Willie Sinatra Colpisce Ancora…E Pure Meglio Della Prima Volta! Willie Nelson – That’s Life

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Willie Nelson – That’s Life – Legacy/Sony CD

Ormai omaggiare Frank Sinatra sta quasi diventando una moda, ma se i tre album pubblicati la scorsa decade da Bob Dylan, che crooner non è, hanno suscitato reazioni contrastanti (ottime per Shadows In The Night, meno entusiastiche per Fallen Angels ed un tantino annoiate per Triplicate), My Way, disco del 2018 di Willie Nelson, ha avuto recensioni unanimemente positive, cosa comprensibilissima dal momento che Willie rispetto a Bob è decisamente più portato per un certo tipo di sonorità, essendo uno di quelli che, con la classe e la voce che si ritrova, potrebbe davvero cantare qualsiasi cosa. Non è un caso che My Way fosse solo l’ultima incursione in ordine di tempo del texano all’interno del “Great American Songbook”: il bellissimo Stardust del 1978 è il caso più famoso (nonché uno dei suoi lavori più di successo), ma nel corso della carriera Willie ci ha regalato molti altri album in cui reinterpretava da par suo gli standard della musica statunitense, come Somewhere Over The Rainbow, What A Wonderful World, Moonlight Becomes You, American Classic ed il recente omaggio alle canzoni dei fratelli Gershwin Summertime.

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Nelson nonostante l’età (ad aprile saranno 88 primavere) pubblica ancora almeno un disco nuovo all’anno, e nel 2021 l’onore è toccato a That’s Life, che altro non è che il secondo volume delle sue interpretazioni del repertorio di The Voice, come si intuisce dal titolo ma soprattutto dalla stupenda copertina che si ispira a quella di In The Wee Small Hours, album del 1955 che è anche uno dei più famosi del grande Frank. E, se possibile, That’s Life è ancora più bello di My Way https://discoclub.myblog.it/2018/09/29/i-figli-illegittimi-di-frank-proliferano-dopo-bob-ecco-willie-sinatra-willie-nelson-my-way/ , ed allunga l’incredibile striscia positiva di eccellenti lavori di questo intramontabile artista: ho già scritto in altre occasioni che Willie dal vivo non è più quello di un tempo, fa fatica ed a volte la sua voce si trasforma in un rantolo, ma in studio, visto che può centellinare le performance ed avvicinarsi al microfono quando è veramente pronto, è ancora in grado di dire la sua in maniera formidabile se pensiamo che ha quasi 90 anni. That’s Life presenta undici interpretazioni da brividi lungo la schiena di altrettanti brani che hanno in comune il fatto di essere stati tutti incisi da Sinatra, anche se non necessariamente la versione di Frank è la più famosa.

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Se per esempio la title track, In The Wee Small Hours Of The Morning, Learnin’ The Blues e I’ve Got You Under My Skin sono tutte signature songs del cantante di origine italiana, altre hanno avuto riletture anche più famose da parte di gente del calibro di Fred Astaire, Billie Holiday, Dean Martin, Tommy Dorsey, Ella Fitzgerald, Tony Bennett e Bing Crosby. Il disco è stato registrato ai mitici Capitol Studios di Los Angeles, gli stessi di Sinatra (con una puntatina in Texas ai Pedernales Studios di proprietà di Nelson), prodotto in tandem dall’abituale partner di Willie Buddy Cannon e dal bravissimo pianista Matt Rollings e presenta una lista di musicisti da leccarsi i baffi: oltre allo stesso Rollings al piano, organo e vibrafono e Willie che ci fa sentire la sua mitica chitarra Trigger, troviamo l’inseparabile Mickey Raphael all’armonica, il grande Paul Franklin alla steel, l’ottimo Dean Parks alla chitarra elettrica, la sezione ritmica di David Piltch (basso) e Jay Bellerose (batteria), oltre ad una sezione fiati di sei elementi ed una spruzzata d’archi qua e là.

Willie Nelson performs at the Producers & Engineers Wing 12th Annual GRAMMY Week Celebration at the Village Studio on Wednesday, Feb. 6, 2019, in Los Angeles. (Photo by Richard Shotwell/Invision/AP)

Willie Nelson performs at the Producers & Engineers Wing 12th Annual GRAMMY Week Celebration at the Village Studio on Wednesday, Feb. 6, 2019, in Los Angeles. (Photo by Richard Shotwell/Invision/AP)

Nice Work If You Can Get It, dei Gershwin Brothers, è un delizioso jazz pianistico ricco di swing, con un gran lavoro di Rollings, la steel accarezzata sullo sfondo, ritmo acceso e Willie che si prende la canzone con verve ed una buona dose di classe. Splendidamente raffinata anche Just In Time, dalla ritmica soffusa (la batteria è spazzolata) ma sostenuta al tempo stesso, un grandissimo pianoforte (tra i protagonisti assoluti del CD) ed il leader che avvolge il tutto con la sua voce calda e vissuta; A Cottage For Sale, introdotta dagli archi, è notevolmente più lenta e rimanda alle sonorità di settanta anni fa, quando certe canzoni erano usate nelle commedie a sfondo musicale, un elemento in cui Willie si cala alla perfezione. I’ve Got You Under My Skin è uno dei pezzi più celebri di Sinatra (l’autore è il grande Cole Porter): il ritmo è spezzettato e l’accompagnamento degno di un locale fumoso con la band che a notte fonda intrattiene i pochi avventori rimasti che cercano conforto nel quarto bicchiere di whiskey, con un breve ma incisivo assolo da parte di Parks (ma tutto il gruppo suona che è una meraviglia) https://www.youtube.com/watch?v=8cPuigClurE . I fiati colorano l’elegante You Make Me Feel So Young, con il nostro che canta con padronanza assoluta interagendo in maniera perfetta con la band e facendoci sentire la sua Trigger anche se per un breve istante, mentre la coinvolgente I Won’t Dance lo vede duettare con la brava Diana Krall, ed il gruppo swinga alla grande neanche fosse la Count Basie Orchestra: classe sopraffina https://www.youtube.com/watch?v=0RMYCzzCztA .

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That’s Life è un altro classico che conoscono quasi tutti, una grande canzone che Willie fa sua con la sicurezza di uno che nella vita ne ha viste tante https://www.youtube.com/watch?v=XEf8NXZEtzQ , con Raphael e Franklin che portano un po’ di spirito country in un brano che è puro jazz; la sinuosa Luck Be A Lady è una via di mezzo tra swing e bossa nova, un cocktail di grande eleganza con i fiati nuovamente protagonisti e la voce di Nelson che è uno strumento aggiunto. In The Wee Small Hours Of The Morning, ballatona pianistica dal pathos notevole (sentite la voce, da pelle d’oca) https://www.youtube.com/watch?v=gS54H5uNddY , precede le conclusive Learnin’ The Blues, raffinatissima e suonata in punta di dita (con un ottimo intervento di steel), e la cadenzata Lonesome Road, ancora con il pianoforte a caricarsi buona parte dell’accompagnamento sulle spalle, qui ben doppiato dall’organo. Ennesimo gran disco quindi per Willie Nelson, tra i migliori di questo ancor giovane 2021.

