Un Affettuoso Tributo Al Figlio Scomparso, Nonché Un Bellissimo Disco. Steve Earle & The Dukes – J.T. Esce In CD Il 19 Marzo

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Steve Earle & The Dukes – J.T. – New West Download – CD/LP 19/03/21

Quando la scorsa estate, nel mese di agosto, il giorno 21 si è diffusa la notizia della morte di Justin Townes Earle, non si può dire che siamo rimasti molto sorpresi, purtroppo: il figlio di Steve Earle aveva avuto una lunghissima storia con la dipendenza da droghe, già iniziata quando aveva dodici anni e continuata per moltissimi anni, come lui stesso aveva dichiarato, “Avevo scoperto presto che il mio modo di approcciarmi alle cose della vita mi avrebbe messo nei guai, ma ho continuato a farlo, perché ho continuato per lungo tempo a credere nel mito che per creare grande arte dovevo distruggere me stesso”. E con perversa pervicacia ha continuato a farlo, nonostante ben nove ricoveri in cliniche di riabilitazione ogni volta ci ricascava, a brevi periodi di sobrietà ne seguivano altri dove i suoi fantasmi riprendevano a perseguitarlo; neppure la nascita della figlia Etta St. James Earle nel 2017 è riuscita a salvarlo. Proprio ad un trust destinato a raccogliere fondi per permettere alla figlia di raggiungere un futuro più sereno saranno destinati i proventi di questo J.T., il disco che Steve Earle ha voluto registrare in memoria del figlio e delle sue canzoni.

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E’ sempre devastante e triste quanto un padre sopravvive al figlio, specie se proprio lui è stato il “modello” con il quale Justin Townes ha dovuto misurare la propria vita: e non deve essere stato facile registrare un terzo album dedicato alle canzoni di un musicista che non c’è più, dopo Townes del 2009, dedicato a Townes Van Zandt e Guy, uscito nel 2017, ed incentrato sulle canzoni di Guy Clark, ecco J.T., altro titolo breve ed affettuoso che rivisita il repertorio del figlio attraverso alcune delle sue canzoni. Con la sola eccezione della canzone Last Words, scritta dalla stesso Earle, una canzone dalla bellezza dolorosa, quasi devastante, non dissimile da tante altre del suo repertorio, ma che in questo contesto assume una forza ancora maggiore, grazie anche alla maestria dei Dukes che lo hanno accompagnato in questo disco, e in questo brano in particolare il dobro di Ricky Ray Jackson che sottolinea lo scarno accompagnamento di una chitarra acustica e del violino della bravissima Eleanor Whitmore, che insieme a Chris Masterson, chitarre e mandolino e Jeff Hill, basso e contrabbaso, e Brad Pemberton, batteria, sono sublimi in tutto il disco https://www.youtube.com/watch?v=RR2XPOYqSZI , Steve la canta con voce scarna e ruvida, ancora più dolente del solito e che nel verso finale “I Love you too” è ancora più struggente.

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Justin Townes Earle forse, anzi sicuramente, non ha mai raggiunto i vertici del padre, ma nel corso dei suoi album ha scritto parecchie belle canzoni che Steve rivisita con orgoglio e classe nel suo stile: dall’honky-tonk dai profumi bluegrass della spensierata I Don’t Care, con la seconda voce della Whitmore https://www.youtube.com/watch?v=PzFAztmFYXQ , al country-blues con uso di pedal steel di Ain’t Glad I’m Leaving che rimanda ai suoi migliori dischi, passando per il country-rock ruspante ed elettrico della vibrante Maria.. E ancora la delicata e splendida ballata Far Way In Another Town, con la Whitmore che passa all’organo e Jackson alla pedal steel, oltre a Masterson alla solista, creano una superba atmosfera sudista, mentre They Killed John Henry è uno di quei brani narrativi dal sapore folk in cui Earle (già ma quale?) eccelle https://www.youtube.com/watch?v=1TGssyFJAuk . La quasi profetica Turn Out My Lights è un’altra ballata costruita sulla acustica arpeggiata, la solita steel e il violino straziante della Whitmore; la rabbiosa Lone Pine Hill si dibatte tra echi dylaniani grazie al guizzante violino e ritmi più incalzanti da perfetto outlaw country https://www.youtube.com/watch?v=fRsPjoIC8lI , in parte ribaditi anche nella scandita Champagne Corolla, che però vira verso atmosfere più bluesate, grazie alla elettrica pungente di Masterson e alla ritmica più scandita e cattiva https://www.youtube.com/watch?v=JLYKGOeTSWo .

