figlio di Willie, e nel CD suona anche l’altro figlio Micah anche se non farebbe tecnicamente parte dei POTR) dopo The Monsanto Years ed il live Earth. The Monsanto Years era un buon disco, ma non un grande disco, comunque da classificare tra quelli riusciti del rocker canadese, mentre Earth, aldilà della bizzarria dei versi degli animali tra un brano e l’altro, secondo me non rendeva assolutamente la potenza di uno show di Young coi POTR (li ho visti lo scorso anno a Milano e, credetemi, ho goduto come un riccio).

Con The Visitor (prodotto da Neil con John Manlon) purtroppo ci risiamo, in quanto si tratta di un disco discontinuo e troppo variegato negli stili, ma anche con diverse canzoni che avrebbero fatto meglio a restare inedite: Young non è uno al quale va detto quello che deve fare, ha sempre fatto ciò che voleva anche da giovane figuriamoci adesso, ma il problema di The Visitor è che ci sono fin troppe idee, ma mescolate non nel modo migliore, ed i POTR, che sono ottimi musicisti (oltre ai due fratelli Nelson abbiamo Corey McCormick al basso, Anthony LoGerfo alla batteria e Tato Melgar alle percussioni), fanno comunque fatica a star dietro al vulcanico canadese. Dal punto di vista dei testi, se The Monsanto Years se la prendeva con le multinazionali produttrici di OGM, in maniera anche ironica, qui c’è invece un attacco frontale all’amministrazione Trump, ma con modalità un po’ banalotte e con slogan a mio parere un po’ stereotipati e poco efficaci (e poi parlar male dell’attuale presidente sta diventando lo sport nazionale americano, oggi non sei nessuno se non hai la tua bella canzone contro Trump). Ma il problema, lo ripeto, è la musica: ci sono troppi stili, si passa dal rock, al folk, al blues, alla ballata e perfino al rock latino ed al musical: l’album è comunque migliore di Peace Trail, se non altro per quelle due-tre canzoni che fanno la differenza. L’iniziale Already Great è fin dal titolo la risposta allo slogan elettorale di Trump (“Make America great again”, con Young che si professa innamorato degli USA nonostante sia canadese), e musicalmente è un buon avvio, una ballatona rock lenta ma potente (stile Cortez The Killer, ma non a quel livello), con anche il piano che si fa sentire con nitidezza, anche se il testo procede un po’ troppo per slogan.

La breve Fly By Night Deal ha un buon ritmo, ma non è una canzone, in quanto Neil si limita a parlare con tono declamatorio su un ritornello corale ripetuto all’infinito, mentre la tenue Almost Always ci riporta lo Young che conosciamo: una ballata acustica (ma full band) deliziosa, che sembra provenire dal periodo Harvest Moon: anzi, il riff iniziale di chitarra è identico a quello di Unknown Legend. Ottima Stand Tall, una rock ballad potente ed epica, molto Crazy Horse nella ritmica “sporca” e con un ritornello di quelli a cui il nostro ci ha abituato; splendida poi Change Of Heart, una canzone acustica ma dal ritmo spedito, con Neil che canta con una tonalità molto bassa ed atipica, ed uno sviluppo melodico decisamente intenso e toccante: forse il capolavoro del CD. Carnival è il già citato brano di rock latino, dal ritmo accelerato e melodia un po’ bizzarra, con un gioco di percussioni che ricorda non poco Carlos Santana: non posso dire che sia brutta, ma non è il tipo di canzone che associo a Neil (che tra l’altro gigioneggia oltremodo con la voce), ed è pure troppo lunga, più di otto minuti. Diggin’ A Hole è un altro brano con poco senso, un blues elettrico monotono e ripetitivo, che mi ricorda un po’ T-Bone da Re-Ac-Tor (e non è un complimento), quasi un’offesa al Neil Young songwriter.

