Bella Voce Country Old School! Mandy Barnett – A Nashville Songbook

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Mandy Barnett – A Nashville Songbook – Melody Place/BMG Rights Management

La nostra amica non è una novellina: infatti il primo disco di Mandy Barnett risale al 1994, poi ne ha pubblicati altri, spesso entrati nelle classifiche country, ma senza mai avere grande successo a livello nazionale. Tanto che ha diversificato la sua carriera, entrando anche nell’ambito dei musical e degli show dal vivo alla Grand Ole Opry, nonché puree una carriera come attrice, pur continuando a pubblicare album, l’ultimo nel 2018, a livello indipendente, mentre nei primi anni di carriera uscivano per le grandi majors. Questo nuovo A Nashville Songbook, e il titolo già dice tutto, è una via di mezzo, in quanto il disco esce a livello autogestito per la Melody Place, con distribuzione BMG del gruppo Warner: quindi una pubblicazione che, prendendo spunto dallo spettacolo con lo stesso nome, è incentrata su una serie di brani scelti nel repertorio del country classico, non quello bieco e commerciale, stretto parente del pop dozzinale, che ammorba molte delle attuali produzioni, ma che attinge da autori celebri, in qualche caso anche celeberrimi, della country music, e non solo.

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Quindi troviamo canzoni di Roy Orbison, Kris Kristofferson, Boudleaux Bryant, Chips Moman, Harlan Howard, Hank Williams, Eddie Rabbitt, c’è perfino una versione di It’s Now Or Never, la nostra classica O’ Sole Mio, che tutti conosciamo nella interpretazione di Elvis Presley. A tenere le fila del progetto c’è Fred Mollin, uno dei grandi produttori di Nashville sin dalla fine anni ‘60, primi ‘70, di recente dietro la console per il recente album di Rumer Nashville Tears https://discoclub.myblog.it/2020/08/24/cambia-il-genere-ma-non-la-voce-sempre-calda-e-vellutata-rumer-nashville-tears/ , e anche se la Barnett non ha una voce vellutata e deliziosa come la cantante anglo-pakistana, si difende comunque bene, con il suo timbro squillante. Il sound è classico, senza scadere nello scontato, e tra i molti musicisti impiegati si distinguono Bryan Sutton, alle chitarre acustiche e mandolino, Eddie Bayers alla batteria, Larry Paxton al basso, Scotty Sanders alla pedal steel, l’ottimo Stuart Duncan al violino, e lo stesso Mollin a synth e chitarre, mentre una sezione archi e fiati cerca di non appesantire più di tanto gli arrangiamenti, con un risultato che profuma di country old style di buona qualità.

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I Love A Rainy Night, la traccia di apertura a firma Eddie Rabbitt è uno dei brani recenti, un pezzo pimpante a cavallo tra country e gospel pop , tipo la prima Shania Twain quando non si era ancora lanciata nella “dance”  , mentre It’s Over è uno dei super classici di Roy Orbison, e qui bisogna ammettere che, per quanto gli arrangiamenti cerchino di aiutare, la Barnett non ha una voce, sia pure dalla buona estensione, che comunque possa competere con quella del “Big O”, anzi la canzone è sin troppo carica, molto meglio Help Me Make It Through The Night di Kristofferson, con un arrangiamento che, senza rinunciare agli archi, risulta più intimo e contenuto https://www.youtube.com/watch?v=RtncXk8sg9c . A Fool Such As I faceva parte delle classiche ballate country di Elvis, e tra pedal steel e violini sfarfallanti è molto godibile https://www.youtube.com/watch?v=frQTg2gATMg , come pure la celebre End Of The World di Skeeter Davis, dove la voce cristallina ed espressiva di Mandy è decisamente più a suo agio https://www.youtube.com/watch?v=zdNc4eyaFpo , mentre It’s Now Or Never mi lascia sempre quel retrogusto pacchiano e anche The Crying Game mi sembra più adatta al repertorio di Celine Dion. Nell’ambito delle canzoni più riuscite, inserirei una intensa Love Hurts, la briosa e scintillante Heartaches By The Number di Harlan Howard, uno degli standard assoluti del country, che hanno cantato decine di artisti, e la versione della Barnett, di nuovo con violino e pedal steel sugli scudi, è molto godibile  , come pure la rilettura solo voce e piano di I Cant’Help It (If I’m Still In Love With You di Hank Williams https://www.youtube.com/watch?v=y3tF_HTVjeI , a chiudere un album onesto e di buona fattura, per amanti del country vecchia scuola.

Bruno Conti

Un Godurioso Omaggio Alla Vera Country Music! Josh Turner – Country State Of Mind

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Josh Turner – Country State Of Mind – MCA Nashville/Universal CD

Josh Turner, musicista originario della Carolina del Sud, è un countryman atipico: infatti, pur vivendo ed incidendo a Nashville ed avendo ottenuto un grande successo con i suoi sette album pubblicati tra l 2003 ed il 2018 (tutti piazzatisi tra la prima e la terza posizione), non ha mai smesso di fare musica di qualità. A molti suoi colleghi l’aria di alta classifica fa girare la testa, ma Josh è uno bravo, coi piedi per terra, e pur non disdegnando un suono adatto alla programmazione radiofonica non ha mai esagerato e ha sempre proposto canzoni suonate con strumenti veri. Nonostante l’età ancora giovane quindi Turner ha poco da dimostrare, e dunque quest’anno ha deciso di fare un disco che, ne sono sicuro, pianificava già da qualche tempo, cioè un album di cover che omaggiasse gli artisti che lo hanno influenzato, alternando brani più o meno popolari ed in più di un caso ospitando lo stesso autore del pezzo.

Country State Of Mind è il risultato di questa idea, e si rivela un lavoro davvero strepitoso fin dal primo ascolto: le canzoni belle come ho detto ci sono già, ma Josh le interpreta con notevole grinta e senso del ritmo, mettendo in primo piano le chitarre e la sua splendida voce baritonale, coadiuvato dalla produzione impeccabile di Kenny Greenberg e con la partecipazione in session di autentici luminari di Nashville come lo stesso Greenberg alle chitarre, Glenn Worf al basso, Chad Cromwell alla batteria e Dan Dugmore alla steel. Più gli ospiti che partecipano vocalmente (non in tutti i brani, non è un vero e proprio album di duetti), i quali danno il tocco in più ad un disco che in ogni caso si sarebbe retto sulle proprie gambe anche senza di loro. Il CD parte ottimamente con I’m No Stranger To The Rain, una bella western ballad (dal repertorio di Keith Whitley) che qui viene rivestita da un bell’intreccio di chitarre e da un suono forte di stampo rock, il tutto completato ad hoc dalla voce profonda di Josh, country al 100%. John Anderson quest’anno è tornato in gran forma con il bellissimo Years, e qui porta in dote la sua I’ve Got It Made, un irresistibile rockin’ country tuto ritmo e chitarre, che la voce vissuta di John impreziosisce ulteriormente. A proposito di voci vissute, che ne dite di Kris Kristofferson?