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The Saint Of Lost Causes (bellissimo titolo) è giustamente considerata una delle canzoni più belle di Justin Townes, una versione dall’alto tasso di intensità che mi ha ricordato certe ballate feroci di Lucinda Williams, con atmosfere sospese e minacciose, sferzate dalle chitarre e dal violino e un cantato quasi febbrile e “incazzato” di Steve https://www.youtube.com/watch?v=xeqGCbo6pFo . E infine Harlem River Blues, tra country e folk con echi fortissimi della musica texana di Guy Clark, Jerry Jeff Walker e soci, ma anche l’amore per il folk-rock dello Steve Earle più ispirato https://www.youtube.com/watch?v=YaK9ZLqqHRI . Veramente un disco bellissimo e un tributo affettuoso a questo figlio scomparso.

Bruno Conti

Torna Il “Comandante” Steve Con Un Disco D’Altri Tempi. Steve Earle & The Dukes – Ghosts Of West Virginia

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Steve Earle & The Dukes – Ghosts Of West Virginia – New West CD

Gli Stati Uniti stanno attraversando una delle loro crisi più profonde della storia, in preda all’emergenza sanitaria ed economica causate dalla pandemia di Covid-19, con l’aggiunta dei tumulti conseguenti ai fatti avvenuti a Minneapolis (e con un presidente che giorno dopo giorno dà la sensazione di non sapere che pesci prendere). In tutto questo caos Steve Earle ha deciso stranamente di non “infierire”, pubblicando invece un nuovo album ispirato ad un evento di cronaca nera accaduto il 5 aprile del 2010 nella contea di Raleigh in Virginia, allorquando una terribile esplosione avvenuta nella miniera di Upper Big Branch uccise 29 operai su un totale di 39 che si trovavano al lavoro in quel momento. Ghosts Of West Virginia è quindi un sentito omaggio da parte di Earle alle vittime di quel tragico evento, ed è la parte finale di un progetto chiamato Coal Country nato qualche mese fa, una sorta di piece teatrale che sta girando per gli Stati Uniti (anche se penso che in questo periodo la tournée si sia interrotta a causa del virus) con le musiche composte appunto da Steve.

Fin dagli anni trenta ed anche prima la storia della musica è piena di canzoni ispirate al lavoro in miniera, dalla Carter Family (Coal Miner’s Blues) alle famosissime Dark As A Dungeon e Sixteen Tons di Merle Travis, passando per la Coal Miner’s Daughter di Loretta Lynn (che divenne anche il suo soprannome) fino a tempi più “recenti” con la Miner’s Prayer di Dwight Yoakam, senza dimenticare successi pop come la prima hit internazionale dei Bee Gees New York Mining Disaster 1941 o interi album come Blood, Sweat And Tears di Johnny Cash, che però era in maggior parte dedicato al lavoro in ferrovia: solo uno come Earle però poteva concepire un intero album ispirato ai minatori nel 2020 rendendo il progetto perfettamente credibile, e forse tutto sommato ha anche senso che in questi tempi travagliati il nostro abbia voluto “riportare tutto a casa” pubblicando un disco dedicato al lavoro duro per antonomasia, pericoloso non solo per i sempre possibili incidenti mortali ma anche per le esalazioni che a lungo andare possono portare al decesso per cancro ai polmoni. Dal punto di vista musicale Steve è coadiuvato dai fidi Dukes (Chris Masterson alle chitarre, Eleanor Whitmore a violino e voce, Ricky Jay Jackson a steel e dobro, Jeff Hill al basso e Brad Pemberton alla batteria) ed il suono mantiene quel mood country-rock inaugurato con il bellissimo So You Wannabe An Outlaw del 2017 https://discoclub.myblog.it/2017/07/05/uno-splendido-omaggio-al-country-texano-anni-settanta-steve-earle-the-dukes-so-you-wannabe-an-outlaw/  e proseguito con l’omaggio alle canzoni di Guy Clark Guy https://discoclub.myblog.it/2019/04/08/dopo-quello-a-van-zandt-un-altro-toccante-omaggio-ad-un-grande-texano-steve-earle-the-dukes-guy/ .