Children Of Destiny è la cosa più strana del CD, un pezzo che sembra preso pari pari da un musical di Broadway, con un accompagnamento orchestrale tronfio ed un coro da varietà del sabato sera che non è da meno: Neil aveva già usato l’orchestra in Storytone con esiti ottimi, ma qui si sfiora il ridicolo (ed il testo è di una banalità sconcertante per uno come lui). L’album si chiude con il brano più corto e quello più lungo: When Bad Got Good, due minuti di rock dal ritmo spezzettato e senza il minimo accenno di melodia, e Forever, un’altra ballata acustica intensa e rassicurante, tra le più riuscite del lavoro (ma dieci minuti sono decisamente troppi). Diciamo che se Neil Young voleva cantarle a Trump adesso con The Visitor si è tolto il pensiero, ed auspico per il prossimo disco una maggior serietà nell’approccio musicale e, perché no, un impegno più profondo.

Marco Verdi

Due Ottimi Lavori Nel Segno Del Padre Della Musica Country. Doug Seegers – Sings Hank Williams/Willie Nelson – Willie’s Stash Vol. 2: Willie & The Boys

doug seegers sings hank williams

Doug Seegers – Sings Hank Williams – Capitol CD

Willie Nelson – Willie’s Stash Vol. 2: Willie & The Boys – Legacy/Sony CD

Credo che non ci sia bisogno di ricordare chi fosse Hank Williams, “inventore” della moderna country music e sicuramente nella Top 10 dei personaggi più influenti della musica popolare del secolo scorso, una figura che ancora oggi è considerata di fondamentale importanza nonostante la sua scomparsa prematura all’età di 29 anni. E’ indicativo il fatto che nel 2017 Williams venga ancora omaggiato da artisti più o meno famosi, ed oggi mi occupo di due di loro: il primo è un tributo in tutto e per tutto (fin dal titolo), mentre il secondo se proprio non nelle intenzioni lo è nei fatti, essendo ben 7 brani su 12 presi dal songbook del grande Hank. Quella di Doug Seegers è una delle più belle storie a lieto fine della nostra musica: musicista di strada che faceva una vita da homeless a Nashville, è stato scoperto alla tenera età di 60 anni dalla nota (in patria) cantante svedese Jill Johnson nell’ambito di un programma TV da lei condotto che si prefiggeva di esplorare il mondo nascosto della capitale del country americano.

Per farla breve, oggi Doug è definitivamente uscito dall’anonimato (in Svezia è una star), grazie a tre pregevoli album, di cui uno in duo con la Johnson, di ottima musica country classica, nei quali il nostro si è dimostrato anche un dotato songwriter: il suo disco dello scorso anno, l’ottimo Walking On The Edge Of The World, è finito anche su questo blog http://discoclub.myblog.it/2016/11/20/dalle-strade-nashville-agli-studi-capitol-il-passo-breve-doug-seegers-walking-on-the-edge-of-the-world/ . Oggi Doug decide di mettere da parte per un attimo le sue canzoni ed omaggia la figura di Williams, che sicuramente ha esercitato anche su di lui un’influenza determinante: Sings Hank Williams è un bel dischetto di country music eseguita nel modo più tradizionale possibile, un sound davvero d’altri tempi, molto meno elettrico di quando Doug canta le sue canzoni, ma con la purezza del suono odierna. Il disco è stato inciso in Svezia con musicisti locali (basta leggere i nomi: Erik Janson, che è anche il produttore, Martin Bjorklund, Simon Wilhelmsson, Carl Flemsten), con l’aggiunta di una vera leggenda come lo steel guitarist Al Perkins. E poi c’è Seegers, che conosce queste canzoni a menadito (chissà quante volte le ha cantate per le strade di Nashville) e ha la voce giusta per cantarle, sia che “yodelizzi” in Long Gone Lonesome Blues, sia che si lasci trasportare dalla ritmica honky-tonk della saltellante Hey Good Lookin’, sia che affronti atmosfere western come nella leggendaria (e bellissima) Kaw-Liga. I titoli sono famosissimi, Doug non è andato a ricercare i cosiddetti “deep cuts”, cioè i pezzi più oscuri del songbook di Williams, ma è in un certo senso andato sul sicuro, sommando la sua bravura alla bellezza delle canzoni ed ottenendo un risultato quasi perfetto: la malinconica I’m So Lonesome I Could Cry, la splendida Cold Cold Heart, una delle più belle country songs di tutti i tempi, la mossa Settin’ The Woods On Fire o l’irresistibile Jambalaya (On The Bayou), solo per citarne alcune.