Il grande texano è infatti il prossimo ospite in Why Me, uno dei suoi brani più popolari e canzone già splendida di suo che viene ancor di più abbellita dal duetto tra i due protagonisti: Josh è bravo, ma quando Kris si avvicina al microfono è tutta un’altra storia. Chris Janson unisce le forze con Turner nella sanguigna title track (di Hank Willims Jr.), un honky-tonk elettrico, vibrante e decisamente coinvolgente; I Can Tell By The Way You Dance è un pezzo del 1984 di Vern Gosdin che Josh, qui da solo (anche perché Gosdin è morto), rilegge in maniera pimpante e ricca di ritmo, con il solito approccio rock che è un po’ la costante di questo disco: gli assoli chitarristici sono ottimi e la melodia vincente. Alone And Forsaken è una nota canzone di Hank Williams (Senior), qui arrangiata come una scintillante ed evocativa western ballad ed ulteriormente nobilitata dalla seconda voce della brava Allison Moorer, mentre Forever And Ever, Amen è uno dei classici di Randy Travis, che ovviamente compare in prima persona a prestare l’ugola: bella canzone, dal ritmo spedito e country fino all’osso. Alan Jackson si può ormai considerare sia un contemporaneo che un veterano, e Josh esegue senza ospiti la sua Midnight in Montgomery, un’intensa ballata ancora dal sapore western, ripresa con un feeling notevole e non inferiore all’originale.

Good Ol’ Boys era il tema del telefilm The Dukes Of Hazzard ma anche uno dei brani più famosi di Waylon Jennings, e Turner la rifà con grande rispetto per l’originale ma anche con un notevole senso del ritmo, aumentando la componente rock’n’roll e regalandoci una cover trascinante, tra le più riuscite del CD, mentre You Don’t Seem To Miss Me, scritta da Jim Lauderdale, era in origine un duetto tra Patty Loveless e George Jones, ed è una tersa e molto piacevole ballata di stampo classico eseguita con il trio vocale delle Runaway June. Chiusura con Desperately, un midtempo dal motivo diretto e toccante al tempo stesso (incisa prima dal suo autore Bruce Robison e poi da George Strait) proposto con l’aiuto del duo al femminile Maddie & Tae, e con The Caretaker, uno dei pezzi più antichi e meno conosciuti di Johnny Cash, altra splendida rilettura questa volta per sola voce (e che voce) e chitarra, ed un mood da vero cowboy. Non esagero: Country State Of Mind è tra i migliori country album del 2020.

Marco Verdi

Molto Più Che Un Semplice Disco Country! Jack Ingram – Ridin’ High…Again

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Jack Ingram – Ridin’ High…Again – Beat Up Ford CD

Jack Ingram, countryman texano in giro dalla metà degli anni novanta, dal punto di vista musicale è sempre stato dalla parte giusta, ed anche il suo ultimo album risalente a tre anni fa, Midnight Motel, era decisamente sopra la media https://discoclub.myblog.it/2016/09/18/gradito-ritorno-jack-ingram-midnight-motel/ . Ma un conto è pubblicare ottimi album di country-rock, cosa che fanno ancora fortunatamente in molti, un conto è produrre dei capolavori: e Ridin’ High…Again, nuovissimo lavoro di Jack, è senza mezzi termini un capolavoro. Ingram al decimo full-length in studio ha voluto omaggiare il Texas ed i suoi cantautori storici, ma nello stesso tempo offrire anche qualcosa di nuovo: così Ridin’ High…Again (fin dal titolo un tributo a Jerry Jeff Walker, dato che Ridin’ High è uno dei suoi lavori più popolari) presenta tredici brani divisi tra cover e pezzi originali, ma non è il solito, seppur bello, disco country. Qui infatti Jack è ispirato come mai è successo prima, ha scritto canzoni di qualità eccelsa e le ha accoppiate con cover semplicemente strepitose, creando un’opera di livello superiore, inusuale anche nella durata di un’ora e diciassette minuti (di solito questi album durano la metà).

Eppure il disco fila via alla grande, ed alla fine ci si rammarica quasi per il fatto che non sia doppio: una serie di canzoni dunque magnifiche, suonate in maniera sontuosa da un manipolo di musicisti formidabili (tra i quali segnalerei Charlie Sexton, Chris Masterson e John Randall Stewart, che è anche il produttore, alle chitarre, Eleanor Whitmore al violino, lo straordinario pianoforte di Jimmy Wallace, tra i protagonisti del suono del CD, e le armonie vocali di Josh Abbott, Wade Bowen e Waylon Payne). La caratteristica del disco, oltre ad avere all’interno brani eccellenti, è che in molti casi troviamo lunghe code strumentali, vere jam country-rock che portano l’album a coprire quasi interamente il minutaggio a disposizione, e l’impressione è che sia stato proprio Ingram a volere questo e a dire ai vari musicisti di non fermarsi e di suonare in piena libertà. Non esagero, ma se Ridin High…Again fosse uscito negli anni settanta oggi non dico che lo metteremmo sullo stesso piano di lavori come Old No. 1, Red Headed Stranger e Lubbock (On Everything) (rispettivamente Guy Clark, Willie Nelson e Terry Allen, anche se non dovrei dirvelo), ma di sicuro non molto al di sotto.

Alright Alright Alright, scritta da Jack insieme a Todd Snider, fa capire subito di che pasta è fatto il disco, un rockin’ country elettrico e potente, ma nel contempo molto orecchiabile: Ingram canta con voce arrochita, la sezione ritmica pesta di brutto ed il pianoforte saltella che è una bellezza. Don’t It Make You Wanna Dance è il pezzo più noto di Rusty Wier (ma è stata anche una hit per Jerry Jeff Walker), ed è una limpida e vivace rock’n’roll song dal tocco country, texana al 100%, bella, coinvolgente e con parti chitarristiche “ruspanti”; Stay Outta Jail è più lenta e rilassata, quasi indolente, con Jack che un po’ canta un po’ parla e sullo sfondo si fa largo una bella chitarra slide (la quale ad un certo punto diventa assoluta protagonista insieme al piano elettrico), un suono più southern che texano. Desperados Waiting For A Train non ha bisogno di presentazioni, è forse il più grande brano di Guy Clark ed una delle più belle canzoni dei seventies, e questa rilettura del nostro è strepitosa, toccante, sentita: parte con pochi strumenti e si arricchisce man mano che prosegue per un crescendo emozionante: versione superiore anche a quella recente di Steve Earle; Where There’s A Willie è dedicata a Willie Nelson (ed anche a Waylon), inizia con una chitarra suonata nello stile del barbuto artista texano per poi trasformarsi in uno splendido honky-tonk dalla melodia deliziosa, grande pianoforte ed ottimo intervento di steel, in pratica un’altra goduria per le orecchie. Proprio di Nelson è la seguente Gotta Get Drunk, un brano poco noto risalente al 1970, un pezzo di puro Texas country elettrico, intenso e suonato al solito in maniera strepitosa, con un plauso particolare agli assoli di violino ed allo spettacolare piano di Wallace: dura ben otto minuti, ma alla fine ne vorrei ancora di più.

