Willie Sinatra Colpisce Ancora…E Pure Meglio Della Prima Volta! Willie Nelson – That’s Life

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Willie Nelson – That’s Life – Legacy/Sony CD

Ormai omaggiare Frank Sinatra sta quasi diventando una moda, ma se i tre album pubblicati la scorsa decade da Bob Dylan, che crooner non è, hanno suscitato reazioni contrastanti (ottime per Shadows In The Night, meno entusiastiche per Fallen Angels ed un tantino annoiate per Triplicate), My Way, disco del 2018 di Willie Nelson, ha avuto recensioni unanimemente positive, cosa comprensibilissima dal momento che Willie rispetto a Bob è decisamente più portato per un certo tipo di sonorità, essendo uno di quelli che, con la classe e la voce che si ritrova, potrebbe davvero cantare qualsiasi cosa. Non è un caso che My Way fosse solo l’ultima incursione in ordine di tempo del texano all’interno del “Great American Songbook”: il bellissimo Stardust del 1978 è il caso più famoso (nonché uno dei suoi lavori più di successo), ma nel corso della carriera Willie ci ha regalato molti altri album in cui reinterpretava da par suo gli standard della musica statunitense, come Somewhere Over The Rainbow, What A Wonderful World, Moonlight Becomes You, American Classic ed il recente omaggio alle canzoni dei fratelli Gershwin Summertime.

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Nelson nonostante l’età (ad aprile saranno 88 primavere) pubblica ancora almeno un disco nuovo all’anno, e nel 2021 l’onore è toccato a That’s Life, che altro non è che il secondo volume delle sue interpretazioni del repertorio di The Voice, come si intuisce dal titolo ma soprattutto dalla stupenda copertina che si ispira a quella di In The Wee Small Hours, album del 1955 che è anche uno dei più famosi del grande Frank. E, se possibile, That’s Life è ancora più bello di My Way https://discoclub.myblog.it/2018/09/29/i-figli-illegittimi-di-frank-proliferano-dopo-bob-ecco-willie-sinatra-willie-nelson-my-way/ , ed allunga l’incredibile striscia positiva di eccellenti lavori di questo intramontabile artista: ho già scritto in altre occasioni che Willie dal vivo non è più quello di un tempo, fa fatica ed a volte la sua voce si trasforma in un rantolo, ma in studio, visto che può centellinare le performance ed avvicinarsi al microfono quando è veramente pronto, è ancora in grado di dire la sua in maniera formidabile se pensiamo che ha quasi 90 anni. That’s Life presenta undici interpretazioni da brividi lungo la schiena di altrettanti brani che hanno in comune il fatto di essere stati tutti incisi da Sinatra, anche se non necessariamente la versione di Frank è la più famosa.

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Se per esempio la title track, In The Wee Small Hours Of The Morning, Learnin’ The Blues e I’ve Got You Under My Skin sono tutte signature songs del cantante di origine italiana, altre hanno avuto riletture anche più famose da parte di gente del calibro di Fred Astaire, Billie Holiday, Dean Martin, Tommy Dorsey, Ella Fitzgerald, Tony Bennett e Bing Crosby. Il disco è stato registrato ai mitici Capitol Studios di Los Angeles, gli stessi di Sinatra (con una puntatina in Texas ai Pedernales Studios di proprietà di Nelson), prodotto in tandem dall’abituale partner di Willie Buddy Cannon e dal bravissimo pianista Matt Rollings e presenta una lista di musicisti da leccarsi i baffi: oltre allo stesso Rollings al piano, organo e vibrafono e Willie che ci fa sentire la sua mitica chitarra Trigger, troviamo l’inseparabile Mickey Raphael all’armonica, il grande Paul Franklin alla steel, l’ottimo Dean Parks alla chitarra elettrica, la sezione ritmica di David Piltch (basso) e Jay Bellerose (batteria), oltre ad una sezione fiati di sei elementi ed una spruzzata d’archi qua e là.

Willie Nelson performs at the Producers & Engineers Wing 12th Annual GRAMMY Week Celebration at the Village Studio on Wednesday, Feb. 6, 2019, in Los Angeles. (Photo by Richard Shotwell/Invision/AP)

Willie Nelson performs at the Producers & Engineers Wing 12th Annual GRAMMY Week Celebration at the Village Studio on Wednesday, Feb. 6, 2019, in Los Angeles. (Photo by Richard Shotwell/Invision/AP)