willie nelson willie's stash vol. 2

Willie & The Boys è invece il secondo capitolo della serie Willie’s Stash, nella quale il grande Willie Nelson si dedica alla pubblicazione dei suoi archivi: se il primo volume, December Day (2014) era accreditato al texano ed a sua sorella Bobbie, questo seguito è ancora un affare di famiglia, in quanto con Willie ci sono i figli Lukas e Micah, già noti per essere il primo il leader dei Promise Of The Real, gruppo che con anche Micah al suo interno è stato in ordine di tempo l’ultima backing band di Neil Young. Quando sono state incise queste canzoni, i due figli di Willie non erano però ancora famosi: stiamo parlando infatti di sessions avvenute nel 2011 e prodotte dall’ormai imprescindibile Buddy Cannon, e con musicisti del calibro di Bobby Terry, Jim “Moose” Brown, Mike Johnson, oltre all’inseparabile armonicista Mickey Raphael. Non è certamente la prima volta che Willie interpreta canzoni di Hank Williams, ma non ne aveva mai messe così tante su un solo disco: ben 7 su 12 come ho detto prima, e la personalità del nostro è tale che riesce in pratica a farle sembrare quasi scritte da lui. La particolarità del disco è data dal fatto che Lukas e Micah non si limitano ad accompagnare il padre, ma duettano in tutti i pezzi anche vocalmente, dando loro ulteriore linfa, anche se è indubbio che la temperatura sale di più quando al microfono si avvicina Willie.

Ci sono tre brani in comune con l’album di Seegers (una swingatissima Mind Your Own Business, I’m So Lonesome I Could Cry, la sempre grande Cold Cold Heart) ed altri classici di Williams come la vivace e coinvolgente Move It On Over, che apre il CD, la mitica Your Cheatin’ Heart, la meno nota Mansion On The Hill e la strepitosa Why Don’t You Love Me. Ma c’è anche altro: Willie riprende anche un suo vecchio classico degli anni sessanta, Healing Hands Of Time (versione pura e cristallina), ed omaggia altri tre “Hanks”, e cioè Hank Cochran con la splendida Can I Sleep In Your Arms, una country song che più classica non si può, il meno noto Hank Locklin con il limpido honky-tonk Send Me The Pillow You Dream On, per finire con Hank Snow, del quale viene ripresa la notissima I’m Movin’ On con classe purissima. Per finire con la fluida My Tears Fall, unico pezzo ad essere stato inciso non nel 2011 ma nell’inverno del 2016 (e scritta dalla supermodella Alyssa Miller, fidanzata di Lukas, al quale vanno i miei complimenti, andate su Google a cercare le foto della ragazza e capirete) ed anche una gran bella canzone.

Due album simili ma diversi, e comunque entrambi da tenere in grande considerazione se amate la vera country music.

Marco Verdi

Con Babbo, Fratello, Zia e Cugine “Acquisite” Al Seguito, Non Male. Lukas Nelson And Promise Of The Real

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Lukas Nelson & Promise Of The Real – Lukas Nelson & Promise Of The Real –Fantasy/Concord//Universal