Tin Man è un brano che Jack ha scritto con Miranda Lambert, una ballata suonata con tre strumenti in croce, chitarra, batteria ed un bellissimo dobro che prende il sopravvento nel consueto eccellente intermezzo strumentale, mentre Down The Road Tonight, di Hayes Carll, è un rock’n’roll travolgente, elettrico e dal ritmo alto, in poche parole irresistibile. Never Ending Song Of Love è proprio il classico di Delaney & Bonnie (l’ha fatta anche John Fogerty qualche anno fa), con Jack che mantiene intatta la squisita melodia ma la riveste con un suono robusto e dominato dalle chitarre, in pieno stile Outlaw Country, e l’esito è pienamente riuscito, mentre con Sailor & The Sea il nostro si concede un momento di riposo, con una ballata notturna fluida ed intensa, dal pathos enorme ed accompagnamento in punta di dita che valorizza appieno il motivo centrale: ben dieci minuti, ma splendidi. L’ultimo brano originale, la solare ed accattivante Everybody Wants To Be Somebody, scritta ancora con Snider (e sicuramente con lo stile scanzonato di Jerry Jeff Walker in mente), precede le due cover che chiudono il CD: la rarefatta Shooting Stars di Keith Gattis, altro slow da pelle d’oca suonato e cantato con la solita maestria ed intensità, e la nota Jesus Was A Capricorn di Kris Kristofferson, rifatta con grande rispetto del’’originale (quindi benissimo).

Ho sempre apprezzato il lavoro di Jack Ingram, ma questa sua ultima fatica mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta: tra i dischi del 2019, e non solo country.

Marco Verdi

Un Bell’Esempio Di Follia (Musicale) Con Metodo. The Texas Gentlemen – TX Jelly

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The Texas Gentlemen – TX Jelly – New West CD

Storia particolare quella dei Texas Gentlemen. Gruppo composto da texani doc, formato qualche anno fa da Beau Bedford, che ha chiamato intorno a sé giovani ma bravi musicisti di sua conoscenza (Nik Lee, Daniel Creamer, Matt McDonald e Ryan Ake) con l’intento di formare una backing band per artisti più famosi di loro, come per esempio Leon Bridges e Nikki Lane. La svolta è avvenuta lo scorso anno, quando il grande Kris Kristofferson (uno che il talento lo sa riconoscere) li ha voluti come gruppo di accompagnamento per il suo ritorno al Festival di Newport 45 anni dopo la sua ultima apparizione. La cosa ha funzionato talmente bene che Kris ha chiesto loro di seguirlo per altre date, cosa che ha certamente donato ai ragazzi un’esposizione che prima non si sognavano neppure; il passo successivo è stato incidere il loro primo disco, e per farlo hanno varcato i confini texani, andando nei leggendari FAME Studios di Muscle Shoals, in Alabama, dove hanno fatto tutto in soli quattro giorni. Ed il risultato, TX Jelly, è un disco stimolante, creativo, inatteso: i cinque non sono il solito gruppo country-rock del Lone Star State, ma sono influenzati dalle mitiche backing bands della storia americana, come la Wrecking Crew di Los Angeles, o gli stessi Muscle Shoals Swampers, o ancora Booker T. & The MG’s.

Infatti nelle loro canzoni trovano spazio una miriade di generi, che vanno dal rock al country, dal funky al blues, dal southern al soul e perfino lounge music, il tutto mescolato in maniera molto creativa e per nulla confusionaria. TX Jelly è quindi un lavoro decisamente piacevole ed originale, dato che non sai mai cosa aspettarti nella canzone seguente, ed i ragazzi suonano con ottima tecnica ma anche con quel pizzico di lucida follia che non guasta (basta guardare alcuni dei loro video che si trovano in rete per notare che sono un po’ fuori di testa). Il CD inizia in modo insolito, cioè con lo strumentale Habbie Doobie, una canzone che in realtà è una jam chitarristica tra rock e funk, con un riff ripetuto e brevi ma ficcanti assoli della solista di Ake, brano forse ripetitivo ma intrigante. Pain sembra un country rock di matrice southern degli anni settanta, un boogie orecchiabile e trascinante, con gran lavoro di piano e chitarra, che quando viene chiamata in causa sa come dire la sua: ci sono anche tracce pop del migliore Elton John, quello di Tumbleweed Connection; Bondurant Women è ancora puro rock di matrice seventies, decisamente evocativo, con una melodia diretta e suono classico, basato su organo e chitarra. Dream Along è una country song languida, strascicata, quasi sonnolenta, come se Willie Nelson si fosse appena svegliato dopo una notte di bagordi, bizzarra ma non priva di fascino.

Gone (scritta insieme a Paul Cauthen così come la seguente, e Paul è anche presente come voce aggiunta) è al contrario un pimpante e ritmato country-rock alla Waylon, ma con le chitarre che suonano come quelle di un gruppo sudista, mentre My Way inizia proprio come un country fatto alla maniera di Elvis, con coro alle spalle che ricorda i Jordanaires, poi diventa all’improvviso un rock’n’roll scatenato, per poi tornare all’atmosfera languida iniziale: creatività e follia a braccetto. Con Superstition si cambia completamente registro, in quanto ci troviamo di fronte ad un pop-jazz afterhours di quelli raffinati modello lounge, da mettere per una serata galante e con tanto di sax “da struscio”, mentre TX Jelly è un altro strumentale che sa più di improvvisazione in studio, quasi una backing track per batteria e poco altro, unico episodio direi un po’ fine a sé stesso. Pretty Flowers è di nuovo un country d’altri tempi, un honky-tonk che sembra uscito da un album di fine anni sessanta di George Jones, che precede la lunga (otto minuti) Shakin’ All Over, vecchio brano di Johnny Kidd & The Pirates (ma ala facevano anche gli Who, soprattutto dal vivo), che qui viene suonata in perfetto stile surf e con un cantato in giusta sintonia, sembra una cover di qualche oscuro gruppo beat, altro che Texas: la chitarra si produce in un lungo e strepitoso assolo dai toni addirittura psichedelici https://www.youtube.com/watch?v=fYMMk6jvUt8 , creatività davvero a mille, immagino cosa possano diventare dal vivo. Il finale è tranquillo con Trading Paint, con la quale si rimane sempre negli anni cinquanta-sessanta, ma il pezzo è un folk acustico con un coro che fa tanto Monti Appalachi.

I Texas Gentlemen sono un gruppo da tenere d’occhio, hanno tecnica ma anche inventiva: d’altronde se uno come Kris Kristofferson li ha voluti con lui qualcosa vorrà pur dire.