Marco Verdi

Una Gradita Appendice Al Disco Dell’Estate. Jimmy Buffett – Songs You Don’t Know By Heart

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Jimmy Buffett – Songs You Don’t Know By Heart – Mailboat CD

Life On The Flip Side, ultimo album di Jimmy Buffett pubblicato lo scorso maggio, è a mio parere uno dei lavori migliori del 2020 ed in generale uno dei più belli del cantautore del Mississippi ma da una vita trapiantato in Florida https://discoclub.myblog.it/2020/06/10/signore-e-signori-il-disco-dellestate-2020-jimmy-buffett-life-on-the-flip-side/ . Ovviamente, come per la maggior parte dei dischi di Jimmy che vengono messi in commercio durante i mesi estivi, anche Life On The Flip Side è stato inciso lo scorso inverno quando ancora il Covid era una malattia che sembrava dover interessare più che altro la Cina (che invece è l’unico paese a non averne risentito economicamente, e non fatemi dire di più se no mi si accusa di complottismo): nel periodo seguente anche Buffett è stato coinvolto come tutti in una sorta di lockdown mondiale, e come molti suoi colleghi ha avuto parecchio tempo a disposizione per registrare altra musica.

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Nella fattispecie Jimmy ha lanciato un sondaggio online tra i suoi fans (i famosi “Parrotheads”) chiedendo loro quali canzoni tra le sue meno famose, i cosiddetti “deep cuts”, avrebbero volentieri ascoltato in un nuovo arrangiamento. Le risposte non hanno tardato ad arrivare, e Jimmy ha scelto i quindici brani che avevano ottenuto più preferenze e li ha eseguiti in una veste sonora decisamente più intima rispetto ai concerti con la Coral Reefer Band, facendosi accompagnare da pochissimi musicisti ed in formato acustico (soltanto il fidato Mac McAnally e Peter Mayer alle chitarre e mandolino ed Eric Darken alle percussioni, più il noto Matt Rollings alla fisarmonica in un pezzo), con la figlia Delaney che riprendeva il tutto per la messa in onda sul canale web del nostro Margaritaville TV. Ebbene, l’operazione ha avuto un grande successo di ascolti e di visualizzazioni anche su YouTube, cosa da convincere Buffett a pubblicare un disco nuovo con i brani suonati, album intitolato Songs You Don’t Know By Heart, cosa che inizialmente, visto l’immagine “vintage” di Jimmy in copertina ed il titolo del CD che riprendeva quello di un suo famoso greatest hits (Songs You Know By Heart), mi aveva fatto pensare ad un’antologia di pezzi meno noti.

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Il disco è molto gradevole e riuscito, e ci presenta un Buffett diverso, meno caraibico e più cantautore, con uno stile simile a quello di James Taylor che tra l’altro è da sempre una delle sue maggiori fonti d’ispirazione. Voci, chitarre acustiche, la batteria non sempre, qualche volta ukulele e mandolino: non c’è il muro del suono tipico della Coral Reefer Band e le ballate la fanno da padrone, ma il disco non è per nulla noioso o monotono. Dei quindici pezzi totali ben undici appartengono al periodo “classico” di Jimmy, cioè quello che va dal 1970 al 1983, mentre solo tre canzoni provengono dagli anni 90 ed una dall’attuale millennio: tutte però sono talmente poco famose che è come se fossero nuove, tranne forse Tin Cup Chalice che viene ancora ripresa abbastanza di frequente in concerto  https://discoclub.myblog.it/2020/06/10/signore-e-signori-il-disco-dellestate-2020-jimmy-buffett-life-on-the-flip-side/.

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E ci sono diversi brani molto belli, come la cristallina I Have Found Me A Home, pura e folkeggiante https://www.youtube.com/watch?v=M_05R70Ienc , la splendida Woman Goin’ Crazy On Caroline Street, scritta da Jimmy insieme a Steve Goodman https://www.youtube.com/watch?v=sM7xwMRr_8o , l’intensa The Captain And The Kid, Delaney Talks To Statues, deliziosa come tutte quelle dell’album dal quale proviene (cioè Fruitcakes, forse il più bello di sempre del nostro) https://www.youtube.com/watch?v=e8lSL9oN_fA , la divertente fin dal titolo Peanut Butter Conspiracy, il valzer country Something So Feminine About A Mandolin, le raffinate Love In The Library, Chanson Pour Les Petits Enfants e Cowboy In The Jungle, chiari esempi di songwriting di classe, la già citata Tin Cup Chalice, sicuramente tra le più belle, fino alla chiusura intima di Death Of An Unpopular Poet, solo Jimmy voce e chitarra. Il disco da avere di Jimmy Buffett del 2020 è senza dubbio Life On The Flip Side, ma ciò non vuol dire che Songs You Don’t Know By Heart vada ignorato.

Marco Verdi

Forse L’Unico Modo Per Fermarlo E’ Sparargli! Willie Nelson – Ride Me Back Home

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Willie Nelson – Ride Me Back Home – Legacy/Sony CD

Alla bella età di 86 anni suonati il grande texano Willie Nelson non ha la minima intenzione non solo di fermarsi, ma neppure di rallentare. Se ormai dal vivo fa fatica e si prende le sue (comprensibilissime) pause, in studio continua a viaggiare al ritmo di almeno un disco all’anno, quando non ne fa due (tipo lo scorso anno, prima con lo splendido Last Man Standing e poi con My Way, raffinato omaggio a Frank Sinatra), e sempre con una qualità piuttosto alta. Ora il barbuto countryman inaugura il suo 2019 con questo Ride Me Back Home, album in studio numero 69 per lui, un altro ottimo lavoro che, pur non raggiungendo forse i picchi creativi di Last Man Standing (che era però uno dei suoi migliori in assoluto, almeno negli ultimi venti anni https://discoclub.myblog.it/2018/05/07/non-solo-non-molla-ma-questo-e-uno-dei-suoi-dischi-piu-belli-willie-nelson-last-man-standing/ ), si posiziona tranquillamente molto in alto nella classifica qualitativa dei suoi dischi. Prodotto dall’ormai inseparabile Buddy Cannon, Ride Me Back Home è la solita prova di bravura, un lavoro decisamente raffinato e suonato con classe immensa da un gruppo di musicisti coi controfiocchi (tra i quali spiccano i formidabili Jim “Moose” Brown e Matt Rollings, entrambi al piano ed organo, James Mitchell alla chitarra, la sezione ritmica formata da Larry Paxton al basso e Fred Eltringham alla batteria, Bobby Terry alla steel e l’immancabile Mickey Raphael all’armonica) e cantato da Willie con una voce che, pur mostrando i segni dell’età, riesce ancora a dare i brividi ed a sprizzare carisma da ogni nota.