Lukas Nelson, non ce lo possiamo nascondere, è il figlio di Willie Nelson, uno dei sette, insieme all fratello Micah, il più giovane della discendenza. Il suo primo disco, sempre omonimo, era uscito nel 2010, a livello indipendente, poi ne hanno fatti uno per la Warner e un altro indie, e questo quindi è il quarto album: in mezzo i Promise Of The Real sono diventati la band di Neil Young, prima per il discreto (per il sottoscritto, http://discoclub.myblog.it/2015/06/24/ogm-grande-musica-neil-young-promise-of-the-real-the-monsanto-years/ a Marco era piaciuto) The Monsanto Years e poi per lo “strano” Live Earth http://discoclub.myblog.it/2016/06/26/nuovo-tipo-musica-ambient-neil-young-promise-of-the-real-earth/ .Si parlava anche di un ennesimo disco in coppia con il canadese (e infatti era uscito il video per un brano nuovo Children Of Destiny,  ma per ora non se ne è fatto nulla https://www.youtube.com/watch?v=4RKBUG9VLFU ), ma a sorpresa esce questo nuovo CD,: il fratello Micah Nelson è stato retrocesso ad ospite, al piano e banjo in un brano, mentre il resto della famiglia è presente tutta, babbo Willie con chitarra Trigger al seguito in Just Outside Of Austin, dove appare anche al piano la zia Bobbie Nelson. Volendo, come ospiti, ci sarebbero anche le “cuginette” acquisite Lucius (sentite nel recente disco di Roger Waters), presenti in cinque brani, e la “lontana cugina italiana” Lady Gaga, in due brani, dove non fa disastri, in uno indistinguibile, potrebbe cantare chiunque, anche Janis Joplin risorta, nell’altro Find Yourself, uno dei pezzi migliori del disco, persino brava.

La formazione è diventata un sestetto, aggiungendo un tastierista e un secondo chitarrista, alla steel: il genere? Bella domanda, direi che più che country, che è comunque presente, si potrebbe definire Americana, roots music, spesso con una propensione per il rock: se avete letto da qualche parte che ascoltando Lukas sembra di sentire il padre, non credeteci, per me è una balla colossale, sì, Lukas ha una voce piacevole, direi persino “adeguata”, ma non è un grande cantante come Willie. Ci sono almeno un paio di categorie di cantanti, quelli che hanno una bella voce e quelli con una voce “particolare”, come Bob Dylan o Lou Reed, ma questi scrivono canzoni sensazionali. Forse ce ne sarebbe anche una terza, quelli con voce normale e canzoni memorabili, direi che Lukas Nelson non rientra in nessuna delle tre: questo non vuol dire che non sia bravo o che l’album sia brutto, tutt’altro, il disco è buono e si ascolta con piacere, con qualche pezzo sopra la media. Citando alla rinfusa, la conclusiva If I Started Over, una sorta di valzerone country pianistico con uso di pedal steel, dove effettivamente all’inizio la voce di Lukas assomiglia in modo impressionante a quella del babbo, ma poi quando sale di tonalità la similitudine si spegne, anche se la canzone rimane bella e malinconica, come certe composizioni di Willie. L’aria di famiglia si respira anche nella citata Just Outside Of Austin, che parte come una sorta di Everybody’s Talkin’ Part II, o un pezzo della Nitty Gritty più dolce e melanconica, e poi nella seconda parte quando il ritmo si anima maggiormente, si respira aria di morbido country texano, ma anche di qualche perduto brano di Glen Campbell, con la chitarra di Willie a sostituire il vecchio amico.

L’iniziale Set Me Down On A Cloud è un cadenzato pezzo rock dove si apprezza l’ottimo lavoro della solista, e anche di tutta la band, con una nota di merito per le armonie quasi gospel delle Lucius, che danno un aria rock got soul alla canzone, provvista pure di una bella coda strumentale un po’ alla Young; Die Alone è un robusto ‘70’s rock, di nuovo con le Lucius in spolvero, organo e chitarra in vivaci call and response, ben cantato ed energico il giusto, mentre Fool Me Once è un ondeggiante honky-tonk, dalle parti di Jimmy Buffett, solare e molto piacevole, sempre con Jess Wolf e Holly Laessig (le Lucius) a spalleggiare la voce del leader, che si disbriga con classe anche alla solista. Carolina è uno dei due brani con Lady Gaga, che insieme alle Lucius canta le armonie vocali di questo leggero connubio tra honky-tonk e qualche deriva caraibica, piacevole ma niente di che; Runnin’ Shne è il pezzo dove appare il fratello Micah, una morbida ballata quasi alla James Taylor o alla John Denver nella parte iniziale, che poi si apre e si trasforma in una texan country song, con Find Yourself, l’altro pezzo con Lady Gaga, che è un potente blues-rock, cadenzato e chitarristico che ricorda nella sua andatura anche certi pezzi dei Pink Floyd quando la chitarra di David Gilmour è più presente, e l’intreccio di voce maschile e femminile è veramente trascinante, decisamente una bella canzone, con lunghi inserti strumentali, che si ripetono anche in Forget About Georgia, l’altro pezzo forte dell’album, un sontuoso mid-tempo, una sorta di “risposta” al Ray Charles di Georgia on My Mind (nel testo), serena ed avvolgente, di nuovo con le Lucius in bella evidenza, e dove appaiono ancora le influenze di Neil Young, soprattutto nella lunga coda strumentale. Non male anche Four Letter Word e High Times dove si vira verso un country-southern energico, quasi alla Billy Joe Shaver, tutto ritmo e chitarre, e quella specie di ninna-nanna  dolce e fischiettata Breath Of My Baby, dedicata alla prole, forse superflua ma gradevole.