Marco Verdi

Doppio Omaggio Ad Uno Dei Più Grandi Songwriters! Parte 2: Il Concerto-Tributo. Various Artists – The Life And Songs Of Kris Kristofferson

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Various Artists – The Life And Songs Of Kris Kristofferson – Blackbird CD – 2CD/DVD

Ecco la seconda parte del mio personale omaggio al grande Kris Kristofferson, dopo il post dedicato alla serata al Bottom Line del 1994 con Lou Reed: quello di cui parlo oggi è un vero e proprio tributo, un concerto tenutosi alla Bridgestone Arena di Nashville nel Marzo del 2016, durante il quale una nutrita serie di artisti perlopiù country ha omaggiato la figura del cantautore texano (ed i suoi 80 anni) attraverso alcune tra le sue più belle canzoni, un omaggio ad alto livello sia per la qualità dei brani (ovviamente), che per le varie performance. E’ dunque da poco uscito un resoconto della serata, The Life And Songs Of Kris Kristofferson, sia su singolo CD che su doppio dischetto con DVD aggiunto: la mia recensione si basa sul supporto singolo, che propone 14 dei 21 brani totali (lo show completo è sul doppio): mi piacerebbe poter dire che è stata una mia scelta, ma in realtà sono rimasto in un certo senso “fregato” dal fatto che non fosse chiarissimo che la parte senza il DVD fosse su un solo CD e con il concerto incompleto: per fortuna che le performance che fanno la differenza ci sono tutte, anche se tra le assenze ci sono l’apertura della serata a cura di Buddy Miller, l’apparizione di Jessi Colter ed il duetto tra Emmylou Harris e Rodney Crowell.

Tracklist
[CD1]
1. Please Don’t Tell Me How The Story Ends – Buddy Miller
2. Kristofferson – Jessi Alexander, Jon Randall & Larry Gatlin
3. Here Comes That Rainbow Again – Martina McBride
4. The Taker – Ryan Bingham
5. The Captive – Jessi Colter
6. Nobody Wins – Lee Ann Womack
7. Jesus Was A Capricorn (Owed To John Prine) – Jack Ingram
8. Worth Fighting For – Jennifer Nettles
9. Loving Her Was Easier (Than Anything I’ll Ever Do Again) – Rosanne Cash
10. Chase The Feeling – Emmylou Harris & Rodney Crowell
11. The Pilgrim, Chapter 33 – Emmylou Harris & Kris Kristofferson

[CD2]
1. From The Bottle To The Bottom – Dierks Bentley & The Travelin’ McCourys
2. Help Me Make It Through The Night – Lady Antebellum
3. Under The Gun – Darius Rucker
4. For The Good Times – Jamey Johnson & Alison Krauss
5. Casey’s Last Ride – Alison Krauss
6. If You Don’t Like Hank Williams – Hank Williams Jr.
7. To Beat The Devil – Eric Church
8. Me And Bobby McGee – Reba McEntire
9. Sunday Mornin’ Comin’ Down – Willie Nelson & Kris Kristofferson
10. Encore: Why Me – Kris Kristofferson & Full Ensemble

Ma anche questa versione “monca” ha il suo perché, dato che i vari interpreti sono tutti in forma e rispettosi della figura di Kris, e poi le canzoni sono già strepitose di loro, e quindi non ci vuole molto di più per fare un gran bel disco. La house band è quella che ultimamente viene usata spesso per questo genere di tributi: il già citato Buddy Miller alla chitarra (doppiato da Audley Freed), Fred Eltringham alla batteria, Matt Rollings al piano e fisarmonica, Mickey Raphael all’armonica, Greg Leisz alla steel e mandolino e Don Was al basso e direzione musicale, oltre alle McCrary Sisters ai cori. Una band da sogno che si fa sentire subito con una solida Here Comes That Rainbow Again, cantata in maniera emozionante dalla brava Martina McBride e suonata alla grande (con Rollings in grande evidenza), e poi la canzone è splendida. Ryan Bingham non lo scopriamo certo oggi, e la sua The Taker è giusto a metà tra country e rock, in puro stile outlaw: voce roca, ritmo spedito e chitarre in palla; Jennifer Nettles non è forse famosissima, ma ha una gran voce, molto soulful e quasi nera (mentre lei è in realtà biondissima), e Worth Fighting For le si adatta alla perfezione, con le tre McCrary che “controcantano” alla loro maniera, con un leggero tocco gospel. Loving Her Was Easier è tra le canzoni più belle del songbook di Kris, e sono contento che l’abbia presa Rosanne Cash, sempre più brava ogni anno che passa: versione toccante, fluida, in una parola bellissima (e poi mi piace questa cosa che gli americani non cambiano le parole delle canzoni dal maschile al femminile e viceversa a seconda se a cantarla è un uomo o una donna).

Kristofferson sale sul palco una prima volta insieme ad Emmylou Harris, un duetto favoloso con la splendida The Pilgrim: Chapter 33, una delle mie preferite in assoluto (pare ispirata dalla figura di Bob Dylan), con Kris che sprizza carisma appena apre bocca, mentre Dierks Bentley ha la sfortuna di arrivare dopo il padrone di casa, ma se la cava molto bene con una vibrante From The Bottle To The Bottom, che i Travelin’ McCourys colorano di bluegrass. Quando ho visto che la mitica Help Me Make It Through The Night era stata affidata ai Lady Antebellum, tragico gruppo di pop travestito da country, ho avuto un brivido di paura, ma per la serata i tre fanno le persone serie e ripropongono il classico brano in maniera languida e romantica, anche se avrei comunque preferito una interpretazione più energica da parte di chiunque altro, mentre l’ex frontman degli Hootie & The Blowfish, Darius Rucker (da tempo reinventatosi come artista country), rilascia una tonica e roccata Under The Gun, che Kris aveva scritto con Guy Clark, prima di cedere il palco alla strana coppia Alison Krauss/Jamey Johnson, gentilezza e rudezza in un colpo solo, che però si intendono alla grande con la suadente For The Good Times, riproposta con classe e più nei territori della bionda Alison che in quelli del barbuto Jamey.

Hank Williams Jr. è un altro che quando vuole sa il fatto suo, e stasera è nel suo ambiente naturale con la ruvida e coinvolgente If You Don’t Like Hank Williams, da anni nel suo repertorio; Eric Church è ormai un prezzemolo in questo genere di tributi, ma la sua To Beat The Devil è ben fatta e non priva di feeling. Per Reba McEntire vale il discorso fatto per gli Antebellum, io non l’avrei invitata (troppo annacquata di solito la sua proposta musicale), ma lei non è certo una stupida e ha dalla sua una certa esperienza: la leggendaria Me And Bobby McGee, forse la canzone simbolo di Kris, ne esce dunque alla grandissima, probabilmente una delle migliori dello show, con un arrangiamento addirittura rock’n’roll (e Reba ha comunque una gran voce). E’ l’ora del gran finale, con Kris che ritorna stavolta insieme a Willie Nelson, un duetto tra due leggende sulle note della mitica Sunday Morning Coming Down (peccato non abbiano fatto anche Highwayman, magari con Hank Jr. e Johnson al posto di Johnny Cash e Waylon Jennings), e poi tutti insieme sul palco con la magnifica Why Me, con il “festeggiato” che ha una presenza vocale ancora notevole nonostante l’età.

