Un’Altra Perla Sbucata Dalle Nebbie Del Passato. The Steve Miller Blues Band – Live From The Fillmore West 1968

The Steve Miller Blues Band - Live From The Fillmore West 1968

The Steve Miller Blues Band – Live From The Fillmore West 1968 – Retroworld/Floating World Records

In questo ultimo periodo mi è capitato più volte di occuparmi di Steve Miller, incluso un lungo articolo retrospettivo pubblicato sul finire del 2019 https://discoclub.myblog.it/2019/12/07/steve-miller-band-tra-blues-rock-e-psichedelia-parte-i/ , ma quando dalle nebbie del passato miracolosamente appare qualche “nuova” testimonianza del periodo fine anni ‘60, tra blues e psichedelia, è quasi doveroso portarlo alla vostra attenzione. Come è il caso di questo Live From The Fillmore West 1968, un broadcast radiofonico della emittente KFA Radio, relativo a tre serate speciali del 26/27/28 Dicembre appunto del ‘68, dove il gruppo si esibì insieme a Sly And The Family Stone e ai Pogo (che da lì a breve sarebbero diventati i Poco di Richie Furay). Due o tre precisazioni: il disco è attribuito alla Steve Miller Blues Band, ma, come evidenzia la locandina dell’evento, erano già la Steve Miller Band, avendo pubblicato due album con quel nome durante l’anno, nelle note viene ricordato che Boz Scaggs non era presente, in quanto se ne era andato a Settembre ‘68, ma come mi pare di desumere da altro materiale degli archivi di Bill Graham https://www.wolfgangs.com/music/steve-miller-band/audio/20053982-6771.html?tid=4884717 , sembrerebbe ancora presente nella line-up della Band, almeno nella data del 29, quindi non una di queste, ma dubito che 3 date no e poi una sì, e comunque mi sembra proprio la sua voce, oltre che una canzone scritta da lui, l’iniziale Stepping Stone.

E infine, rispetto anche ad altri CD che riportano date dal vivo dell’epoca, soprattutto del ‘67, la qualità sonora non è perfetta ma è più che soddisfacente. E la chicca della serata è la presenza di Paul Butterfield all’armonica in alcune tracce: con loro ci sono Lonnie Turner al basso, Tim Davis alla batteria e Jim Peterman alle tastiere: a prescindere dalla formazione, il concerto è favoloso, appunto l’iniziale Stepping Stone è testimonianza della furia chitarristica di uno Steve Miller infoiato con il pedale wah-wah costantemente inserito per un brano di una potenza devastante, dove il nostro emula le evoluzioni di Hendrix in salsa psych-blues. Mercury Blues è un brano che Miller e soci avevano già eseguito al Monterey Pop Festival, e inciso nella colonna sonora di Revolution, canzone che poi sarebbe entrata a far parte del repertorio dei Kaleidoscope di David Lindley, anche in questo caso wah-wah a manetta con Steve che impazza per gli oltre sette minuti del brano, con la band che lo segue come un sol uomo.

In Blues With A Feeling il nostro amico invita Paul Butterfield sul palco per una sanguigna ripresa di questo classico del blues, uno slow di Little Walter dove Miller distilla dalla sua chitarra una serie di assoli degni di Magic Sam o Buddy Guy, ottimamente spalleggiato da un ispirato Butterfield, che poi rimane anche per la jam improvvisata di Butterfield Blues, con botta e risposta tra i due, e si sente anche un’altra chitarra, quindi probabilmente Scaggs era presente, ma io non c’ero quindi… Paul rimane sul palco anche per le sublimi volute psichedeliche di una sontuosa, lunga ed improvvisata Song For Our Ancestors, e anche Roll With It, un lato B dell’epoca ha profumi acidi e psych, come pure una lunga cover di un brano degli Isley Brothers (altri pionieri del rock e del soul miscelati tra loro, come Sly Stone che divideva il palco con Miller in quella serata) quasi dieci minuti di blues-rock tirato e di grande potenza, con Steve sempre impegnatissimo alla solista, con Peterman di supporto all’organo, oltre alla seconda chitarra, e qualche deriva funky aggiunta come sovrappiù alle operazioni, con il gruppo in un continuo crescendo irresistibile.