Bruno Conti

Supplemento Della Domenica: Un Nuovo Tipo Di Musica “Ambient”! Neil Young & Promise Of The Real – Earth

neil young earth

Neil Young & Promise Of The Real – Earth – Reprise/Warner 2CD – 3LP – Download Pono 

Non allarmatevi, non è che Neil Young si sia improvvisamente messo a seguire le orme di Brian Eno: il titolo del post è un gioco di parole riferito al fatto, già noto da tempo per via dei comunicati stampa, che questo disco sia pieno di rumori ambientali, come se fosse stato registrato in mezzo alla natura. Ed infatti sia il titolo, Earth, sia la scelta delle canzoni, tutte aventi come tema il rapporto dell’uomo con l’ambiente, portano in questa direzione: Young, come sappiamo, una ne pensa e cento ne fa, e quindi la sua ultima idea è stata quella di pubblicare una testimonianza live del tour con i Promise Of The Real (la band di Lukas e Micah Nelson, figli di Willie) come se fosse stata registrato in mezzo ad un campo, o in un bosco, quindi circondato da rumori di pioggia, vento, ma soprattutto dai versi di vari animali quali rane, cavalli, galline, grilli ed insetti vari (ci sarebbero anche i clacson delle macchine che tanto naturali non sono, ma sappiamo della passione di Neil per le automobili). Conoscendo il tipo, la mia paura principale era che questi “rumori” interrompessero le varie performances, ma per fortuna non è così: qualcosa in mezzo ogni tanto si sente, ma il più delle volte i suoni sono messi tra un brano e l’altro, e senza sostituire il pubblico (altra cosa che temevo), ma unendosi ad esso e creando un effetto all’inizio un po’ straniante, ma alla lunga non mancante di un certo fascino.

Ma la cosa che più interessa in un album dal vivo sono le canzoni, e devo dire che Neil, nonostante passino gli anni, non tradisce mai: tredici performances spalmate su due CD (la scaletta annunciata in un primo momento ne prevedeva undici, quindi meglio così), con Neil in ottima forma ed i POTR che si dimostrano, come avevano lasciato intravedere lo scorso anno in The Monsanto Years, una backing band con le contropalle, quasi una versione più giovane dei Crazy Horse, anzi, se uno non lo sa, in certi momenti sembra davvero di sentire all’opera la band di Talbot, Molina e Sampedro (ma questo è dovuto in parte anche al tipo di canzoni di Neil, ricordo che la prima volta che lo vidi dal vivo, nel 1993, era accompagnato da Booker T. & The Mg’s, ma anche in quel caso sembrava di avere di fronte il Cavallo Pazzo, con l’organo di Booker T. Jones mixato talmente basso che quasi non si sentiva).