Un tributo da avere quindi (magari nella versione con DVD), ed ennesimo gran bel disco dal vivo di questo ricco 2016.

Marco Verdi

Doppio Omaggio Ad Uno Dei Più Grandi Songwriters! Parte 1: Una Serata A New York (Con Lou Reed). Kris Kristofferson & Lou Reed – The Bottom Line Archive: In Their Own Words With Vin Scelsa

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Kris Kristofferson & Lou Reed – The Bottom Line Archive: In Their Own Words With Vin Scelsa – BFD/RED 2CD

Non è mai fuori luogo parlare di Kris Kristofferson, uno dei maggiori cantautori di sempre, e quindi vorrei farlo approfittando di due uscite recenti che lo riguardano: oggi è la volta di un doppio dal vivo molto particolare, mentre in un post separato tratterò del bellissimo concerto-tributo a lui dedicato tenutosi lo scorso anno a Nashville. Come probabilmente saprete, il Bottom Line è stato uno dei più leggendari teatri da concerto degli Stati Uniti: aperto nel 1974 nel cuore del Greenwich Village a New York e (purtroppo) chiuso trent’anni dopo, ha visto suonare al suo interno la crema della musica mondiale; da qualche anno è iniziata la pubblicazione di concerti presi dagli archivi della storica location, con album che hanno riguardato, tra gli altri, Willie Nile, Jack Bruce, Pete Seeger con Roger McGuinn, Ralph Stanley e Doc Watson. L’ultima uscita è un doppio CD molto interessante, che riguarda una serata che vede protagonisti due maestri assoluti come, appunto, Kris Kristofferson ed il grande Lou Reed, registrata nel Febbraio del 1994. Lo show fa parte della serie di spettacoli che occasionalmente si tenevano al Bottom Line ed intitolati In Their Own Words, durante i quali gli ospiti suonavano alcuni dei loro classici e rispondevano alle domande di Vin Scelsa, famosissimo conduttore radiofonico americano.

E questo episodio che riguarda Kris & Lou è, come ho già detto, decisamente interessante: i due ospiti sono in ottima forma, ed accettano di buon grado di rispondere alle domande di Scelsa, spesso anche con pungente ironia (cosa che non manca di divertire il pubblico) ma comunque con grande disponibilità, cosa normale per Kristofferson ma niente affatto scontata per Reed, che è sempre stato un vero tormento per giornalisti ed intervistatori in genere (ed anche in quella serata ogni tanto risponde in maniera laconica e di tanto in tanto tira fuori le unghie, come quando alla domanda “Qual è il tuo incubo peggiore?” replica “Dover rispondere a domande come questa”). Le domande di Scelsa vertono su argomenti di vario tipo (a seconda del destinatario: il songwriting, i Velvet Underground e Warhol, il mondo di Nashville negli anni sessanta, l’infanzia, New York, ecc.) ed i dialoghi sono piacevoli e mai pesanti all’ascolto. Ma la parte del leone la fa naturalmente la musica: entrambi gli artisti erano di casa al Bottom Line, in quanto Kris ci ha suonato in tutto 42 volte in carriera e Lou 54 (registrandoci anche il famoso live Take No Prisoners), e nella serata alternano performance di classici e qualche brano minore in versione stripped-down, con Kristofferson alla chitarra acustica e Reed all’elettrica (non ci sono duetti, ma tutti e due suonano anche nelle canzoni dell’altro) e con la partecipazione straordinaria alle armonie vocali di Victoria Williams, con la sua tipica voce un po’ da cartone animato, e la più sofisticata Suzanne Vega.

Lou Reed alterna brani famosi a qualche chicca (e stranamente non suona nulla da Magic And Loss, il suo ultimo album all’epoca), iniziando da Betrayed, una bellissima canzone tratta da Legendary Hearts (disco dal quale viene eseguita anche l’intensa title track), suonata e cantata in maniera toccante. Poi ci sono due pezzi dallo splendido New York, la coinvolgente Romeo Had Juliet e la potente Strawman (Scelsa aveva richiesto Dirty Boulevard, ma Lou preferisce assecondare il desiderio di Kristofferson), la rara Why Can’t I Be Good, tratta dalla colonna sonora di Faraway, So Close di Wim Wenders (una tipica rock ballad delle sue) e la superclassica Sweet Jane, durante la quale Kris tenta di infilare un assolo di armonica ma Lou lo stoppa subito al grido di “No harmonica, Kris!”, suscitando le risate del pubblico ed anche dello stesso cantautore texano. Ed ecco proprio Kristofferson, che non manca di suonare quelli che sono forse i suoi tre evergreen assoluti, Sunday Morning Coming Down (in medley con la splendida The Pilgrim), Help Me Make It Through The Night e la strepitosa Me And Bobby McGee; ci sono però anche classici minori ma di altissimo profilo come Shipwrecked, Sam’s Song (dedicata a Sam Peckinpah), To Beat The Devil e Burden Of Freedom. Nel finale, Scelsa chiede ai due di eseguire una cover a testa di un brano che amano: Kris sceglie Bird On A Wire di Leonard Cohen (la cui prima frase dice di volere come epitaffio sulla sua tomba) e Reed stupisce tutti con una stupenda versione “alla Lou” di Tracks Of My Tears di Smokey Robinson. Un (doppio) dischetto forse non indispensabile, ma di sicuro estremamente scorrevole e piacevole.

Marco Verdi

*NDB Video o video/audio del concerto tenuto insieme non ce ne sono, per cui ho inserito due concerti del 1994: Lou Reed in solitaria per il 1° maggio a Roma e Kris Kristofferson al Farm Aid. Il CD doppio ve lo comprate!

Una Voce Meravigliosa Interpreta “Cover” D’Autore. Susan Marshall – 639 Madison

susan marshall 639 madison

Susan Marshall – 639 Madison – Madjack Records

Come già detto in occasione dell’uscita del precedente Decorations Of Red, (uscito sul finire del 2015), il debutto dei Mother Station con Brand New Bag, disco del 1994, fu per certi versi un’opera quasi unica (purtroppo) ed eccezionale, un disco di torrenziale rock-blues al femminile dove primeggiava la voce di Susan Marshall, importante non solo per timbriche e modulazioni, ma anche per una straordinaria duttilità interpretativa, tutti pregi che si riscontrano di nuovo in questo ennesimo album di “cover” 639 Madison, che conclude una “triade” iniziata con Little Red (09).

Il titolo dell’album prende il nome dall’indirizzo dove si trovavano i celeberrimi Sam Phillips Recording Studios di Memphis, nei quali anche questo lavoro è stato registrato, sotto la produzione, come per i precedenti dischi, di Jeff Powell, e che vede la Marshall, piano e tastiere, avvalersi di “turnisti” del luogo, i fidati David Cousar alle chitarre, Mark Edgar Stuart al basso, e Clifford “Peewee” Jackson alla batteria, per dieci brani, di cui nove sono canzoni d’autore (Phil Spector, Steve Wonder, John Fogerty, Kris Kristofferson, Elvis Presley, Marvin Gaye e altri), mentre un brano inedito è stato scritto appositamente dal figlio di Sam Phillips, Jerry: il tutto è distribuito, come al solito, dalla casa discografica Madjack Records, sempre di Memphis, città dove risiede anche la brava Susan.