Anche Ghosts Of West Virginia (prodotto da Steve e mixato dall’inseparabile Ray Kennedy) è quindi un lavoro di puro country elettrico alla maniera del nostro, che non è mai stato country nel vero senso del termine neppure negli esordi di Guitar Town ed Exit 0, ma ha sempre iniettato nel suo sound robuste dosi di rock. Le canzoni sono tutte di grande intensità ed Earle, nonostante un aspetto sempre più invecchiato ed una voce sempre più arrochita, ha ancora la grinta di un ragazzino: forse l’unico difetto del CD è l’esigua durata di appena mezz’ora. Heaven Ain’t Goin’ Nowhere fa iniziare l’album in modo atipico, con una sorta di gospel corale eseguito interamente a cappella: domina ovviamente la voce di Steve, forte e centrale, con il coro che ripete ad libitum la frase del titolo. Union, God And Country è una country song spedita e scorrevole, con una strumentazione tradizionale ed un approccio da bluegrass band, un brano splendido nobilitato da un motivo di impatto immediato; Devil Put The Coal In The Ground è più spigolosa pur mantenendo un accompagnamento perlopiù acustico, ma il mood è bluesato ed anche il lavoro di violino e banjo va in quella direzione, con Steve che canta in maniera tesa ed a metà canzone arriva anche un lancinante assolo di chitarra elettrica, mentre con John Henry Was A Steel Drivin’ Man torniamo su lidi country-folk, con una melodia di stampo tradizionale (che prende spunto proprio dalla famosa John Henry, che però parlava del lavoro in ferrovia) ed un background sonoro elettroacustico e coinvolgente.

Molto bella Time Is Never On Our Side, una folk song amara ed intensa cantata con il cuore in mano e con il solito commento musicale di gran classe da parte dei Duchi, tutto basato su un giro di chitarra tipico ed una sezione ritmica discreta. La potente It’s About Blood è nettamente più roccata ed elettrica pur mantenendo un impianto sonoro “roots”, con Steve che alterna cantato e talkin’ e sul finire elenca ad uno ad uno i nomi dei 29 minatori che persero la vita nella tragedia del 2010; di segno opposto è If I Could See Your Face Again, uno splendido acquarello acustico sfiorato dalla steel ed affidato totalmente alla bella voce della Whitmore: un pezzo estremamente toccante, tra i migliori del CD. Black Lung è un country-blues che ha il sapore delle canzoni risalenti al periodo della Grande Depressione, anche se dalla seconda strofa entra di prepotenza la sezione ritmica tingendo il brano di rock; chiusura con l’irresistibile country-boogie Fastest Man Alive, forse il momento più trascinante del lavoro, e con la delicata ed ancora splendida The Mine, con la voce di Steve più roca che mai ma feeling a dosi massicce.

Altro disco bello e fiero dunque per Steve Earle, che in un momento di confusione totale ed incertezza per il futuro (in America come nel resto del mondo) ha nobilmente scelto di ricordare un tragico fatto di cronaca ormai sepolto nella memoria.

Marco Verdi

Molto Più Che Un Semplice Disco Country! Jack Ingram – Ridin’ High…Again

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Jack Ingram – Ridin’ High…Again – Beat Up Ford CD

Jack Ingram, countryman texano in giro dalla metà degli anni novanta, dal punto di vista musicale è sempre stato dalla parte giusta, ed anche il suo ultimo album risalente a tre anni fa, Midnight Motel, era decisamente sopra la media https://discoclub.myblog.it/2016/09/18/gradito-ritorno-jack-ingram-midnight-motel/ . Ma un conto è pubblicare ottimi album di country-rock, cosa che fanno ancora fortunatamente in molti, un conto è produrre dei capolavori: e Ridin’ High…Again, nuovissimo lavoro di Jack, è senza mezzi termini un capolavoro. Ingram al decimo full-length in studio ha voluto omaggiare il Texas ed i suoi cantautori storici, ma nello stesso tempo offrire anche qualcosa di nuovo: così Ridin’ High…Again (fin dal titolo un tributo a Jerry Jeff Walker, dato che Ridin’ High è uno dei suoi lavori più popolari) presenta tredici brani divisi tra cover e pezzi originali, ma non è il solito, seppur bello, disco country. Qui infatti Jack è ispirato come mai è successo prima, ha scritto canzoni di qualità eccelsa e le ha accoppiate con cover semplicemente strepitose, creando un’opera di livello superiore, inusuale anche nella durata di un’ora e diciassette minuti (di solito questi album durano la metà).