Nice Work If You Can Get It, dei Gershwin Brothers, è un delizioso jazz pianistico ricco di swing, con un gran lavoro di Rollings, la steel accarezzata sullo sfondo, ritmo acceso e Willie che si prende la canzone con verve ed una buona dose di classe. Splendidamente raffinata anche Just In Time, dalla ritmica soffusa (la batteria è spazzolata) ma sostenuta al tempo stesso, un grandissimo pianoforte (tra i protagonisti assoluti del CD) ed il leader che avvolge il tutto con la sua voce calda e vissuta; A Cottage For Sale, introdotta dagli archi, è notevolmente più lenta e rimanda alle sonorità di settanta anni fa, quando certe canzoni erano usate nelle commedie a sfondo musicale, un elemento in cui Willie si cala alla perfezione. I’ve Got You Under My Skin è uno dei pezzi più celebri di Sinatra (l’autore è il grande Cole Porter): il ritmo è spezzettato e l’accompagnamento degno di un locale fumoso con la band che a notte fonda intrattiene i pochi avventori rimasti che cercano conforto nel quarto bicchiere di whiskey, con un breve ma incisivo assolo da parte di Parks (ma tutto il gruppo suona che è una meraviglia) https://www.youtube.com/watch?v=8cPuigClurE . I fiati colorano l’elegante You Make Me Feel So Young, con il nostro che canta con padronanza assoluta interagendo in maniera perfetta con la band e facendoci sentire la sua Trigger anche se per un breve istante, mentre la coinvolgente I Won’t Dance lo vede duettare con la brava Diana Krall, ed il gruppo swinga alla grande neanche fosse la Count Basie Orchestra: classe sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=0RMYCzzCztA .

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That’s Life è un altro classico che conoscono quasi tutti, una grande canzone che Willie fa sua con la sicurezza di uno che nella vita ne ha viste tante https://www.youtube.com/watch?v=XEf8NXZEtzQ , con Raphael e Franklin che portano un po’ di spirito country in un brano che è puro jazz; la sinuosa Luck Be A Lady è una via di mezzo tra swing e bossa nova, un cocktail di grande eleganza con i fiati nuovamente protagonisti e la voce di Nelson che è uno strumento aggiunto. In The Wee Small Hours Of The Morning, ballatona pianistica dal pathos notevole (sentite la voce, da pelle d’oca) https://www.youtube.com/watch?v=gS54H5uNddY , precede le conclusive Learnin’ The Blues, raffinatissima e suonata in punta di dita (con un ottimo intervento di steel), e la cadenzata Lonesome Road, ancora con il pianoforte a caricarsi buona parte dell’accompagnamento sulle spalle, qui ben doppiato dall’organo. Ennesimo gran disco quindi per Willie Nelson, tra i migliori di questo ancor giovane 2021.

Marco Verdi

E, Come Al Solito, Il Vecchio Willie Non Sbaglia Un Colpo! Willie Nelson – First Rose Of Spring

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Willie Nelson – First Rose Of Spring – Sony CD

A quasi un anno esatto da Ride Me Back Home https://discoclub.myblog.it/2019/07/07/forse-lunico-modo-per-fermarlo-e-sparargli-willie-nelson-ride-me-  torna il grande Willie Nelson, che nonostante l’età avanzata (ormai le primavere sono 87) non ha nessuna intenzione di ritirarsi e, anzi, continua a pubblicare dischi di qualità altissima: First Rose Of Spring è l’album di studio numero 70 per il musicista texano (senza contare i lavori in collaborazione con altri, i live e le colonne sonore: in tutto si arriva a 94), ed è manco a dirlo un disco splendido, superiore anche a Ride Me Back Home e di poco inferiore a Last Man Standing del 2018, che però era uno dei suoi migliori in assoluto. E’ vero che Willie fa parte di quegli artisti che non hanno mai veramente deluso, nemmeno negli anni ottanta quando la sua ispirazione era un po’ offuscata, o quando ha pubblicato album a sfondo reggae (Countryman) o strumentale (Night And Day, bello ma con una voce così come gli è venuto in mente di fare un disco non cantato?): da quando poi ha iniziato a collaborare col produttore Buddy Cannon lo standard qualitativo si è sempre mantenuto a livelli di assoluta eccellenza.

First Rose Of Spring è un disco tipico del nostro, con una serie di ballate di grande bellezza, suonate alla grande e cantate con la solita voce inimitabile nonostante gli anni: Cannon ha come di consueto messo a disposizione di Willie il solito manipolo di fuoriclasse (Bobby Terry alle chitarre, Kevin Grantt e Larry Paxton al basso, Mike Johnson alla steel, Chad Cromwell e Lonnie Wilson alla batteria e Catherine Marx alle tastiere, oltre naturalmente all’immancabile Mickey Raphael all’armonica), ma il resto è farina del sacco di Nelson, che ha interpretato alla sua maniera la solita serie di canzoni scelte con cura, scrivendone anche due nuove di zecca insieme allo stesso Cannon. L’album si apre con la title track, una languida country ballad scritta da Randy Houser e contraddistinta dalla grandissima voce di Willie in primo piano con dietro solo un paio di chitarre, l’armonica, una steel ed un organo appena accennati: la canzone è già bella di suo, ma il timbro vocale del leader e la sua interpretazione la rendono da pelle d’oca. Blue Star è il primo dei due pezzi nuovi, ed è un altro lento splendido dallo sviluppo rilassato e disteso, con un motivo di prim’ordine ed un suono caldo e coinvolgente, mentre I’ll Break Out Again Tonight (di Whitey Shafer ma resa popolare da Merle Haggard) è uno scintillante honky-tonk classico, un genere di canzone che Willie canta anche quando dorme ma riesce a farlo emozionando ogni volta.