Data la bellezza del lavoro (ovviamente a parere di chi scrive), mi sembrava giusto sviluppare una disamina dei brani “track by track”:

Baby, I Love You – Si inizia con un brano di Phil Spector portato al successo dalle The Ronettes con un famoso singolo del lontano 1963,  pezzo che qui viene riproposto da Susan in una versione “funky-rock.

Overjoyed – Meritoriamente viene ripescato questo brano del grande Steve Wonder (lo trovate su Square Circle, un album non trai suoi migliori del 1986), che a dispetto di una versione più classica incisa dalla brava Mary J.Blige, viene riletto per l’occasione in una intrigante chiave “bossa nova”.

Have You Ever Seen The Rain – Questo famosissimo brano di John Fogerty e dei suoi Creedence Clearwater Revival, viene rivoltato come un calzino da Susan Marshall, una canzone dove oltre la bravura dell’interprete si deve rimarcare pure la pulizia del suono di un arrangiamento meraviglioso da parte dei musicisti che suonano nel CD.

Inner City Blues (Make Me Wanna Holler) –  Marvin Gaye viene giustamente omaggiato con questo classico (tratto dal pluridecorato What’s Going On), in una sussurrata versione “soul-blues”.

When She’s Around – Questo è l’unico brano originale del lavoro, scritto da Jerry Phillips, una dolce ballata che rimanda al periodo Stax Records (buon sangue non mente), interpretata in modo commovente dalla Marshall.

Hound Dog – Dimenticatevi le versioni di Elvis o di Little Richard, qui sentite suoni caraibici che trasformano profondamente  uno dei classici immortali del re del “rock’n’roll”.

Stay – Questa confesso che me la sono persa, una bella canzone di tale Mikky Ekko portata al successo da Rihanna (?!?), e in questa occasione arrangiata con maggior garbo e interpretata con la classe tipica della nostra amica.

Help Me Make It Through The Night – Questa canzone di Kris Kristofferson (ha vinto il premio come canzone dell’anno nel 1970), può vantare illustri interpreti a partire da Willie Nelson, Brenda Lee, Dolly Parton, Elvis Presley e tantissimi altri, e anche in questa commovente rilettura le viene garantito il giusto merito.

Blue Skies – Questo brano proviene del lontano 1926, è stato scritto da Irving Berlin per il Musical teatrale Betsy, e nel tempo è stato reinterpretato da moltissimi artisti tra i quali Frank Sinatra e Doris Day, e la Marshall ne fa una splendida versione un po’ in stile “Cabaret”, diventando un pezzo da cantare in qualsiasi buon Bistrot.

Use Somebody – A dimostrazione che volendo anche le band di “rock alternativo” sanno scrivere grandi canzoni, da Only By The Night dei Kings Of Leon, viene ripescata una Use Somebody di straordinario fascino musicale, dove ancora una volta Susan si dimostra una delle migliori vocalist ” sconosciute” in circolazione.

Come certamente avrete capito sono molto di parte, però è pur sempre un progetto coraggioso e rischioso fare un album di “cover” (di qualsiasi genere), ma devo dire che ancora una volta la sfida mi pare vinta, come è successo in altre occasioni, in quanto ascoltando queste canzoni d’autore l’emozione che trasmette la voce di questa bravissima cantante di Memphis è dirompente, e Susan Marshall conferma ancora una volta che le buone canzoni sono sempre delle buone canzoni, soprattutto se ben interpretate, e in questo 639 Madison ce ne sono in abbondanza.

Tino Montanari

*NDB I video inseriti nel Post ovviamente non corrispondono ai contenuti del disco, ma servono per dare comunque una idea della splendida voce di questa bravissima cantante.

Cover Stories, La Recensione: Ovvero Rivisitando “The Story” Di Brandi Carlile Per Una Giusta Causa. Anche Cantato Da Altri Sempre Un Ottimo Disco!

cover stories brandi carlie

Various Artists – Cover Stories – Sony Legacy

Ne abbiamo già parlato un paio di volte; prima in occasione della presentazione e poi all’uscita del 5 maggio, ma visto che si tratta di una operazione a sfondo benefico http://discoclub.myblog.it/2017/05/05/esce-il-5-maggio-ma-visto-che-il-fine-e-nobile-cover-stories-ovvero-rivisitando-the-story-di-brandi-carlile-per-una-giusta-causa/  torniamoci per un’ultima volta. Al link leggete tutta la storia, questa volta parliamo solo dei contenuti, ossia delle singole canzoni, di quello che giustamente viene ancora oggi considerato il migliore album di Brandi Carlile, cantautrice di cui spesso e volentieri avete letto su questo Blog http://discoclub.myblog.it/2015/03/18/folk-rock-il-nuovo-millennio-delle-migliori-brandi-carlile-the-firewatchers-daughter/ :

1. Late Morning Lullaby – Shovels & Rope

Il duo americano agli inizi mi piaceva molto, poi mi pare che si siano persi per strada, con una svolta commerciale verso il “modernismo” a tutti i costi, che mi sembra li accomuni a gente come Mumford And Sons, Arcade Fire, Low Anthem, Needtobreathe (con cui hanno collaborato, nel pessimo Hard Love) e vari altri. Per l’occasione i due fanno le cose per benino, forse ispirati da questa dolce ninna nanna che apriva anche l’album originale, con l’intreccio delizioso delle due voci, Michael Trent e Cary Ann Hearst  una chitarra acustica e poco più, bella partenza.

2. The Story – Dolly Parton

La title track dell’album è anche una delle più belle canzoni del disco, Dolly Parton, una delle “eroine” musicali della Carlile, rimane molto fedele allo spirito del brano, un folk-rock accorato, cantato con grande pathos e passione.

3. Turpentine – Kris Kristofferson

Splendida anche la rivisitazione del grande Kris, la voce è sempre più “vissuta” e scarna, ma la classe non manca, e pure questa, un’altra delle canzoni migliori di The Story, rifulge di nuova gloria in una versione splendida, caratterizzata da una pedal steel avvolgente, dalla chitarra di Chris Stapleton e dalle armonie vocali della figlia di Kristofferson, Kelly.

4. My Song – Old Crow Medicine Show

Per gli Old Crow Medicine Show mi pare che valga la regola aurea dei tempi di “E Intanto Dustin Hoffman Non Sbaglia Un Film”, loro non sbagliano non dico un album ma neppure una canzone: My Song diventa una splendida bluegrass song dei Monti Appalachi, con armonie vocali impeccabili, picking di chitarre, banjo e mandolino e svolazzi di violino, bellissima. Tra l’altro, se cercate in rete, visto che sono stati in tour assieme, si scambiano di continuo versioni dei loro brani.

5. Wasted – Jim James

Ultimamente il leader dei My Morning Jacket, da solo o con il suo gruppo, non sempre centra l’obiettivo, e anche questa versione psichedelica alla Tomorrow Never Knows di Wasted, non mi pare il massimo.