L’album, undici canzoni, si divide in maniera equilibrata tra brani originali scritti dal nostro a quattro mani con Cannon, più il rifacimento di un vecchio pezzo, un paio di canzoni nuove da parte di songwriters esterni ed una manciata di cover. I tre brani a firma Nelson-Cannon sono inaugurati da Come On Time, country song dal ritmo vivace e coinvolgente, texana al 100%, con una bella chitarrina ed un ritornello tipico del nostro; Seven Year Itch è un pezzo dal passo cadenzato ed atmosfera old-time, sembra quasi provenire dal songbook di Tennessee Ernie Ford, mentre One More Song To Write è una squisita country ballad dalla veste che richiama atmosfere sonore al confine col Messico. Stay Away From Lonely Places è un remake di un brano che Willie aveva scritto nel 1971: puro jazz d’alta classe con la band che sfiora appena gli strumenti, batteria spazzolata e Rollings che lavora di fino al piano, con Willie che si destreggia alla perfezione nel suo ambiente naturale. I due pezzi nuovi ma non scritti da Willie sono la title track (che apre l’album), bellissimo slow pianistico sfiorato dalla steel e valorizzato da una deliziosa melodia, e Nobody’s Listening, una canzone sempre dall’incedere lento ma con un arrangiamento atipico quasi più rock che country, un pianoforte liquido ed uno sviluppo fluido e rilassato.

Poi abbiamo due canzoni del grande Guy Clark, che Willie non aveva ancora omaggiato da dopo la scomparsa avvenuta nel 2016: My Favorite Picture Of You è uno dei brani più personali della carriera del grande songwriter texano (era dedicata alla moglie Susanna, mancata prima di lui), una ballatona intensa sempre con il piano in evidenza ed un arrangiamento raffinato, da brano afterhours, mentre Immigrant Eyes è davvero splendida, un pezzo toccante e superbamente eseguito, con un ispiratissimo assolo di Willie con la sua Trigger. Infine le altre cover: non ho mai amato particolarmente Just The Way You Are, una delle canzoni più popolari di Billy Joel, ma Willie la spoglia delle originali sonorità da sottofondo per un cocktail party e riesce a farla sua, anche se rimane quel retrogusto di artefatto, molto meglio It’s Hard To Be Humble (di Mac Davis) un tipico e scintillante valzerone texano cantato a tre voci da Nelson con i figli Lukas e Micah, un tipo di brano in cui il nostro è maestro indiscusso; chiude il CD Maybe I Should’ve Been Listening, un pezzo scritto da Buzz Rabin nel 1977, altro lento molto intenso e cantato in maniera toccante e profonda  Ennesimo bel disco dunque per il vecchio Willie, anche se sono sicuro che mentre noi siamo qui che lo ascoltiamo lui sta già pensando al prossimo.

Marco Verdi

Lo Avevo Quasi Dato Per Disperso! Kevin Welch – Dust Devil

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Kevin Welch – Dust Devil – Dead Reckoning CD

L’ultima volta che Kevin Welch aveva pubblicato un disco (A Patch Of Blue Sky, 2010), il sottoscritto non collaborava ancora a questo blog. Eppure c’era stato un momento all’inizio degli anni novanta che il musicista californiano sembrava una delle “next big things” del cantautorato americano: l’omonimo esordio Kevin Welch (1990) era già molto bello, anche se ancora decisamente country, ma il seguente Western Beat era stato per chi scrive uno dei dischi più belli del 1992, uno splendido album di puro rockin’ country a stelle e strisce, in cui Joe Ely incontrava idealmente John Prine. Life Down Here On Earth (1995) era ancora un lavoro di grande livello, ma i due seguenti, Beneath My Wheels (1999) e Millionaire (2001), pur validi, erano qualche gradino sotto; la scorsa decade Kevin l’ha poi dedicata alla collaborazione con Kieran Kane (e Fats Kaplin), due album di studio ed uno dal vivo, ed è tornato appunto nel 2010 con il già citato A Patch Of Blue Sky, un passo avanti rispetto a Millionaire.

Otto anni di silenzio assoluto, ed ora finalmente Welch ritorna tra noi con Dust Devil (uscito lo scorso Ottobre, ma piuttosto difficile da trovare), un album di puro cantautorato in cui non solo il nostro dimostra di non aver perso il tocco, ma addirittura ci consegna il suo disco migliore da Life Down Here On Earth in avanti. Persona gentile e modesta (ve lo posso confermare dato che ho avuto la fortuna di viaggiarci a fianco durante un volo Milano-Atlanta proprio nel 2010, io per lavoro e lui tornava a casa da una breve tournée italiana: cortese, disponibilissimo, zero atteggiamenti da star, perfino onorato e stupito del fatto che lo avessi riconosciuto), Kevin è uno che non ha mai voluto fare il salto quando avrebbe anche potuto, ma ha scelto di fare la sua musica con i suoi amici, nel modo più rilassato possibile, senza pressioni. E, come dicevo, in Dust Devil, di ottima musica ce n’è a iosa: otto brani originali e due cover, Welch ispiratissimo ed una backing band davvero da leccarsi i baffi, che comprende il già citato Fats Kaplin al mandolino, steel, violino e banjo, Glenn Worf al basso, Harry Stinson alla batteria, il grande Matt Rollings al piano ed organo ed il chitarrista Kenny Vaughan, leader dei Fabulous Superlatives di Marty Stuart, oltre ai backing vocals di Eliza Gilkyson e dei figli di Kevin, Dustin e Savannah Welch (quest’ultima di professione attrice e ragazza bellissima, cercate le sue foto su Google e ne converrete con me).

La cadenzata Blue Lonesome apre bene il CD, un brano suadente e caratterizzato da un insistente riff di mandolino ed un ritmo crescente, con gli strumenti che a poco a poco si inseriscono fino a dare al pezzo un suono pieno e corposo (c’è anche un sax), il tutto per sei minuti di durata. Just Because It Was A Dream è una bellissima e toccante ballata dal sapore anni sessanta, leggermente country e cantata con grande intensità da Kevin, The Girl In The Seashell è una struggente slow song pianistica dalla melodia deliziosa, suonata in punta di dita e con un languido violino che sa d’Irlanda, mentre High Heeled Shoes è la cover di un vecchissimo brano del Kingston Trio, ripreso con uno squisito arrangiamento dixieland, con tanto di clarinetto e batteria spazzolata: grande classe. Splendida Brother John, una rock song elettrica dal ritmo quasi marziale, un motivo evocativo ed emozionante ed un tappeto strumentale dominato da chitarre (ottimo l’assolo di Vaughan) e fiati; Dandelion Girl è una ballatona che Kevin canta con il consueto approccio pacato, mentre intorno a lui il gruppo cuce un vestito sonoro perfetto, con la batteria in levare e la solita bella chitarra. Anche True Morning è tenue e limpida, una country ballad dal motivo molto diretto, cantato sempre con voce espressiva ed un delizioso sapore d’altri tempi, mentre Sweet Allis Chalmers è la rilettura di un pezzo dei Country Gazette, musicalmente spoglia ma dall’indubbio pathos, con il piano di Rollings che guida la melodia. Siamo quasi alla fine, il tempo per l’avvolgente A Flower, intenso talkin’ di stampo western, e per la folkeggiante title track (con un bell’intervento di corno francese, molto The Band), che chiude positivamente un disco pieno di belle canzoni.