Don’t Let The Old Man In è la dimostrazione che i grandi interpreti riescono a migliorare anche brani di autori non proprio di prima fascia, nello specifico Toby Keith: altro limpido slow di matrice western con leggera orchestrazione alle spalle ed un tocco di Messico come sempre quando Willie imbraccia la sua Trigger; Just Bummin’ Around è una saltellante e swingata country song d’altri tempi (ed infatti è stato un successo negli anni cinquanta per Jimmy Dean), eseguita con la solita classe sopraffina, ed è seguita dalla tenue e bellissima Our Song di Chris Stapleton, altro pezzo country dal pathos notevole con una parte vocale di brividi, e dalla formidabile We Are The Cowboys di Billy Joe Shaver, una western song sferzata dal vento che è tra le ballate più belle uscite negli ultimi mesi, e che si candida come uno dei brani centrali del CD. La toccante Stealing Home (ma che voce!), scritta dalla figlia di Cannon, Marla, e la mossa e trascinante I’m The Only Hell My Mama Ever Raised, brano uscito dalla penna di Wayne Kemp (songwriter che scrisse tra le altre la famosa One Piece At A Time per Johnny Cash), precedono le conclusive Love Just Laughed, altra notevole ballatona e seconda canzone originale del disco, e Yesterday When I Was Young, vecchio successo di Roy Clark (ma l’autore è Charles Aznavour) che mette la parola fine in maniera struggente ad un album magnifico.

Marco Verdi

Un Ex Metallaro Che Ha Trovato La Sua Reale Dimensione. Aaron Lewis – State I’m In

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Aaron Lewis – State I’m In – Big Machine/Universal CD

Aaron Lewis, dopo aver capitanato per sedici anni un gruppo metal, gli Staind (con i quali ha pubblicato ben sette album), nel 2012 si è reinventato musicista country, una cosa possibile solo in America anche perché lo ha fatto in maniera assolutamente credibile. Il suo debutto, The Road, è stato infatti uno dei più positivi lavori di country-rock del 2012, da parte di un artista che sembrava un veterano e non un esordiente nel genere: un disco robusto e chitarristico che assorbiva pienamente la lezione del movimento Outlaw degli anni settanta, prodotto da una mezza leggenda del settore come James Stroud. Sinner, del 2016, confermava quanto di buono The Road aveva fatto intravedere, e questa volta in consolle c’era Buddy Cannon, l’uomo che ultimamente è dietro ai dischi di Willie Nelson: State I’m In è il nuovissimo lavoro di Lewis, un album che nelle sue dieci canzoni non fa che continuare il percorso di crescita del nostro. Ancora con Cannon in cabina di regia, State I’m In è un ottimo esempio di country-rock vigoroso, vibrante e chitarristico, con canzoni molto dirette e piacevoli, da parte di un musicista che se non sapessi che è del Vermont potrei pensare che fosse texano.

Musica country vera dunque, con il passato metallaro che è ormai un lontano ricordo, e con sessionmen di gran nome che fanno capire che Aaron non è uno qualunque: Dan Tyminsky, chitarrista degli Union Station di Alison Krauss, Vince Gill, Pat Buchanan, il grandissimo steel guitarist Paul Franklin, il piano e l’organo di Jim “Moose” Brown, l’armonicista di Willie, Mickey Raphael e, a cantare con Lewis nella title track, la stessa Alison Krauss con Jamey Johnson. Si inizia nel modo migliore con la bella e coinvolgente The Party’s Over, country song spedita dal mood elettrico e con una melodia di prima qualità: Aaron ha una voce splendida, baritonale e profonda, e la strumentazione classica con chitarre, steel e violino è perfetta. Can’t Take Back è un grintoso pezzo quasi bluesato e con indubbie influenze sudiste, cantato da Aaron con voce leggermente più arrochita, sezione ritmica potente e canzone che scorre che è un piacere https://www.youtube.com/watch?v=2ir-Zkvj7sQ ; Lewis sarà anche un ex hard rocker, ma dimostra di essere credibile anche in ballate come Reconsider (scritta da Keith Gattis), uno slow intenso e con un accompagnamento ricco alle spalle, mentre It Keeps On Workin’ è ancora sul versante rockin’ country, con un approccio maschio, da texano, e più di una rimembranza di Waylon Jennings: davvero bella.