Quello che quindi uno si aspetta di avere in un disco live di Neil Young qui c’è: canzoni lunghe, diverse jam chitarristiche, qualche oasi acustica e tanto, tanto feeling; in più, alcune performances sono davvero di quelle da ricordare, ed anche la scaletta è decisamente stimolante, con solo un paio di classici assodati e diversi interessanti ripescaggi di brani oscuri del passato, oltre a quattro pezzi da The Monsanto Years, che fa prevedibilmente la parte del leone. I fratelli Nelson sono due chitarristi che si adattano alla perfezione al suono rustico della sei corde del leader, e la sezione ritmica di Corey McCormick (basso) ed Anthony Logerfo (batteria, oltre a Tato Melger alle percussioni) non sbaglia un colpo: Neil ha poi aggiunto qua e là anche un coro di otto elementi in studio, un’addizione che in alcuni punti funziona ed in altri meno. In definitiva Earth non è un disco perfetto, né si propone come il miglior live della carriera di Young, ma, a parte due o tre episodi minori, intrattiene a dovere per un’ora e mezza e contiene anche diverse zampate d’autore che valgono da sole il prezzo di ammissione. L’inizio non è il massimo: Mother Earth è un brano lentissimo, con Neil che canta accompagnandosi solo all’armonica ed all’organo a pompa, ma la melodia è un po’ banale (a me, scusate ma lo dico, ricorda quella dello spot della Robiola Osella…) ed il brano fatica a coinvolgere. Seed Justice è un brano inedito, e qui inizia lo sballo: una tipica rock’n’roll song elettrica del nostro, grande riff di chitarra, ritmo aggressivo, Neil canta con rabbia ed un ritornello epico che ha il sapore dei classici del passato; My Country Home apriva alla grande Ragged Glory, uno dei migliori dischi del Bisonte, ed anche qua è una goduria, una sorta di country song ma prepotentemente elettrica, con un refrain coinvolgente e chitarre ruspanti al punto giusto, che macinano assoli a profusione.

The Monsanto Years è più soffusa, anche se l’accompagnamento è sempre elettrico, ma non è una grande canzone, un tantino monotona e tirata inutilmente per le lunghe, mentre Western Hero (da Sleeps With Angels) è invece una splendida ballata elettroacustica, dalla melodia classica e con  un’emozionante parte corale (qui il coro è usato molto bene), un brano degli anni novanta ma che potrebbe anche essere dei settanta, e che ci riporta il Neil Young che amiamo di più. Neil va poi a ripescare addirittura Vampire Blues da On The Beach, un bluesaccio elettrico decisamente riuscito: il nostro non è certo un bluesman, ma ci mette talmente tanta grinta, anima e, perché no, mestiere, da cancellare ogni dubbio (e poi l’intesa con i POTR è ottima); Hippie Dream era in Landing On Water, forse il disco più brutto di Young, ed il brano qui migliora un po’ se non altro perché suonato in maniera potente, ma insomma c’era ben altro in repertorio. Il primo CD si chiude con due classici assoluti: After The Gold Rush, eseguita da solo al piano, è uno dei capolavori assoluti del nostro, uno di quei pezzi che non ci si stanca mai di ascoltare (anche se qui il coro “posticcio” poteva evitarcelo), mentre anche Human Highway è una grande canzone, e questa affascinante versione full band acustica è la sua veste perfetta. Il secondo dischetto contiene solo quattro brani, tre dei quali tratti da The Monsanto Years: la bellissima Big Box, che già nell’album di un anno fa era tra i pezzi migliori, una rock song di quelle che il nostro tira fuori quando è ispirato, lunga, fluida, vibrante, People Want To Hear About Love, diretta, immediata e fruibile, mentre Wolf Moon è superiore alla versione in studio, una limpida oasi di matrice folk, perfetta da ascoltare prima del gran finale. Sì, perché il brano conclusivo è una di quelle performances attorno alle quali Neil ha costruito la propria leggenda, una versione di ben 28 minuti di Love And Only Love (terzo brano quindi che proviene da Ragged Glory), che già di per sé è una grande canzone, ma qui viene proposta nella sua rilettura definitiva, un’incredibile cavalcata elettrica di quelle che hanno reso famoso il nostro, e che da sola vale l’acquisto del doppio CD: dopo quindici minuti di pura tensione “rocknrollistica”, ne abbiamo altri dodici dove Neil e compari si sbizzarriscono, tra feedback, svisate elettriche, distorsioni, riprese vocali del ritornello ed accenni di psichedelia, un finale forse non troppo immediato ma indubbiamente affascinante.