Kevin Welch è finalmente tornato tra noi, e Dust Devil merita ampiamente lo sforzo per accaparrarselo.

Marco Verdi

I Figli “Illegittimi” Di Frank Proliferano: Dopo Bob, Ecco Willie Sinatra! Willie Nelson – My Way

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Willie Nelson – My Way – Legacy/Sony CD

Sembra che, nonostante veleggi ormai verso gli ottant’anni di età, Bob Dylan non abbia smesso, anche involontariamente, di creare tendenze: infatti dopo i tre album (o cinque, dato che Triplicate era, appunto, un triplo) dedicati dal vate di Duluth alle canzoni del leggendario Frank Sinatra, ora anche Willie Nelson ha deciso di celebrare la musica di “Ol’ Blue Eyes” con questo nuovissimo My Way. C’è da dire che, a differenza di Dylan, Nelson non è la prima volta che si cimenta con gli standard della musica americana: a parte il famoso Stardust del 1978, negli anni il texano ha pubblicato diversi album a tema “Great American Songbook”, come What A Wondeful World, Moonlight Becomes You, parte di Healing Hands Of Time, American Classic, Summertime. E con My Way Willie ci regala uno dei suoi album migliori, e non solo del genere standard, un lavoro splendido che fa il paio con l’altrettanto bellissimo Last Man Standing uscito pochi mesi fa. E’ incredibile infatti come il nostro riesca a coniugare quantità e qualità con una tale nonchalance: se dal vivo, per vari problemi fisici, qualche colpo ultimamente lo ha perso, in studio è ancora una sentenza.

In My Way Willie ha usato lo stesso approccio di Bob, cioè non prendendo solo le canzoni più famose di Sinatra, ma rivolgendosi a standard che anche Frank ha cantato nella sua carriera: così a veri e propri classici associati principalmente al cantante italo-americano (Fly Me To The Moon, One For My Baby, la stessa My Way) si alternano pezzi dei quali la versione di Sinatra non è magari neanche la più nota (A Foggy Day, Night And Day). Quello che più conta però è il risultato finale, che come dicevo poc’anzi è davvero splendido: Willie canta e swinga con classe immensa, e con una voce che è ancora più che mai in grado di dare i brividi, ed i suoni sono nelle mani sicure del fido Buddy Cannon e del grande pianista ed organista Matt Rollings (Lyle Lovett, Mark Knopfler, Mary Chapin Carpenter), che è anche il leader e direttore musicale di un gruppo da sogno: Jay Bellerose alla batteria, Dean Parks alla chitarra, Paul Franklin alla steel, l’inseparabile Mickey Raphael all’armonica, il notevole bassista David Piltch ed una sezione fiati nella quale spicca un trio di sassofonisti formato da Jeff Coffin, Denis Solee e Doug Moffet. Un disco raffinato ma pieno di feeling, che sprizza classe da ogni nota, suonato in maniera sicura e rilassata nello stesso tempo. L’album si apre con la celeberrima Fly Me To The Moon, con Willie che inizia subito a swingare che è un piacere, seguito dai fiati che accompagnano in maniera calorosa, la sezione ritmica che punteggia alla grande ed un doppio delizioso assolo chitarristico, prima del nostro con la sua Trigger e poi di Parks.

Summer Wind è una pura jazz ballad, che vede Nelson cantare in perfetto relax, il gruppo suonare in punta di dita (con il piano di Rollings in evidenza) e l’armonica dare il tocco country; ancora piano ed armonica introducono la nota One For My Baby (And One More For The Road), dall’accompagnamento soffuso, atmosfera afterhours, una sezione d’archi non invasiva e la consueta classe sopraffina. A Foggy Day è un brano di George ed Ira Gershwin, e come tutti i pezzi scritti dal duo di compositori di Brooklyn ha avuto negli anni varie versioni, delle quali quella di Sinatra non è necessariamente la più famosa: la rilettura di Willie è nuovamente ricca di swing, ed è punteggiata dal solito splendido pianoforte di Rollings e dai fiati al gran completo; It Was A Very Good Year è intensa e maestosa, Willie la canta come se fosse una western tune e gli archi aggiungono pathos e drammaticità, mentre Blue Moon è uno dei pezzi più famosi di tutti i tempi, con il texano che la rifà in maniera raffinata e godibile, mettendoci una bella dose di verve: piano, steel e Trigger completano il quadro. La lenta I’ll Be Around (che era uno degli highlights del mitico In The Wee Small Hours) è limpida e tranquilla, con Willie che canta come se avesse un bicchiere di whisky in una mano ed un sigaro nell’altra, e con la strumentazione al solito superba (ottima la steel):

Ecco a questo punto due canzoni di Cole Porter: Night And Day è conosciutissima anche in versioni alternative a Sinatra (per esempio è molto popolare quella di Fred Astaire, e pure Nelson l’aveva già incisa, ma solo in veste strumentale) ed è ancora eseguita ottimamente, con grande gusto e swing, mentre What Is This Thing Called Love?, calda, vivace e guidata magistralmente dal piano, vede il nostro duettare con la brava Norah Jones, un’altra che in queste sonorità ci sguazza. La piacevolissima e jazzata Young At Heart, brano che Sinatra fu il primo ad incidere, precede la conclusiva My Way, materia pericolosa in quanto uno degli evergreen assoluti del cantante di Hoboken, un pezzo di Paul Anka che The Voice ha eletto a manifesto di un certo stile di vita: Willie la canta intelligentemente alla sua maniera, solo voce e pochi strumenti, arrangiandola in modo molto vicino al suo stile abituale, riuscendo a provocare più di un brivido in chi ascolta. In mancanza, pare, di un nuovo disco di Van Morrison nelle prossime settimane (anche perché ne ha fatti tre in meno di un anno), questo My Way è il classico album perfetto per allietare le serate autunnali che ci attendono.