State I’m In è languida e dal passo lento, impreziosita dalle voci della Krauss e di Johnson, God And Guns (che ha un testo che piacerà a chi ha votato per Trump) non aumenta il ritmo ma accresce notevolmente la dose di elettricità, e di nuovo si sentono elementi southern con l’aggiunta di un ritornello molto diretto https://www.youtube.com/watch?v=glPPQdjEx-Q , mentre Love Me è acustica e pacata, e mostra la faccia più romantica del nostro. If I Were The Devil, cadenzata e di stampo rock (ed ancora con più di un rimando al compianto Waylon), precede Burnt The Sawmill Down, luccicante ballata elettrica contraddistinta da una splendida steel ed il solito motivo di impatto immediato; il CD termina con The Bottom (di Waylon Payne), altro slow di buon livello e con un accompagnamento più languido che nei brani precedenti. Ormai Aaron Lewis ha trovato la sua strada artistica definitiva, e State I’m In lo conferma in pieno.

Marco Verdi

Forse L’Unico Modo Per Fermarlo E’ Sparargli! Willie Nelson – Ride Me Back Home

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Willie Nelson – Ride Me Back Home – Legacy/Sony CD

Alla bella età di 86 anni suonati il grande texano Willie Nelson non ha la minima intenzione non solo di fermarsi, ma neppure di rallentare. Se ormai dal vivo fa fatica e si prende le sue (comprensibilissime) pause, in studio continua a viaggiare al ritmo di almeno un disco all’anno, quando non ne fa due (tipo lo scorso anno, prima con lo splendido Last Man Standing e poi con My Way, raffinato omaggio a Frank Sinatra), e sempre con una qualità piuttosto alta. Ora il barbuto countryman inaugura il suo 2019 con questo Ride Me Back Home, album in studio numero 69 per lui, un altro ottimo lavoro che, pur non raggiungendo forse i picchi creativi di Last Man Standing (che era però uno dei suoi migliori in assoluto, almeno negli ultimi venti anni https://discoclub.myblog.it/2018/05/07/non-solo-non-molla-ma-questo-e-uno-dei-suoi-dischi-piu-belli-willie-nelson-last-man-standing/ ), si posiziona tranquillamente molto in alto nella classifica qualitativa dei suoi dischi. Prodotto dall’ormai inseparabile Buddy Cannon, Ride Me Back Home è la solita prova di bravura, un lavoro decisamente raffinato e suonato con classe immensa da un gruppo di musicisti coi controfiocchi (tra i quali spiccano i formidabili Jim “Moose” Brown e Matt Rollings, entrambi al piano ed organo, James Mitchell alla chitarra, la sezione ritmica formata da Larry Paxton al basso e Fred Eltringham alla batteria, Bobby Terry alla steel e l’immancabile Mickey Raphael all’armonica) e cantato da Willie con una voce che, pur mostrando i segni dell’età, riesce ancora a dare i brividi ed a sprizzare carisma da ogni nota.

L’album, undici canzoni, si divide in maniera equilibrata tra brani originali scritti dal nostro a quattro mani con Cannon, più il rifacimento di un vecchio pezzo, un paio di canzoni nuove da parte di songwriters esterni ed una manciata di cover. I tre brani a firma Nelson-Cannon sono inaugurati da Come On Time, country song dal ritmo vivace e coinvolgente, texana al 100%, con una bella chitarrina ed un ritornello tipico del nostro; Seven Year Itch è un pezzo dal passo cadenzato ed atmosfera old-time, sembra quasi provenire dal songbook di Tennessee Ernie Ford, mentre One More Song To Write è una squisita country ballad dalla veste che richiama atmosfere sonore al confine col Messico. Stay Away From Lonely Places è un remake di un brano che Willie aveva scritto nel 1971: puro jazz d’alta classe con la band che sfiora appena gli strumenti, batteria spazzolata e Rollings che lavora di fino al piano, con Willie che si destreggia alla perfezione nel suo ambiente naturale. I due pezzi nuovi ma non scritti da Willie sono la title track (che apre l’album), bellissimo slow pianistico sfiorato dalla steel e valorizzato da una deliziosa melodia, e Nobody’s Listening, una canzone sempre dall’incedere lento ma con un arrangiamento atipico quasi più rock che country, un pianoforte liquido ed uno sviluppo fluido e rilassato.

Poi abbiamo due canzoni del grande Guy Clark, che Willie non aveva ancora omaggiato da dopo la scomparsa avvenuta nel 2016: My Favorite Picture Of You è uno dei brani più personali della carriera del grande songwriter texano (era dedicata alla moglie Susanna, mancata prima di lui), una ballatona intensa sempre con il piano in evidenza ed un arrangiamento raffinato, da brano afterhours, mentre Immigrant Eyes è davvero splendida, un pezzo toccante e superbamente eseguito, con un ispiratissimo assolo di Willie con la sua Trigger. Infine le altre cover: non ho mai amato particolarmente Just The Way You Are, una delle canzoni più popolari di Billy Joel, ma Willie la spoglia delle originali sonorità da sottofondo per un cocktail party e riesce a farla sua, anche se rimane quel retrogusto di artefatto, molto meglio It’s Hard To Be Humble (di Mac Davis) un tipico e scintillante valzerone texano cantato a tre voci da Nelson con i figli Lukas e Micah, un tipo di brano in cui il nostro è maestro indiscusso; chiude il CD Maybe I Should’ve Been Listening, un pezzo scritto da Buzz Rabin nel 1977, altro lento molto intenso e cantato in maniera toccante e profonda  Ennesimo bel disco dunque per il vecchio Willie, anche se sono sicuro che mentre noi siamo qui che lo ascoltiamo lui sta già pensando al prossimo.