Steve Miller Band Vintage Concert Poster from Fillmore West, Dec 26, 1968 at Wolfgang's

Drivin’ Wheel è una cover di Roosevelt Sykes che Miller suona dal vivo ancora oggi , un altro blues che parte lento e poi diventa un brano di grande intensità, anche con forti connotazioni rock, e ancora un electric blues Chicago style come Bad Little Woman, per concludere in gloria una splendida esibizione, sempre con uno Steve Miller molto ispirato alla chitarra. Una piacevole sorpresa. *NDB Documenti sonori di quel concerto in rete non ce ne sono, vi dovete comprare il CD, quindi ne ho messi un paio sempre del 1968, ma vi assicuro che la qualità del suono di questo Live From The Fillmore West benché lungi dall’essere perfetta è nettamente superiore, e raramente mi è capitato di sentire la Steve Miller Band suonare così bene dal vivo.

Bruno Conti

Un’Orgia Di Wah-Wah Per Un Disco Di Psichedelia Massiccia. Tia Carrera – Tried And True

tia carrera tried and true

Tia Carrera – Tried And True – Small Stone Records CD+Download – LP

Nonostante il nome Tia Carrera sono una band, vengono da Austin, Texas, sono in pista da una ventina di anni, e ogni tanto, quando li coglie l’estro, pubblicano un nuovo album (il precedente risale al 2011). Questo nuovo Tried And True, oltre ai cinque brani canonici della versione per il download e vinile, nella versione in CD riporta come bonus il contenuto del LP dello scorso anno Visitors/Early Purple, solo due brani, ma per un totale di 35 minuti. La formazione aggiunge ai due membri storici del gruppo, Jason Morales alla chitarra e Erik Conn alla batteria, anche il bassista Curt Christenson: genere direi rock-blues con fortissime influenze psichedeliche. Solo brani strumentali, spesso e volentieri abbondantemente oltre i dieci minuti, jam dove regna l’improvvisazione quasi pura, in un’orgia inarrestabile di wah-wah come se non ci fosse un futuro (e forse neppure un passato) per la musica, per dare una idea pensate alla terza facciata, quella futuristica e sperimentale di Electric Ladyland di Jimi Hendrix, mista allo stoner rock più estremo, al fuzz rock, quello che praticano quasi tutti gli artisti sotto contratto per la Small Stone Records, etichetta di Detroit, per la quale incidono anche i Tia Carrera.

Diciamo che non c’è molto da descrivere, ma ci provo, chi ama il genere avrà capito più o meno di cosa parliamo: Layback apre le ostilità, basso fuzzy e batteria molto attivi, Morales che dopo circa venti secondi innesta il wah-wah, che da lì a poco è in modalità Cry Baby, e per circa sette minuti inesorabili di libera improvvisazione da power trio non si fanno prigionieri. Taos è decisamente più free form, sempre psichedelia massiccia, per “soli” cinque minuti, una sorta di finale infinito di qualche brano heavy rock, Swingin’ Wing rallenta leggermente e dilata i tempi, batteria molto indaffarata, sound tra stoner, heavy rock sabbathiano, sempre con wah-wah immancabilmente innestato per altri sei minuti, Zen and the art of the Thunderstorm con i suoi 3:22 è quasi un 45 giri come durata, però qui andiamo di feedback massiccio, tipo il Neil Young di Arc/Weld.