Marco Verdi

Una Grande Serata Di Vero Country In Quel Di Austin! Outlaw: Celebrating The Music Of Waylon Jennings

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Outlaw: Celebrating The Music Of Waylon Jennings – Legacy/Sony CD/DVD

Splendido tributo alla musica di Waylon Jennings, uno dei più importanti musicisti country di tutti i tempi, vera leggenda in Texas, ed esponente di punta insieme a Willie Nelson del cosiddetto movimento “Outlaw Country”, che negli anni settanta si contrapponeva al country più commerciale che veniva prodotto a Nashville. Il concerto si è tenuto quasi due anni fa, il 6 Luglio del 2015, al Moody Theatre di Austin, ed è stata una grande serata, nella quale si sono dati appuntamento una lunga serie di amici e discepoli di Waylon (più i secondi dei primi, purtroppo molti sono da tempo in cielo a far compagnia a Jennings) per suonare alcuni tra i brani più noti del grande texano, la cui influenza si è fatta sentire di più dopo la scomparsa (avvenuta nel 2002 in seguito a complicazioni dovute ad una grave forma di diabete, ma conseguenza di una vita nella quale il nostro non si era fatto mancare niente) che nel periodo di attività, complice una discografia non sempre all’altezza, specie negli anni ottanta. Ora la Legacy pubblica finalmente il resoconto di quella serata, in versione CD con DVD allegato, in modo da far godere anche noi delle performances dedicate a Waylon, un concerto nel quale gli invitati hanno dato veramente il meglio di loro stessi, sia i fuoriclasse (e ce n’erano parecchi), sia quelli che a prima vista poco c’entravano con il barbuto countryman texano; in tutti i brani, poi, troviamo la solita house band da sogno che non manca mai in queste occasioni: Don Was al basso, produzione e direzione musicale (ed ultimamente il riccioluto Don non se ne perde uno di questi tributi), Buddy Miller e Patrick Buchanan alle chitarre, Matt Rollings alle tastiere, l’ottimo Robby Turner alla steel guitar, Mickey Raphael all’armonica (da sempre nella band di Willie Nelson), ben due batteristi (Raymond Weber e Richie Albright) e tre coristi.

Il DVD rispetto al CD contiene due brani in più (curiosamente entrambi con protagonista Sturgill Simpson, che quindi nella parte audio non compare – NDM: la presente recensione è fatta sul CD, sorry Sturgill…) più varie interviste agli ospiti che parlano chiaramente di Waylon; da segnalare purtroppo l’assenza di Billy Joe Shaver, che si può spiegare forse solo con il suo precario stato di salute, anche se è una mancanza che pesa non poco. La serata inizia alla grande con una delle performances migliori, grazie all’ottimo Chris Stapleton che propone una versione mossa e tonica, decisamente rock’n’roll, di Ain’t Living Long Like This, il brano di Rodney Crowell che Waylon fece suo nell’ormai lontano 1979, un avvio potente e trascinante, con ottimi interventi di piano e steel; il figlio di Waylon, Shooter Jennings, non si fa contaminare da sonorità strane come spesso fa ultimamente nei suoi dischi, anzi riesce anche a toccare le corde giuste con Whistlers And Jugglers, uno slow classico e con la giusta dose di pathos (splendido Rollings al piano, e strepitoso il finale chitarristico, molto southern), mentre la riunione di famiglia continua con la moglie di Waylon, e madre di Shooter, Jessi Colter, che emoziona con la sua Mona (se siete veneti non fraintendete quest’ultima frase per favore), solo voce e piano ma tanto feeling.

Sale sul palco la prima leggenda vivente della serata: Bobby Bare è un contemporaneo di Waylon, ed uno dei grandi del country, e la sua Only Daddy That’ll Walk The Line è piena di ritmo e grinta nonostante l’età avanzata del nostro; la voce limpida di Lee Ann Womack affronta molto bene la melodica Ride Me Down Easy (proprio di Shaver) e, in duetto con Buddy Miller, la cristallina Yours Love, ed anche il bravissimo Jamey Johnson strappa applausi a scena aperta con Freedom To Stay, country ballad classica cantata con il cuore in mano. La brava Kacey Musgraves sembra ferma agli anni sessanta, sia come stile che come look, e con The Wurlitzer Prize mantiene entrambi i piedi ben saldi in quel periodo, mentre Robert Earl Keen è uno dei migliori texani della generazione successiva a quella di Waylon, ma questa sera la sua rilettura di Are You Sure Hank Done It This Way ha qualcosa che non va, troppo elettrica e rock, quasi monolitica, molto meglio l’arrangiamento originale; Kris Kristofferson non ha certo bisogno di presentazioni, è uno dei grandissimi e non solo della musica country, uno che potrebbe cantare qualsiasi cosa: stasera sceglie I Do Believe, uno slow dall’accompagnamento leggero e con al centro la voce vissuta di Kris che, inutile dirlo, la fa diventare quasi una sua canzone. Strepitoso Ryan Bingham con Rainy Day Woman, in un arrangiamento grintoso e rock ma rispettoso della struttura country dell’originale, un brano che la voce ruvida di Ryan affronta senza problemi (e la steel di Turner è monumentale); sale sul palco Alison Krauss per due pezzi, la dolcissima Dreaming My Dreams With You (splendida la voce della bionda cantante e violinista) e, con Jamey Johnson, una mossa, ritmata e coinvolgente I Ain’t The One, dal deciso sapore sudista.

Toby Keith ed Eric Church non sono certo tra i miei countrymen preferiti, ma stasera non deludono, anzi convincono con due riletture serie e sentite di Honky Tonk Heroes e Lonesome, On’ry And Mean rispettivamente. E’ la volta del grande Willie Nelson, che sale sul palco e non scenderà più fino alla fine: Willie non è più quello di qualche anno fa, canta a fatica, in alcuni momenti sembra perfino a corto di fiato, ma ovviamente non poteva mancare, e comunque sopperisce con la sua presenza magnetica ed il suo immenso carisma (e poi chitarristicamente è ancora un portento); inizia da solo con la nota ‘Til I Gain Control Again, ancora di Crowell, e, in duetto rispettivamente con Keith e Stapleton, le mitiche Mammas Don’t Let Your Babies Grow Up To Be Cowboys e My Heroes Have Always Been Cowboys, entrambe splendide, tra gli highlights dello show. Finale da urlo con la meravigliosa Highwayman, con Willie e Kris che fanno loro stessi, Shooter al posto del padre e Johnson in luogo di Johnny Cash, e poi tutti sul palco per la celebrazione finale con Luckenback, Texas, una delle canzoni-manifesto di Waylon. Un ottimo tributo: era ora che a tredici anni dalla sua scomparsa qualcuno si decidesse ad omaggiare Waylon Jennings in maniera adeguata.