Marco Verdi

I Figli “Illegittimi” Di Frank Proliferano: Dopo Bob, Ecco Willie Sinatra! Willie Nelson – My Way

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Willie Nelson – My Way – Legacy/Sony CD

Sembra che, nonostante veleggi ormai verso gli ottant’anni di età, Bob Dylan non abbia smesso, anche involontariamente, di creare tendenze: infatti dopo i tre album (o cinque, dato che Triplicate era, appunto, un triplo) dedicati dal vate di Duluth alle canzoni del leggendario Frank Sinatra, ora anche Willie Nelson ha deciso di celebrare la musica di “Ol’ Blue Eyes” con questo nuovissimo My Way. C’è da dire che, a differenza di Dylan, Nelson non è la prima volta che si cimenta con gli standard della musica americana: a parte il famoso Stardust del 1978, negli anni il texano ha pubblicato diversi album a tema “Great American Songbook”, come What A Wondeful World, Moonlight Becomes You, parte di Healing Hands Of Time, American Classic, Summertime. E con My Way Willie ci regala uno dei suoi album migliori, e non solo del genere standard, un lavoro splendido che fa il paio con l’altrettanto bellissimo Last Man Standing uscito pochi mesi fa. E’ incredibile infatti come il nostro riesca a coniugare quantità e qualità con una tale nonchalance: se dal vivo, per vari problemi fisici, qualche colpo ultimamente lo ha perso, in studio è ancora una sentenza.

In My Way Willie ha usato lo stesso approccio di Bob, cioè non prendendo solo le canzoni più famose di Sinatra, ma rivolgendosi a standard che anche Frank ha cantato nella sua carriera: così a veri e propri classici associati principalmente al cantante italo-americano (Fly Me To The Moon, One For My Baby, la stessa My Way) si alternano pezzi dei quali la versione di Sinatra non è magari neanche la più nota (A Foggy Day, Night And Day). Quello che più conta però è il risultato finale, che come dicevo poc’anzi è davvero splendido: Willie canta e swinga con classe immensa, e con una voce che è ancora più che mai in grado di dare i brividi, ed i suoni sono nelle mani sicure del fido Buddy Cannon e del grande pianista ed organista Matt Rollings (Lyle Lovett, Mark Knopfler, Mary Chapin Carpenter), che è anche il leader e direttore musicale di un gruppo da sogno: Jay Bellerose alla batteria, Dean Parks alla chitarra, Paul Franklin alla steel, l’inseparabile Mickey Raphael all’armonica, il notevole bassista David Piltch ed una sezione fiati nella quale spicca un trio di sassofonisti formato da Jeff Coffin, Denis Solee e Doug Moffet. Un disco raffinato ma pieno di feeling, che sprizza classe da ogni nota, suonato in maniera sicura e rilassata nello stesso tempo. L’album si apre con la celeberrima Fly Me To The Moon, con Willie che inizia subito a swingare che è un piacere, seguito dai fiati che accompagnano in maniera calorosa, la sezione ritmica che punteggia alla grande ed un doppio delizioso assolo chitarristico, prima del nostro con la sua Trigger e poi di Parks.

Summer Wind è una pura jazz ballad, che vede Nelson cantare in perfetto relax, il gruppo suonare in punta di dita (con il piano di Rollings in evidenza) e l’armonica dare il tocco country; ancora piano ed armonica introducono la nota One For My Baby (And One More For The Road), dall’accompagnamento soffuso, atmosfera afterhours, una sezione d’archi non invasiva e la consueta classe sopraffina. A Foggy Day è un brano di George ed Ira Gershwin, e come tutti i pezzi scritti dal duo di compositori di Brooklyn ha avuto negli anni varie versioni, delle quali quella di Sinatra non è necessariamente la più famosa: la rilettura di Willie è nuovamente ricca di swing, ed è punteggiata dal solito splendido pianoforte di Rollings e dai fiati al gran completo; It Was A Very Good Year è intensa e maestosa, Willie la canta come se fosse una western tune e gli archi aggiungono pathos e drammaticità, mentre Blue Moon è uno dei pezzi più famosi di tutti i tempi, con il texano che la rifà in maniera raffinata e godibile, mettendoci una bella dose di verve: piano, steel e Trigger completano il quadro. La lenta I’ll Be Around (che era uno degli highlights del mitico In The Wee Small Hours) è limpida e tranquilla, con Willie che canta come se avesse un bicchiere di whisky in una mano ed un sigaro nell’altra, e con la strumentazione al solito superba (ottima la steel):