D’altronde Neil Young è questo, con tutte le sue contraddizioni, pregi e difetti: prendere o lasciare. Ed io, tutta la vita, prendo.

Marco Verdi

Tra OGM E Grande Musica! Neil Young + Promise Of The Real – The Monsanto Years

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Neil Young + Promise Of The Real – The Monsanto Years – Reprise CD

Nel mondo musicale (e non solo) le etichette appiccicate addosso ad un determinato artista sono dure a morire, anche a distanza di decenni. Neil Young non è mai stato esattamente considerato un cantante di protesta, a differenza del collega ed amico Bob Dylan: se poi andiamo a vedere nel dettaglio, il buon Bob ha basato sulle cosiddette topical songs appena un paio di album ad inizio carriera (Freewheelin’ e The Times They Are A-Changin’, tra l’altro neppure nella loro interezza), riservando poi il privilegio a poche canzoni sparse tra anni settanta ed ottanta (a memoria ricordo George Jackson, la veemente Hurricane, Slow Train, Union Sundown e Neighborhood Bully), ma il momento era quello giusto (i primi anni sessanta, il folk revival), tanto che ancora oggi qualcuno pensa che Dylan sia uno che ha fatto successo cantando canzoni sulla guerra in Vietnam (conflitto invece mai neppure citato direttamente). Invece il rocker canadese, pur scrivendo testi di una profondità rara, non ha mai fatto della denuncia sociale il suo cavallo di battaglia, ma c’è da dire che, quando ne ha avuto l’occasione, non si è mai tirato indietro, bastonando duro e facendo quasi sempre nomi e cognomi. Il caso più celebre è senz’altro Ohio, singolo inciso nel 1971 con Crosby, Stills & Nash, nel quale incolpava direttamente Nixon dei quattro studenti uccisi dalla polizia durante i disordini alla Kent Univesity, ma in seguito (molti anni dopo) c’è stato il caso, trattato con molta più leggerezza ed ironia, di This Note’s For You, nella quale Neil se la prendeva con i colleghi che prestavano la loro voce alla pubblicità di prodotti commerciali.

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In anni più recenti clamoroso è stato il caso di Living With War, album del 2006 nel quale il nostro martellava l’amministrazione Bush Jr., in particolare la sua politica estera, fatto ancora più sorprendente dato che negli anni ottanta spesso Neil si era trovato d’accordo con le posizioni repubblicane dell’allora presidente Ronald Reagan. Dischi così corrono il rischio di risultare datati (negli argomenti, non nella musica) dopo pochi anni dalla loro uscita, ma Young chiaramente se ne fotte (come sua abitudine) ed ora torna tra noi, a pochi mesi di distanza dall’ottimo Storytone http://discoclub.myblog.it/2014/11/16/il-bisonte-sbaglia-due-volte-fila-neil-young-storytone/ , con un altro topical record, chiamato The Monsanto Years. Come suggerisce il titolo, il disco è un’invettiva lunga nove brani contro la Monsanto, multinazionale specializzata in biotecnologie agricole ed OGM, ma anche produttrice di sostanze tossiche utilizzate in guerra: in sostanza Neil (che se la prende anche con altri colossi come Starbucks, Walmart e Chevron) conduce una mini-crociata in favore dei contadini americani (da lui difesi da sempre, bisogna riconoscere) e del loro diritto di coltivare prodotti naturali, senza imposizioni esterne. Sinceramente a noi europei, cinicamente se volete, importa poco o niente di questo tipo di battaglia tutta americana (tra l’altro condotta da un cittadino canadese che neppure vota negli USA), ma come al solito ci interessa la musica che, fortunatamente, è di ottimo livello e sicuramente ispirata