Marco Verdi

Tanto Siamo Ancora In Tempo…E Poi Il Disco Merita! Neil Diamond – Acoustic Christmas

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Neil Diamond – Acoustic Christmas – Capitol CD

Se esistesse una scuola di songwriting e se io fossi uno studente, molto probabilmente vorrei che il mio insegnante fosse Neil Diamond. Cantautore puro, della vecchia scuola (ha frequentato anche il mitico Brill Building di Broadway), a 75 anni il musicista di Brooklyn, oltre ad essere ancora in possesso di una grande voce, è più attivo che mai, e con risultati qualitativi perfino migliori di quando vendeva dischi a vagonate. Autore di una serie lunghissima di classici che oggi hanno la stessa valenza degli standard del grande songbook americano (Solitary Man, I’m A Believer, Sweet Caroline, Cherry Cherry, Shilo, Kentucky Woman, Cracklin’ Rosie, September Morn, solo per citare le più note), Diamond ha spesso diviso la critica per il fatto che i suoi album hanno di sovente seguito sentieri commerciali fatti di sonorità gonfie e sovraorchestrate, rovinando in molti casi canzoni splendide che con arrangiamenti più leggeri avrebbero magari venduto meno ma sarebbero state maggiormente valorizzate: anche i suoi show hanno spesso seguito questo trend, con rappresentazioni più adatte a spettacoli di Las Vegas che ad un concerto rock. Inutile dire che i risultati migliori (artisticamente parlando) Neil li ha ottenuti quando ha affidato la produzione e gli arrangiamenti in mani più sobrie, per esempio con l’album del 1976 Beautiful Noise, con Robbie Robertson in consolle (collaborazione che gli ha tra l’altro garantito l’invito allo storico concerto d’addio a The Band The Last Waltz), ma soprattutto in anni recenti con Rick Rubin, del quale Diamond aveva apprezzato lo straordinario lavoro fatto con Johnny Cash, ed il cui suono ha voluto replicare con i bellissimi 12 Songs e Home Before Dark, dimostrando che, quando ci sono le canzoni, non serve sommergerle di strumenti per valorizzarle, anzi (e le vendite eccellenti dei due album lo hanno confermato). Il suono meno gonfio evidentemente è rimasto nella testa di Neil, dato che anche i due dischi seguenti, Dreams e Melody Road, pur non essendo spogli come i due con Rubin, hanno mantenuto un approccio simile, ed anche questo nuovissimo Acoustic Christmas fin dal titolo prosegue sulla stessa strada.

Non è il primo disco a carattere natalizio di Diamond, ma quasi sicuramente è il migliore, in quanto è davvero un lavoro splendido, suonato ed arrangiato con grandissima classe e misura, prodotto benissimo da “prezzemolo” Don Was e Jacknife Lee (U2, R.E.M.), che già avevano curato Melody Road: Neil affronta da par suo dieci classici stagionali, scrivendo anche due pezzi nuovi, cantando con la sua splendida voce, calda e carismatica (e che sembra migliorare con gli anni), accompagnato da musicisti dal prezioso lignaggio (tra cui i ben noti Richard Bennett e Tim Pierce alle chitarre, Matt Rollings al pianoforte e Joey Waronker alla batteria, oltre alle backing vocals di gruppi di gran nome come i Blind Boys Of Alabama e Julia, Maxine, Oren e Luther Waters, meglio conosciuti come Waters Family): l’aggettivo “acoustic” del titolo non vuol dire però che il suono sia spoglio, anzi ci sono anche fiati, archi e corni, ma arrangiati con grande gusto e dosati con misura, in modo da mettere al centro la formidabile voce del nostro, che dopo una carriera cinquantennale ha ancora la forza di emozionare. Basti sentire l’opening track O Holy Night: pochi accordi di chitarra acustica, qualche nota di piano, e la voce superba di Neil, davvero da brividi e per nulla scalfita dall’età (poi entra anche la sezione ritmica, ma sempre con grande discrezione). Sentite poi Do You Hear What I Hear, la profondità della voce, l’intensità dell’interpretazione (se non vi viene qualche brivido io al posto vostro mi preoccuperei), oppure il modo con cui sillaba le parole dell’arcinota Silent Night, quasi non vi accorgerete di averla già sentita un miliardo di volte in altre versioni.

I brani, come ho già detto, sono quasi tutti tradizionali, ma c’è spazio anche per due novità: la pianistica, e splendida, Christmas Prayers, una ballata dalla melodia toccante, arrangiata in maniera perfetta, che avrebbe tutte le caratteristiche per diventare un altro standard stagionale, e la più scanzonata # 1 Record For Christmas. Altri brani degni di nota sono una essenziale Hark The Herald Angels Sing, eseguita con classe sopraffina e con Neil che valorizza al meglio il bellissimo motivo, una We Three Kings Of Orient Are ricca di pathos (e che voce), una strepitosa (ma strepitosa davvero) Go Tell It On The Mountain, pura e cristallina e con il magnifico coro gospel dei Blind Boys Of Alabama, che partecipano anche alla mossa Children Go Where I Send Thee, che dona ritmo al disco (e sembra che Diamond abbia cantato gospel per tutta la vita), o la formidabile Christmas In Killarney, un saltellante pezzo dal chiaro sapore irish, suonato e cantato come al solito magistralmente. Chiude il CD un vivace medley tra Almost Day, una godibile e limpida filastrocca, Make A Happy Song, anche questa frutto della penna di Neil, e l’arcinota We Wish You A Merry Christmas, perfetta per chiudere un grande disco, che va oltre lo spirito del Natale.

Marco Verdi

Ma Sbagliare Un Disco Ogni Tanto No? Willie Nelson – Summertime

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Willie Nelson – Summertime: Willie Nelson Sings Gershwin – Sony Legacy CD

A pochi mesi di distanza dall’eccellente disco in duo con Merle Haggard (Django & Jimmie) http://discoclub.myblog.it/2015/07/07/due-vispi-giovanotti-willie-nelson-merle-haggard-django-and-jimmie/  torna il grande Willie Nelson, 83 anni fra poco più di un mese e nessuna voglia di rallentare il ritmo (e la qualità) delle pubblicazioni. Nella sua ormai quasi sessantennale carriera, Willie ha inciso diversi album composti da evergreen della musica americana: proprio un suo LP di standard (Stardust, 1978) fu un enorme successo, ed ancora oggi è uno dei suoi lavori più venduti, e da allora periodicamente il nostro ne ha pubblicati altri, tutti molto belli anche se con risultati commerciali inferiori (qualche titolo sparso: Somewhere Over The Rainbow, What A Wonderful World, Moonlight Becomes You, American Classic); inoltre, Nelson ha anche al suo attivo più di un disco interamente dedicato ai brani di un singolo artista (Lefty Frizell, Kris Kristofferson, Cindy Walker) e quindi, fondendo assieme le due cose, non è una sorpresa la decisione del barbuto texano di pubblicare un intero album di classici di George Gershwin, uno dei più grandi compositori del secolo scorso, che insieme al fratello Ira ha scritto un’incredibile serie di canzoni che sono poi diventate degli standard assoluti, quasi alla stregua di brani tradizionali, un songbook inarrivabile che è stato (ed è ancora) un punto di riferimento per molti artisti, ponendo le basi per la nascita della musica moderna: uno insomma per cui la parola “genio” non è assolutamente fuori luogo.