Ecco a questo punto due canzoni di Cole Porter: Night And Day è conosciutissima anche in versioni alternative a Sinatra (per esempio è molto popolare quella di Fred Astaire, e pure Nelson l’aveva già incisa, ma solo in veste strumentale) ed è ancora eseguita ottimamente, con grande gusto e swing, mentre What Is This Thing Called Love?, calda, vivace e guidata magistralmente dal piano, vede il nostro duettare con la brava Norah Jones, un’altra che in queste sonorità ci sguazza. La piacevolissima e jazzata Young At Heart, brano che Sinatra fu il primo ad incidere, precede la conclusiva My Way, materia pericolosa in quanto uno degli evergreen assoluti del cantante di Hoboken, un pezzo di Paul Anka che The Voice ha eletto a manifesto di un certo stile di vita: Willie la canta intelligentemente alla sua maniera, solo voce e pochi strumenti, arrangiandola in modo molto vicino al suo stile abituale, riuscendo a provocare più di un brivido in chi ascolta. In mancanza, pare, di un nuovo disco di Van Morrison nelle prossime settimane (anche perché ne ha fatti tre in meno di un anno), questo My Way è il classico album perfetto per allietare le serate autunnali che ci attendono.

Marco Verdi

Non Solo Non Molla, Ma Questo E’ Uno Dei Suoi Dischi Più Belli! Willie Nelson – Last Man Standing

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Willie Nelson – Last Man Standing – Legacy/Sony CD

Alla tenera età di 85 anni, Willie Nelson ha ancora voglia di fare musica con la costanza di un ragazzino. E’ di giusto un anno fa la pubblicazione dell’ottimo God’s Problem Child  https://discoclub.myblog.it/2017/05/14/alla-sua-veneranda-eta-e-ancora-al-top-willie-nelson-gods-problem-child/ (senza contare il disco d’archivio insieme ai suoi due figli Willie & The Boys e la ristampa deluxe del capolavoro Teatro https://discoclub.myblog.it/2017/11/29/era-gia-bellissimo-ora-lo-e-ancor-di-piu-willie-nelson-teatro/ ), ma il grande texano non si ferma un attimo ed ora dà alle stampe un nuovo lavoro, Last Man Standing, un disco davvero splendido, che a mio avviso si posiziona addirittura nella Top Ten dei suoi album migliori (e ne ha fatti veramente tanti, molti dei quali imperdibili). Il titolo è un chiaro riferimento a sé stesso, ed al fatto che, con le scomparse di giganti del calibro di Johnny Cash, Waylon Jennings e Merle Haggard (senza dimenticare George Jones e Ray Price), Willie è rimasto l’ultimo baluardo di un certo tipo di country artist: certo, sia Kris Kristofferson che Billy Joe Shaver sono ancora tra noi, ma la loro attività è decisamente meno frenetica di quella di Nelson, il quale riesce a coniugare la quantità di album pubblicati con una qualità sempre elevatissima.

E Last Man Standing credo si possa definire il più bel disco del nostro da Teatro in poi. La formula non è cambiata, il nostro si appoggia all’ormai inseparabile Buddy Cannon sia in sede di scrittura che di produzione, e si circonda di musicisti fidati ed esperti (tra i quali il solito Mickey Raphael all’armonica, Alison Krauss al violino ed armonie vocali, Jim “Moose” Brown a piano ed organo, Fred Eltringham alla batteria ed ai chitarristi James Mitchell e Bobby Terry), ma in queste undici canzoni c’è un feeling, una grinta ed una perfezione stilistica che è difficile riscontrare in lavori di gente che ha anche cinquant’anni di meno. Non che negli album recenti questo venisse a mancare, ma Last Man Standing è davvero superiore in tutto, dalla qualità delle canzoni (e ad 85 anni Willie ha ancora voglia di scrivere) alla voce del leader, che se ultimamente dal vivo perde qualche colpo, in questo album è praticamente perfetta. Inizio pimpante con la title track, un brano elettrico e dallo spirito più sudista che texano, un suono caldo caratterizzato da chitarre ed organo e ritmo vivace. E la voce del nostro non ha bisogno di introduzioni, è un vero e proprio strumento aggiunto nonostante l’età. Ottima anche Don’t Tell Noah, altro pezzo dal ritmo sostenuto, quasi un rockabilly, con deliziose parti chitarristiche e Willie che da la sensazione di divertirsi come un giovincello. Bad Breath è una ballatona elettrica tipica del suo stile, quasi un valzerone che ricorda i brani con Waylon degli anni settanta, con un motivo di prim’ordine ed una strumentazione perfetta, sicuramente tra gli highlights del CD.