6. Have You Ever – The Avett Brothers

Questa canzone era già bella di suo, ma la versione dei fratelli Avett, rallentata rispetto all’originale, intima e delicata, quasi alla Simon & Garfunkel, è un altro dei pezzi migliori contenuti in questo tributo. Dando il via ad un trittico di cover nella parte centrale dell’album che sfiora la perfezione.

7. Josephine – Anderson East

Per esempio, nel caso di Anderson East, che sia una delle più belle voci in circolazione delle ultime generazioni non lo scopriamo certo oggi: la sua sua voce rauca e vissuta, a dispetto dei suoi 29 anni ancora da compiere (ma Otis Redding ne aveva 26, quando morì nel 1967), è perfetta per questa versione gospel-soul di Josephine, arricchita anche dalle armonie vocali della fidanzata Miranda Lambert.

8. Losing Heart – The Secret Sisters

A proposito di armonie vocali, due che non scherzano nel campo sono le Secret Sisters, di cui ai primi di giugno, il 9 per la precisione, è in uscita il terzo album You Don’t Own Me Anymore, prodotto, toh che caso, da Brandi Carlile. Se ne parla molto bene, recensione già prenotata da Marco, quando verrà pubblicato. Per il momento gustiamoci questa Losing Heart, pure questa rallentata rispetto all’originale, ma sempre una piccola perla, con la stessa Brandi al banjo e Tim Hanseroth al piano e mellotron, una ballata molto anni ’70, affascinante.

9. Cannonball – Indigo Girls

Le Indigo Girls erano presenti anche nell’album originale, quindi sembrava quasi doverosa la loro presenza per un altro dei pezzi “forti” del CD, con il classico sound del duo americano, a cui molto si è ispirata la Carlile ad inizio di carriera, anche se l’uso dei fiati e del violino è inconsueto, quasi pop barocco, comunque interessante, e gli intrecci vocali sono sempre magnifici.

10. Until I Die – TORRES

Torres condivide con Brandi le passioni per Kate Bush, Johnny Cash e Kurt Cobain, una sorta di spirito affine sul lato alternative-indie, e questa versione lo-fi sembra ispirata proprio dalla cantante inglese, e poi la voce è decisamente bella.

11. Downpour – Margo Price

Questa era una delle canzoni che più mi piacevano dell’album originale, e la versione dell’emergente Margo Price, cantata con voce dolce e vulnerabile, quasi “infantile”, ben si accoppia con il sound alternative-country della Carlile, con intrecci di chitarre  e pedal steel che disegnano la deliziosa melodia della canzone.

12. Shadow On The Wall – Ruby Amanfu

Ecco uno dei due brani che erano già stati pubblicati in precedenza e non incisi appositamente per questo progetto. Ruby Amanfu è una cantante nata in Ghana, ma che vive ed opera musicalmente negli Stati Uniti, tra Nashville e Los Angeles. In possesso di una voce potente ed espressiva è in circolazione già dal 1998, ma Standing Still, il disco del 2015, è stato il primo con una produzione “importante”, e una delle cose migliori dell’album era proprio la sua versione della canzone di Brandi.

13. Again Today – Pearl Jam

Non potevano mancare naturalmente i suoi amici Pearl Jam (Mike McCready è apparso nei suoi dischi e Eddie Vedder è sempre disponibile per degli eventi di carattere benefico come questo): la versione di Again Today, che in origine era una malinconica ballata, per l’occasione diventa una potente canzone rock nello stile tipico della band di Seattle (quindi anche quasi concittadini) con la stessa Brandi Carlile alle armonie vocali per uno dei brani più importanti della raccolta

.14. Hiding My Heart – Adele

Questo pezzo era la “traccia nascosta” nella versione originale di The Story e poi era presente come bonus track nella versione limitata dell’album 21 di Adele, il disco che ha venduto svariati “fantastilioni” di copie in giro per il mondo.

Quindi, ribadisco, non solo un album per una giusta causa, ma anche, a parte un paio di eccezioni, un gran bel disco!

Bruno Conti

Esce Il 5 Maggio, Ma Visto Che Il Fine E’ Nobile… Aggiorniamo! Cover Stories, Ovvero Rivisitando “The Story” Di Brandi Carlile Per Una Giusta Causa: Pearl Jam, Adele, Avett Brothers, Anderson East, Eccetera

cover stories brandi carlie

Aggiornamento del Post scritto il 2 marzo, visto che il disco esce oggi 5 maggio, e si conferma come un progetto importante sia a livello umanitario, come molto interessante in ambito musicale: vi ribadisco quindi l’uscita di questo CD Cover Stories, la riproposizione completa dell’album del 2007 di Brandi Carlile The Story, disco che molti considerano il migliore della cantautrice di Ravensdale, Washington e che fu anche il suo maggior successo commerciale, vendendo oltre 500.000 copie all’epoca. Il 100% dei proventi della vendita dell’album verranno devoluti alla fondazione War Child UK (ma c’è anche in Olanda e Canada), l’associazione che si occupa di offrire assistenza ai bambini nelle aree di guerra, spesso con l’aiuto di artisti internazionali che hanno donato la loro musica per creare delle compilations musicali, di cui la prima fu Help, uscita nel 1995, poi replicata con Help! A Day In The Life, nel decimo anniversario dell’uscita del primo album, nel 2005, e con altre uscite discografiche, fino al 2009. Nel primo disco c’erano soprattutto musicisti inglesi, tra cui Oasis, Radiohead, Stone Roses, Blur, Sinead O’Connor, ma anche Paul McCartney, Paul Weller, Noel Gallagher e molti altri.

Per il nuovo progetto sono stati coinvolti molti “amici” della Carlile per reinterpretare tutte le 14 canzoni dell’album, e la lista dei partecipanti è veramente impressionante, tutti, più o meno, musicisti di qualità e “amici” del Blog.

“Late Morning Lullaby” – Shovels & Rope

“The Story” – Dolly Parton

“Turpentine” – Kris Kristofferson

“My Song” – Old Crow Medicine Show

“Wasted” – Jim James

“Have You Ever” – The Avett Brothers

“Josephine” – Anderson East

“Losing Heart” – The Secret Sisters

“Cannonball” – The Indigo Girls

“UntiI I Die” – Torres

“Downpour” – Margo Price

“Shadow On The Wall” – Ruby Amanfu

“Again Today” – Pearl Jam

“Hiding My Heart” – Adele

La gran parte delle canzoni sono state registrate appositamente per l’occasione, altre, tipo quella di Adele Hiding My Heart, già apparsa come bonus nell’album 21 e Shadown On The Wall di Ruby Amanfu, non sono inedite. Tra i musicisti coinvolti, anche Chris Stapleton che suona la chitarra nel brano di Kris Kristofferson e Miranda Lambert che canta nel brano del “moroso” Anderson East.

Se volete saperne di più sulle attività dei beneficiari di questa operazione andate qui https://www.warchild.org.uk/. Progetto meritevole e anche buona musica, mi sembrala combinazione perfetta. Qui si può già prenotare https://brandicarlile.merchtable.com/.