Summertime (sul titolo forse Willie poteva spremersi un po’ di più) è composto da undici pezzi, e vede il nostro accompagnato non da un’orchestra (ci poteva stare, ma è meglio così) ma da una super band, che vede, oltre ai fidi Mickey Raphael all’armonica e a Bobbie Nelson (sua sorella) al piano, lo straordinario pianista Matt Rollings (già con Lyle Lovett e Mark Knopfler, ed anche il produttore del CD insieme allo specialista Buddy Cannon), il chitarrista Dean Parks (presente su almeno, sparo, 1.200 album di gente che conta), il batterista Jay Bellerose (idem come per Parks, è anche il drummer preferito di T-Bone Burnett e Joe Henry), il leggendario steel guitarist Paul Franklin, oltre ai due bassisti David Piltch e Kevin Smith. Il disco è, manco a dirlo, bellissimo (come direbbe il Mollicone nazionale): innanzitutto ha un suono stellare (e qui la coppia Cannon-Rollings dice la sua) e poi è suonato in modo strepitoso dalla band presente in studio, con una miscela di sonorità jazzate (la base di partenza dello stile di Gershwin) e texane (Willie) che rende Summertime l’ennesima perla di una collana che sembra non avere fine. E, last but not least, c’è la voce del leader, che più passano gli anni e più fa venire la pelle d’oca: secondo me la sua ugola in America andrebbe dichiarata patrimonio nazionale, e non esagero.

But Not For Me apre il CD alla grande, uno slow caldo e jazzato che ricorda non poco lo stile dell’ultimo disco di Bob Dylan dedicato a Sinatra, con la voce di Willie ben centrale ed il gruppo che lo segue con sicurezza. Anche Somebody Loves Me è un esercizio di classe, con tempo swingato ed il piano di Rollings assoluto protagonista: grandissima musica; Someone To Watch Over Me è ancora lenta e raffinata, ma, grazie ad un feeling formato famiglia, non è solo un mero esempio di stile (e Willie fa sembrare canzoni che hanno più della sua età come se le avesse scritte lui il giorno prima). Let’s Call The Whole Things Off vede la presenza in duetto di Cyndy Lauper (che dopo il disco blues sta per pubblicarne a maggio uno country, Detour), e la strana coppia funziona, malgrado un testo non proprio da dolce stil novo ed un’atmosfera un po’ da cabaret (ma la band suona davvero alla grande) https://www.youtube.com/watch?v=tJq1NCCvICU .

It Ain’t Necessarily So è finora quella con il suono più texano, sembra davvero una (bella) western ballad tipica di Willie, mentre I Got Rhythm, che conoscono anche i sassi, viene proposta in una strepitosa versione western swing, una cover da manuale che dimostra come Nelson possa veramente far sua qualunque canzone. Love Is Here To Stay è ancora leggermente jazzata, con la batteria spazzolata e la steel che si insinua tra i solchi; splendida anche They All Laughed, ancora con il piano sugli scudi e l’ormai abituale mood country-jazz, e Willie che appare perfettamente rilassato ed a suo agio.

Anche Sheryl Crow di recente è rimasta folgorata sulla via del country, e qui presta la sua ugola a Embraceable You, altra ballad raffinatissima https://www.youtube.com/watch?v=8wwlW8h0wD8 : Sheryl è brava, ma in quanto a carisma Willie vince a mani basse; chiudono il disco, in tutto trentasei minuti praticamente perfetti, la fluida They Can’t Take That Away From Me, di nuovo con parti strumentali di grande godimento, e la superclassica Summertime, forse il brano più noto dei fratelli Gershwin, un pezzo che ha avuto decine di interpretazioni (alcune imperdibili, ad opera di gente del calibro di Billie Holiday, Ella Fitzgerald, Sam Cooke e Janis Joplin), ed anche Willie centra il bersaglio con una rilettura che mette il piano (splendido) in evidenza e con lui che tira fuori la solita voce da brividi.

Grandi canzoni, due produttori straordinari, una grande band e Willie Nelson con la sua chitarra: devo aggiungere altro?

Marco Verdi

Dopo Un Divorzio Si Cambiano Vita E Musica? Shawn Mullins – My Stupid Heart

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Shawn Mullins – My Stupid Heart – Sugar Hill / Rounder Records

Fra un divorzio e l’altro, Shawn Mullins (con una dozzina d’album all’attivo in studio) è ormai considerato un veterano della scena folk-rock cantautorale americana. Il buon Shawn era già un giovane e affermato musicista di Decatur, Georgia, quando nel lontano ’98 ha cominciato a raccogliere i frutti di una carriera comunque abbastanza lunga con l’album Soul’s Core, ma Mullins in precedenza aveva esordito con Better Days (92), quindi due anni dopo aveva pubblicato Big Blue Sky (94), poi due lavori incisi con Matthew Kahler Jeff’s Last Dance Vol. 1 e 2 (credo che a parte il sottoscritto siamo in pochi ad averli, e ormai siano introvabili), e nel ’96 ha visto la luce il successivo Eggheels. Dopo l’interlocutorio Beneath The Velvet Sun (00), anni di silenzio non compromettono la sua buona vena compositiva, a partire da 9th Ward Pickin Parlor (06), Honeydew (08), il primo disco dal vivo Live At The Variety Playhouse  dello stesso anno, fino all’ultimo lavoro in studio, l’ottimo Light You Up (10).

Prodotto dalla cantante country nativa della Florida Lari White, (impegnata anche alle armonie vocali con Shondra Bennett e Max Gomez) e registrato al The Holler di Nashville, My Stupid Heart vanta altri musicisti di valore come il marito della White, Chuck Cannon (cantautore e autore di alcuni brani scritti con Mullins) all’acustica e seconda voce, Dan Dugmore alla steel, Jerry McPherson alla chitarra elettrica, Gerry Hansen alla batteria e percussioni, Michael Rhodes al basso, Guthrie Trapp al mandolino e bouzouki, e i bravissimi Radoslav Lorkovic (Jimmy LaFave) alla fisarmonica e Fender Rhodes e Matt Rollings (Lyle Lovett) al pianoforte, e naturalmente lo stesso Shawn che suona diversi strumenti, il tutto per una raccolta di dieci canzoni, che toccano temi anche profondamente personali.