Me And You è una country song limpida, spedita e diretta, cantata alla grande e con le chitarre in primo piano, compresa l’inseparabile Trigger del nostro. Something You Get Through è la prima oasi, uno slow raffinato e di gran classe, con un retrogusto southern soul ed una voce da pelle d’oca; Ready To Roar è uno squisito western swing dal ritmo contagioso e ritornello immediato, suonato con maestria ed eleganza, mentre Heaven Is Closed è un’altra splendida ballatona texana cadenzata, un genere in cui Willie è ancora il numero uno, con il suono inimitabile della sua chitarra doppiato da quello dell’armonica di Raphael. Che dire di I Ain’t Got Nothin’, un honky-tonk’n’roll (si può dire?) dal ritmo irresistibile e con notevole uso di chitarra, piano e steel, o di She Made My Day, altro pezzo ricco di swing, texano al 100% e tutto da godere? Il CD si chiude (anche se esiste una versione con tre canzoni in più, ma in vendita solo in America nei ristoranti della catena a tema country Cracker Barrel) con I’ll Try To Do Better Next Time, altra western ballad cristallina, e con la robusta Very Far To Crawl, un pezzo grintoso che profuma di Sud.

Pur facendo praticamente solo dischi belli, sono anni che Willie Nelson non figura nelle mie Top Ten di fine anno con un suo album: Last Man Standing potrebbe essere quello buono.

Marco Verdi

Alla Sua Veneranda Età E’ Ancora Al Top. Willie Nelson – God’s Problem Child

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Willie Nelson – God’s Problem Child – Legacy/Sony CD

A 84 anni suonati Willie Nelson non ha assolutamente voglia di appendere la sua chitarra Trigger al chiodo, né di rallentare il ritmo: un disco all’anno è il minimo, quando non sono due. Dal vivo ormai fa un po’ fatica, come dimostra la sua recente partecipazione al concerto tributo a Waylon Jennings (ed anche, evento del quale sono stato fortunato testimone, la sua comparsata allo splendido concerto di Neil Young & Promise Of The Real lo scorso anno a Milano, in cui non ha cantato benissimo ma è bastata la sua presenza per illuminare il palco di un’aura particolare), ma in studio ha ancora diverse frecce al proprio arco; tra l’altro Willie potrebbe vivere di rendita continuando ad incidere standard della musica americana, come ha fatto più volte, ed invece ama ancora mettersi in gioco scrivendo nuove canzoni. Infatti nel suo ultimo lavoro, God’s Problem Child, ben sette brani su tredici portano la firma di Nelson, insieme al produttore Buddy Cannon (a suo fianco da diversi anni ormai), e questo dimostra chiaramente la voglia di non sedersi sugli allori. Ma, a parte queste considerazioni, God’s Problem Child è un disco bellissimo, uno dei migliori tra gli ultimi di Willie, con un suono straordinario (Cannon è un fuoriclasse di un certo tipo di produzione) ed una serie di canzoni di prim’ordine, suonate con smisurata classe dalla solita combriccola di musicisti coi fiocchi, tra i quali il fido Mickey Raphael all’armonica, Bobby Terry alla steel, James Mitchell alla chitarra elettrica, Fred Eltringham alla batteria e, a sorpresa, Alison Krauss alle armonie vocali in un paio di brani, oltre a tre ospiti che vedremo dopo nella title track.

Willie chiaramente non inventa nulla, nessuno credo si aspettasse un cambiamento nel suo modo di fare musica, ma in questo ambito è ancora uno dei numeri uno, nonostante le molte primavere alle spalle: Little House On The Hill apre l’album, una guizzante country song scritta da Lyndel Rhodes, che altri non è che la madre di Cannon, una canzone molto classica, del tipo che Willie ha cantato un milione di volte (anche se ogni volta sembra la prima), con un bel botta e risposta voce-coro che fa molto gospel, anzi noto una certa somiglianza con la famosa Uncloudy Day. Old Timer è un pezzo di Donnie Fritts, una sontuosa ballata pianistica, splendida nella melodia e nell’arrangiamento soulful, con la voce segnata dagli anni di Nelson che provoca diversi brividi. True Love è un’altra intensa slow song, tutta incentrata sulla voce carismatica del nostro, con una strumentazione parca ma calibrata al millimetro ed una melodia fluida: classe pura; Delete And Fast Forward, ispirata dall’esito delle elezioni presidenziali americane, è tipica di Willie, con il suo classico suono texano e qualche elemento rock garantito dalla chitarra di Mitchell, mentre A Woman’s Love, che è anche il primo singolo, è un delizioso western tune dal motivo diretto ed un leggerissimo sapore messicano. Your Memory Has A Mind On Its Own è un puro honky-tonk, niente di nuovo, ma Willie riesce a dare un tocco personale a qualunque cosa, e sono poi i dettagli a fare la differenza (qui, per esempio, la chitarra del texano e l’armonica sempre presente di Raphael).