L’album è stato inciso al Teatro Theater di Oxnard, in California (lo stesso luogo dove Willie Nelson e Daniel Lanois partorirono lo splendido Teatro), insieme ai Promise Of The Real, che non è altro che la band formata da uno dei figli di Willie, Lukas Nelson, assieme al bassista Corey McCormick, al batterista Anthony Logerfo ed al percussionista Tato Melgar (come chitarrista aggiunto troviamo anche Micah Nelson, fratello di Lukas, che però non fa parte del gruppo). E The Monsanto Years mostra fieramente il lato più rock, aggressivo ed “incazzato” di Young, e non solo dal punto di vista dei testi, con la sezione ritmica che pesta che è un piacere ed il nostro che fa ululare la sua old black come sui dischi con i fidi Crazy Horse, con l’aggiunta della solista di Lukas che tende a stemperare qua e là l’atmosfera irruenta data dal chitarrismo del bisonte. I brani, aldilà del contenuto polemico (che in America ha già attirato più di una critica), sono musicalmente classici, nel senso che ti danno l’idea di averli già sentiti su qualche altro disco del canadese sotto altri titoli, ma forse è proprio questo che ci si aspetta quando si mette nel lettore un CD di Neil Young, cioè niente sorprese ma un suono “amico” che, in definitiva, è il suo marchio di fabbrica.

L’album si apre con il mid-tempo molto elettrico New Day For Love, dal bel ritornello corale e la prima serie di assoli pieni di feeling tipici del nostro, anche se il suono è un po’ grezzo, tipo buona la prima (ma tutto il disco è inciso in presa diretta, altro punto in comune con i lavori più classici di Young). Wolf Moon è l’unico pezzo acustico, con la band che si sente appena, e Neil che canta in una tonalità un filo troppo alta (ma la fragilità della sua voce è sempre stata un punto quasi di forza), un brano toccante impreziosito dai cori e dalla solita armonica evocativa. People Want To Hear About Love riprende il mood elettrico, ritmo alto, voci intonate e solita tensione chitarristica molto elevata: dal vivo farà di sicuro la sua figura; Big Box è la più lunga e sia per riff, che per assoli e melodia può essere tranquillamente assimilata ai grandi classici younghiani, otto minuti di puro godimento rock, sentire per credere.

La già conosciuta (il video è online da un paio di mesi) A Rock Star Bucks A Coffee Shop (che se la prende con la nota catena americana madre del Frappuccino, il cui nome è molto poco celato nel titolo) è uno dei classici brani elettrici e cadenzati del nostro, orecchiabili sin dal primo ascolto, dal ritornello memorabile e con lo spirito del Cavallo Pazzo in ogni nota (davvero, questo album poteva essere inciso con il trio Sampedro-Talbot-Molina che non cambiava niente). Workin’ Man è ancora più roccata, quasi punk, con Neil e Lukas che duellano alla grande con le loro sei corde: anche qui il refrain è godibilissimo, ancorché tipico del suo autore. La rabbiosa Rules Of Change, distorta e un po’ stonata, precede la lunga title track, un brano lento, disteso, fluido, sullo stile di Cortez The Killer (ma non a quel livello…), nel quale la performance vocale un po’ zoppicante e la melodia non eccelsa passano in secondo piano rispetto alle splendide digressioni “chitarrustiche”!


Chiude If I Don’t Know, ancora lenta, ma con uno script nettamente migliore ed una prova vocale più convincente da parte del Bisonte: gli spunti chitarristici di Nelson Jr., più puliti di quelli di Young, le danno poi una profondità maggiore. Degna conclusione di un disco che, aldilà delle tematiche più o meno condivisibili, ci mostra un Neil Young in piena forma, arrabbiato al punto giusto, ed i Promise Of The Real come un valido surrogato dei Crazy Horse. Non siamo ai livelli eccelsi di Psychedelic Pill, né sono in grado di giudicare se The Monsanto Years saprà superare la prova del tempo (un problema che ogni tanto i dischi di Young hanno, vedi il già citato Living WIth War o anche l’album inciso con i Pearl Jam, Mirror Ball), ma per il momento mi accontento alla grande. Esce ufficialmente il 30 giugno.

Marco Verdi

*NDB A volte ritornano (anche Young), ma nel caso mi riferisco all’amico Marco che dopo un periodo di assenza riprende la sua collaborazione con il Blog: sapendo i suoi gusti gli ho riservato questa anteprima del nuovo album di Neil Young!