My Stupid Heart apre con la magia di una classica ballata alla Mullins, The Great Unknown, per poi passare alla recitativa It All Comes Down To Love, che potrebbe sembrare uscita dai solchi di Too Long In The Wasteland di James McMurtry https://www.youtube.com/watch?v=bTCq0MccLro , seguite dall’incantevole Ferguson che inizia lentamente per poi crescere nello sviluppo del brano https://www.youtube.com/watch?v=qr3MwKKjSpc , fatto che si ripete pure nella title track, anche questa  parte acustica con pochi accordi di chitarra, poi la voce di Shawn, gli strumenti e i cori danno spessore alla ballata, mentre Roll On By si avvale di un buon ritmo e della fisarmonica di Radoslav Lorkorvic. Il lavoro prosegue con Go And Fall una canzone di sofferenza, cantata con grande intensità, poi troviamo una magnifica love song come Gambler’s Heart (scritta con il cuore in mano) evidenziata dal piano di Matt Rollings, e ancora la pianistica Never Gonna Let Her Go (un brano alla Robbie Robertson e Band, magari cantato da Levon Helm) https://www.youtube.com/watch?v=ZjK6TdtceNs , una delicata e melodica Sunshine, e a chiudere  il moderno blues di Pre-Apocalyptic Blues, dove si rincorrono il trombone di Roy Agee, la fisarmonica di Lorkovic, e il superbo pianoforte di Rollings.

Con questo My Stupid Heart, la carriera artistica di Shawn Mullins sembra segnare un ulteriore livello di crescita, musicale e narrativa, con canzoni che si dividono tra americana, rock, folk e blues, cantate da una voce che rimane pur sempre una delle più belle e intense del panorama musicale americano. Non so come sia messo attualmente con i “rapporti sentimentali” il buon Shawn, ma se dopo ogni divorzio ci ritroviamo un Mullins più maturo e ispirato, e pienamente consapevole del suo potenziale, forse, ma dico forse, è augurabile tra qualche anno saperlo nuovamente divorziato!

Tino Montanari

Dal Rock Alla Microsoft E Ritorno, Con Calma! Paul Allen And The Underthinkers – Everywhere At Once

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Paul Allen and The Underthinkers – Everywhere At Once – Sony Legacy

Paul Allen è, nell’ordine, co-fondatore della Microsoft, multimiliardario, filantropo e musicista rock, chitarrista per la precisione; ma nella sua testa immagino che l’ordine sia invertito o così probabilmente pensava alla fine degli anni ’60, dopo avere visto uno dei concerti del suo concittadino, anche lui di Seattle, (e idolo) Jimi Hendrix. A questo punto si sarà detto, la chitarra elettrica l’hanno già inventata, come quel mancino dubito di potere mai suonare, meglio che faccia altro. E direi che l’ha fatto benino, ma la storia la conoscono tutti. Però la “passionaccia” per la musica evidentemente non l’ha mai persa e dopo tanti anni, nel tempo libero, ha deciso di rendere concreto il suo contributo alle sette note tramite un disco della sua band, gli Underthinkers, un gruppo di amici con cui si esibisce dal vivo per diletto.

Ma immagino anche che si sarà detto: “hey sono Paul Allen, fatemi controllare la mia agendina!” (elettronica). Dunque vediamo, i miei amici Santana, Buddy Guy, Robbie Robertson e Ron Wood non possono, aspetta che chiamo la Sony e vediamo se gli interessa un mio disco? Sissignore, è la risposta. I soldi non mi servono, facciamo che sia un disco i cui ricavati andranno in beneficenza. E questo mi sembra etico (parla il vostro recensore). Torna Paul: ho un po’ di brani scritti con John Bohlinger, il secondo chitarrista della band, Doug Barnett, il bassista, che non suona nel disco e li faccio cantare a Tim Pike, il nostro cantante, che ha anche una bella voce. E magari chiamo qualche amico a suonare e cantare. Riprendo l’agendina e mi do da fare. Direi che a parte la Q, negli oltre 40 musicisti che suonano nel disco, è rappresentato tutto l’alfabeto della musica rock, soul, blues e funky americana.

Il disco parte benissimo e in quella che una volta sarebbe stata la prima facciata si ascolta dell’ottimo rock misto a blues, poi si vira verso un sound vagamente neo-soul e più morbido e parti chitarristiche a parte, l’album si regge sulla grande professionalità e classe dei musicisti che suonano nel CD: per esempio Wendy Moten, viene dalla città giusta, Memphis, ha una bella voce, ma anni di collaborazioni con Michael Bolton e altri “luminari” non le hanno fatto bene e a parte il duetto con Ivan Neville, Restless, dove il pianino New Orleans di Jon Cleary conferisce verve al brano, alcuni brani, quelli “neri”, hanno quel che di blando della produzione ultima di Stevie Wonder, tanto per non fare un esempio. E anche il soul “sinfonico” con archi di Divine, cantato da Amy Keys, ha degli echi delle vecchie produzioni di Isaac Hayes. A proposito di produttori, la maggior parte del lavoro ricade su Doyle Bramhall, ottimo alla chitarra anche in tutto il disco, meno come cantante in Cherries Fall, che però ha un bel tiro hendrix-vaughaniano nel lavoro delle chitarre di Paul Allen (bravo in tutto il disco, non è solo quello che mette i soldi), Bramhall e David Hidalgo dei Los Lobos che appaiono in parecchi brani. Bene anche la sezione ritmica di Matt Chamberlain e Tommy Sims, anche se quella con Jimmy Haslip e Gary Novak, più Michael Landau alla chitarra, praticamente i Renegade Creation senza Robben Ford, mi sembra migliore. Però a parziale smentita di quello che ho appena detto (mi contraddico da solo), Healing Hands è una bellissima ballata soul à la Aretha Franklin, cantata dalla Moten, con Neville all’organo, Matt Rollings al piano e le chitarre di Allen, Bramhall, Hidalgo a cui si aggiunge Derek Trucks.

L’unico blues presente nell’album, Big Blue Raindrops è cantato ottimamente da Pike e le chitarre dei vari ospiti hanno l’occasione di brillare, per l’occasione si aggiunge anche Greg Leisz alle steel (ah quell’agendina!) che già aveva lavorato da par suo nella vagamente country Rodeo, una primizia per Chrissie Hynde che la interpreta veramente bene. Chi manca? Le sorelle Ann & Nancy Wilson, ossia le Heart, in un bel brano rock, l’iniziale Straw Into Gold ritagliato perfettamente per loro, e quindi per proprietà transitiva sui Led Zeppelin. Di nuovo Ivan Neville e Derek Trucks nei ritmi funky New Orleans di Inside Out. Un altro vigoroso pezzo rock come la lunga Pictures Of A Dream, dove tutti i chitarristi si caricano a palla, soprattutto nella jam strumentale in coda dove anche Chamberlain alla batteria è devastante. E ottimo, sempre a livello rock, il pezzo cantato (e suonato) alla grande  da Joe Walsh, Six Strings From Hell, un titolo, un programma, con un organo alla Deep Purple che apre le operazioni. Tutto sommato un bel dischetto, meglio di quello che si poteva pensare e con un sound gagliardo. Si può fare!

Bruno Conti