Ho aggiunto due o tre video, rispetto all’articolo originale:alla prossima.

Bruno Conti

Una Grande Serata Di Vero Country In Quel Di Austin! Outlaw: Celebrating The Music Of Waylon Jennings

outlaw celebrating waylon jennings

Outlaw: Celebrating The Music Of Waylon Jennings – Legacy/Sony CD/DVD

Splendido tributo alla musica di Waylon Jennings, uno dei più importanti musicisti country di tutti i tempi, vera leggenda in Texas, ed esponente di punta insieme a Willie Nelson del cosiddetto movimento “Outlaw Country”, che negli anni settanta si contrapponeva al country più commerciale che veniva prodotto a Nashville. Il concerto si è tenuto quasi due anni fa, il 6 Luglio del 2015, al Moody Theatre di Austin, ed è stata una grande serata, nella quale si sono dati appuntamento una lunga serie di amici e discepoli di Waylon (più i secondi dei primi, purtroppo molti sono da tempo in cielo a far compagnia a Jennings) per suonare alcuni tra i brani più noti del grande texano, la cui influenza si è fatta sentire di più dopo la scomparsa (avvenuta nel 2002 in seguito a complicazioni dovute ad una grave forma di diabete, ma conseguenza di una vita nella quale il nostro non si era fatto mancare niente) che nel periodo di attività, complice una discografia non sempre all’altezza, specie negli anni ottanta. Ora la Legacy pubblica finalmente il resoconto di quella serata, in versione CD con DVD allegato, in modo da far godere anche noi delle performances dedicate a Waylon, un concerto nel quale gli invitati hanno dato veramente il meglio di loro stessi, sia i fuoriclasse (e ce n’erano parecchi), sia quelli che a prima vista poco c’entravano con il barbuto countryman texano; in tutti i brani, poi, troviamo la solita house band da sogno che non manca mai in queste occasioni: Don Was al basso, produzione e direzione musicale (ed ultimamente il riccioluto Don non se ne perde uno di questi tributi), Buddy Miller e Patrick Buchanan alle chitarre, Matt Rollings alle tastiere, l’ottimo Robby Turner alla steel guitar, Mickey Raphael all’armonica (da sempre nella band di Willie Nelson), ben due batteristi (Raymond Weber e Richie Albright) e tre coristi.

Il DVD rispetto al CD contiene due brani in più (curiosamente entrambi con protagonista Sturgill Simpson, che quindi nella parte audio non compare – NDM: la presente recensione è fatta sul CD, sorry Sturgill…) più varie interviste agli ospiti che parlano chiaramente di Waylon; da segnalare purtroppo l’assenza di Billy Joe Shaver, che si può spiegare forse solo con il suo precario stato di salute, anche se è una mancanza che pesa non poco. La serata inizia alla grande con una delle performances migliori, grazie all’ottimo Chris Stapleton che propone una versione mossa e tonica, decisamente rock’n’roll, di Ain’t Living Long Like This, il brano di Rodney Crowell che Waylon fece suo nell’ormai lontano 1979, un avvio potente e trascinante, con ottimi interventi di piano e steel; il figlio di Waylon, Shooter Jennings, non si fa contaminare da sonorità strane come spesso fa ultimamente nei suoi dischi, anzi riesce anche a toccare le corde giuste con Whistlers And Jugglers, uno slow classico e con la giusta dose di pathos (splendido Rollings al piano, e strepitoso il finale chitarristico, molto southern), mentre la riunione di famiglia continua con la moglie di Waylon, e madre di Shooter, Jessi Colter, che emoziona con la sua Mona (se siete veneti non fraintendete quest’ultima frase per favore), solo voce e piano ma tanto feeling.

Sale sul palco la prima leggenda vivente della serata: Bobby Bare è un contemporaneo di Waylon, ed uno dei grandi del country, e la sua Only Daddy That’ll Walk The Line è piena di ritmo e grinta nonostante l’età avanzata del nostro; la voce limpida di Lee Ann Womack affronta molto bene la melodica Ride Me Down Easy (proprio di Shaver) e, in duetto con Buddy Miller, la cristallina Yours Love, ed anche il bravissimo Jamey Johnson strappa applausi a scena aperta con Freedom To Stay, country ballad classica cantata con il cuore in mano. La brava Kacey Musgraves sembra ferma agli anni sessanta, sia come stile che come look, e con The Wurlitzer Prize mantiene entrambi i piedi ben saldi in quel periodo, mentre Robert Earl Keen è uno dei migliori texani della generazione successiva a quella di Waylon, ma questa sera la sua rilettura di Are You Sure Hank Done It This Way ha qualcosa che non va, troppo elettrica e rock, quasi monolitica, molto meglio l’arrangiamento originale; Kris Kristofferson non ha certo bisogno di presentazioni, è uno dei grandissimi e non solo della musica country, uno che potrebbe cantare qualsiasi cosa: stasera sceglie I Do Believe, uno slow dall’accompagnamento leggero e con al centro la voce vissuta di Kris che, inutile dirlo, la fa diventare quasi una sua canzone. Strepitoso Ryan Bingham con Rainy Day Woman, in un arrangiamento grintoso e rock ma rispettoso della struttura country dell’originale, un brano che la voce ruvida di Ryan affronta senza problemi (e la steel di Turner è monumentale); sale sul palco Alison Krauss per due pezzi, la dolcissima Dreaming My Dreams With You (splendida la voce della bionda cantante e violinista) e, con Jamey Johnson, una mossa, ritmata e coinvolgente I Ain’t The One, dal deciso sapore sudista.

Toby Keith ed Eric Church non sono certo tra i miei countrymen preferiti, ma stasera non deludono, anzi convincono con due riletture serie e sentite di Honky Tonk Heroes e Lonesome, On’ry And Mean rispettivamente. E’ la volta del grande Willie Nelson, che sale sul palco e non scenderà più fino alla fine: Willie non è più quello di qualche anno fa, canta a fatica, in alcuni momenti sembra perfino a corto di fiato, ma ovviamente non poteva mancare, e comunque sopperisce con la sua presenza magnetica ed il suo immenso carisma (e poi chitarristicamente è ancora un portento); inizia da solo con la nota ‘Til I Gain Control Again, ancora di Crowell, e, in duetto rispettivamente con Keith e Stapleton, le mitiche Mammas Don’t Let Your Babies Grow Up To Be Cowboys e My Heroes Have Always Been Cowboys, entrambe splendide, tra gli highlights dello show. Finale da urlo con la meravigliosa Highwayman, con Willie e Kris che fanno loro stessi, Shooter al posto del padre e Johnson in luogo di Johnny Cash, e poi tutti sul palco per la celebrazione finale con Luckenback, Texas, una delle canzoni-manifesto di Waylon. Un ottimo tributo: era ora che a tredici anni dalla sua scomparsa qualcuno si decidesse ad omaggiare Waylon Jennings in maniera adeguata.

Marco Verdi