Eppure il disco fila via alla grande, ed alla fine ci si rammarica quasi per il fatto che non sia doppio: una serie di canzoni dunque magnifiche, suonate in maniera sontuosa da un manipolo di musicisti formidabili (tra i quali segnalerei Charlie Sexton, Chris Masterson e John Randall Stewart, che è anche il produttore, alle chitarre, Eleanor Whitmore al violino, lo straordinario pianoforte di Jimmy Wallace, tra i protagonisti del suono del CD, e le armonie vocali di Josh Abbott, Wade Bowen e Waylon Payne). La caratteristica del disco, oltre ad avere all’interno brani eccellenti, è che in molti casi troviamo lunghe code strumentali, vere jam country-rock che portano l’album a coprire quasi interamente il minutaggio a disposizione, e l’impressione è che sia stato proprio Ingram a volere questo e a dire ai vari musicisti di non fermarsi e di suonare in piena libertà. Non esagero, ma se Ridin High…Again fosse uscito negli anni settanta oggi non dico che lo metteremmo sullo stesso piano di lavori come Old No. 1, Red Headed Stranger e Lubbock (On Everything) (rispettivamente Guy Clark, Willie Nelson e Terry Allen, anche se non dovrei dirvelo), ma di sicuro non molto al di sotto.

Alright Alright Alright, scritta da Jack insieme a Todd Snider, fa capire subito di che pasta è fatto il disco, un rockin’ country elettrico e potente, ma nel contempo molto orecchiabile: Ingram canta con voce arrochita, la sezione ritmica pesta di brutto ed il pianoforte saltella che è una bellezza. Don’t It Make You Wanna Dance è il pezzo più noto di Rusty Wier (ma è stata anche una hit per Jerry Jeff Walker), ed è una limpida e vivace rock’n’roll song dal tocco country, texana al 100%, bella, coinvolgente e con parti chitarristiche “ruspanti”; Stay Outta Jail è più lenta e rilassata, quasi indolente, con Jack che un po’ canta un po’ parla e sullo sfondo si fa largo una bella chitarra slide (la quale ad un certo punto diventa assoluta protagonista insieme al piano elettrico), un suono più southern che texano. Desperados Waiting For A Train non ha bisogno di presentazioni, è forse il più grande brano di Guy Clark ed una delle più belle canzoni dei seventies, e questa rilettura del nostro è strepitosa, toccante, sentita: parte con pochi strumenti e si arricchisce man mano che prosegue per un crescendo emozionante: versione superiore anche a quella recente di Steve Earle; Where There’s A Willie è dedicata a Willie Nelson (ed anche a Waylon), inizia con una chitarra suonata nello stile del barbuto artista texano per poi trasformarsi in uno splendido honky-tonk dalla melodia deliziosa, grande pianoforte ed ottimo intervento di steel, in pratica un’altra goduria per le orecchie. Proprio di Nelson è la seguente Gotta Get Drunk, un brano poco noto risalente al 1970, un pezzo di puro Texas country elettrico, intenso e suonato al solito in maniera strepitosa, con un plauso particolare agli assoli di violino ed allo spettacolare piano di Wallace: dura ben otto minuti, ma alla fine ne vorrei ancora di più.

Tin Man è un brano che Jack ha scritto con Miranda Lambert, una ballata suonata con tre strumenti in croce, chitarra, batteria ed un bellissimo dobro che prende il sopravvento nel consueto eccellente intermezzo strumentale, mentre Down The Road Tonight, di Hayes Carll, è un rock’n’roll travolgente, elettrico e dal ritmo alto, in poche parole irresistibile. Never Ending Song Of Love è proprio il classico di Delaney & Bonnie (l’ha fatta anche John Fogerty qualche anno fa), con Jack che mantiene intatta la squisita melodia ma la riveste con un suono robusto e dominato dalle chitarre, in pieno stile Outlaw Country, e l’esito è pienamente riuscito, mentre con Sailor & The Sea il nostro si concede un momento di riposo, con una ballata notturna fluida ed intensa, dal pathos enorme ed accompagnamento in punta di dita che valorizza appieno il motivo centrale: ben dieci minuti, ma splendidi. L’ultimo brano originale, la solare ed accattivante Everybody Wants To Be Somebody, scritta ancora con Snider (e sicuramente con lo stile scanzonato di Jerry Jeff Walker in mente), precede le due cover che chiudono il CD: la rarefatta Shooting Stars di Keith Gattis, altro slow da pelle d’oca suonato e cantato con la solita maestria ed intensità, e la nota Jesus Was A Capricorn di Kris Kristofferson, rifatta con grande rispetto del’’originale (quindi benissimo).

Ho sempre apprezzato il lavoro di Jack Ingram, ma questa sua ultima fatica mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta: tra i dischi del 2019, e non solo country.

Marco Verdi