Butterfly è una limpida country song dalla melodia tersa ed armoniosa, con un ottimo pianoforte e la voce che emoziona come sempre, la vivace Still Not Dead (ironico pezzo ispirato dalla notizia falsa circolata qualche tempo fa della morte di Nelson) porta un po’ di brio nel disco, e Willie mostra di avere ancora il ritmo nel sangue: il brano, poi, è davvero piacevole e cantato con la solita attitudine rilassata e misurata. God’s Problem Child, oltre a dare il titolo al CD, è anche il brano centrale, una canzone scritta da Jamey Johnson con Tony Joe White, con i due che partecipano anche vocalmente, e White pure con la sua chitarra, entrambi raggiunti per l’occasione da Leon Russell, qui nella sua ultima incisione prima della scomparsa: il brano ha il mood swamp annerito tipico di Tony Joe, ma con l’upgrade della voce e chitarra di Willie (e che brividi quando tocca a Russell), grandissima musica davvero; ancora tre pezzi scritti dalla coppia Nelson/Cannon (la cristallina e folkie It Gets Easier, Lady Luck, altra Texas cowboy song al 100% e l’ottimo valzerone I Made A Mistake) e chiusura con He Won’t Ever Be Gone, uno splendido e toccante omaggio all’amico di una vita Merle Haggard (scritto da Gary Nicholson) ed altra prova di grande classe da parte del nostro. Willie Nelson è uno dei pochi artisti che riescono a coniugare quantità e qualità, e se la salute lo assisterà avremo ancora parecchi bei dischi da ascoltare in futuro.

Marco Verdi

Ormai Con Loro Si Va Sul Sicuro! Randy Rogers Band – Nothing Shines Like Neon

randy rogers band nothing shines like neon

Randy Rogers Band – Nothing Shines Like Neon – Tommy Jackson CD

La Randy Rogers Band, attiva da una dozzina d’anni, è oggi uno degli acts più popolari in Texas, ed anche fuori dai confini del Lone Star State, un successo ottenuto senza mai svendersi o modificare il proprio suono a favore delle classifiche e delle radio di settore.   La band è ormai affiatata, suona a memoria, ed è comprensibile dato che non ha mai avuto cambi di personale: oltre a Rogers, abbiamo i soliti Geoffrey Hill alla chitarra solista, Jon Richardson al basso, Les Lawless alla batteria e Brady Black al violino; il loro suono, un rockin’ country deciso ma con una propensione alla melodia non comune, è maturato disco dopo disco e, dopo la parentesi solista di Rogers insieme a Wade Bowen lo scorso anno con il divertente Hold My Beer, Vol. 1, abbiamo tra le mani il loro settimo album di studio, intitolato Nothing Shines Like Neon.

Chi ha apprezzato le precedenti fatiche della RRB non mancherà di farlo anche con questo lavoro, che forse spinge meno l’acceleratore sul rock ed è un filo più country, anche perché il produttore è il grande Buddy Cannon, uno dei principali artigiani del suono in questo genere, già dietro la consolle in passato per Willie Nelson, Merle Haggard, George Jones, George Strait, Kenny Chesney e moltissimi altri. Nothing Shines Like Neon forse non è il disco migliore della RRB, ma di sicuro insidia le prime posizioni e comunque si colloca ben al di sopra della media delle uscite mensili in ambito country (soprattutto quelle che arrivano da Nashville), grazie anche ad una manciata di ospiti illustri (che scopriremo strada facendo) che aggiunge prestigio ad un  lavoro già più che positivo. San Antone apre il CD, una western ballad molto ben costruita, con una melodia ad alto tasso emozionale, un languido violino ed una ritmica spedita, un inizio forse non roboante ma sincero ed autentico. Rain And The Radio, più diretta e cadenzata, ha elementi più sudisti che texani, ed un bel ritornello limpido, mentre Neon Blues è country-rock d’autore, un bel brano elettrico dal refrain godibile, un tipo di canzone che a Rogers riesce particolarmente bene, con un appeal anche radiofonico ma senza scadere in personalità.

La potente Things I Need To Quit è una ballata elettrica di spessore, nella quale Randy ed i suoi pards suonano distesi e rilassati, ma senza perdere un’oncia di feeling; Look Out Yonder vede Alison Krauss ed il suo collega Dan Tyminski alle armonie vocali, ed il brano è una gentile oasi elettroacustica, con un ottimo ritornello corale, uno dei più riusciti del lavoro, mentre con la tersa Tequila Eyes torniamo sul versante country-rock, anche se non manca una nota di malinconia nel motivo. Takin’ It As It Comes vede il nostro duettare con il grande Jerry Jeff Walker (un pezzo di storia del Lone Star State), un travolgente brano che potrebbe benissimo appartenere al repertorio dell’autore di Mr. Bojangles, puro Texas rock’n’roll; Old Moon New è un languido slow, toccante ed eseguito con grande trasporto, un intermezzo più che gradito, seguito a ruota da un’altra ballata ancora migliore, Meet Me Tonight, che ha un piede negli anni sessanta ed il solito refrain scorrevole. La maschia e grintosa Actin’ Crazy, di e con Jamey Johnson (quindi garanzia di qualità) ed il puro country di Pour One For The Poor One, quasi un honky-tonk rallentato, chiudono l’ennesimo disco positivo per una band sulla quale ormai possiamo contare ad occhi chiusi.

Marco Verdi