Rimane la lunga title track, oltre 14 minuti, questa volta all’inizio siamo dalle parti del doom rock dei primi Black Sabbath, qualcuno ha detto War Pigs? Questa volta il wah-wah scatta solo dopo due minuti e mezzo, poi il brano si dipana inquietante e magnetico, grazie alla comunque eccellente interpretazione dei tre musicisti. Rimangono le due bonus tracks aggiunte alla edizione in CD: sempre registrate nel loro BBQ Shack Studios, a Austin, TX, si tratta di Visitors, altri 18 minuti abbondanti di psichedelia pura improvvisata, molto hendrixiana, con la chitarra di Morales ancora una volta in piena libertà, ben spalleggiato da Conn e Christenson, che trovato un groove non lo mollano più, mentre il wah-wah impazza sempre inesorabile, breve riposo per ricaricare le pile e vai con i 16 minuti di Early Purple, ennesima lunghissima jam costruita all’impronta, come usano fare d’abitudine i Tia Carrera, viulenza” sonora non consigliata ai deboli di cuore e di spirito, che se non amano il genere sono pregati di astenersi.

Bruno Conti

Tra Country-Rock E Psichedelia, Un Brillante E Creativo Tuffo Nel Passato! Rose City Band – Summerlong

rose city band summerlong

Rose City Band – Summerlong – Thrill Jockey

Rinviato nella sua versione fisica per le note problematiche legate al Covid, ma disponibile da qualche tempo nella versione download, ecco Summerlong il nuovo album, il secondo in meno di un anno, per la Rose City Band. Se il nome non vi dice nulla si tratta del side project, del progetto parallelo se preferite, di Ripley Johnson, leader dei Wooden Shjips, con cinque album all’attivo, una delle band contemporanee più importanti nell’ambito neo psichedelico della Bay Area, anche se magari più orientati a tratti verso un suono sperimentale che fonde per certi versi Grateful Dead, Doors e soci, a Velvet Underground, Kraut Rock e gruppi più sperimentali: Johnson ha anche un’altra band, il Moon Duo, che a sua volta ha già pubblicato ben sette lavori, quindi sicuramente non è un personaggio poco prolifico o soggetto a blocchi creativi.

La Rose City Band si rivolge comunque quasi con devozione sempre al suono dei Grateful Dead, magari però quelli più languidi e con forti componenti country, folk e West Coast di Workingman’s Dead, come anche ai New Riders Of The Purple Sage e altri viaggiatori cosmici, con pedal steel guizzanti, mandolini e chitarre acustiche, nonché cori celestiali e deliziosi, come nella bellissima e malinconica, pur se mossa e brillante, iniziale Only Lonely, una piccola perla country-rock. Johnson suona tutti gli strumenti, a parte la batteria affidata a John Jeffrey, socio di Ripley anche nei Moon Duo. Empty Bottles rallenta i ritmi ma rimane sempre in questi territori dove i suoni del Laurel Canyon rimangono la stella polare di Johnson, con acustiche ed elettriche che si muovono felpate, quasi narcolettiche nel loro dipanarsi, a parte nel finale strumentale dove le elettriche anche in modalità wah-wah inscenano una breve e brillante jam.

Modalità improvvisativa che rimane anche nella successiva Real Long Gone, un altro brano spedito tra country e rock and roll, dove Johnson si sdoppia alle chitarre per un pezzo ancora assai godibile e che ricorda il country cosmico dei primi anni ‘70. Floating Out è una solenne ballata dove si apprezza anche il gusto per la melodia del buon Ripley, in grado di maneggiare perfettamente pure questa materia senza dimenticare le derive psych sempre presenti nei suoi album, mentre la breve Morning Light ricorda appunto i Dead di Workingman’s Dead o i New Riders, tra incroci sublimi di pedal steel e chitarre elettriche. Reno Shuflle viceversa è uno dei pezzi più vicini allo stile dei Wooden Shjips, dopo un inizio sempre in territori country, nella parte successiva si torna alle lunghe jam chitarristiche da sempre marchio di fabbrica della band, e anche Wee Hours mantiene questo spirito alla Grateful Dead con le chitarre libere di galleggiare in pieno trip psichedelico, tra profumi di patchouli, barbe e capelli lunghi, quelli di Ripley Johnson, che sembra veramente un figlio illegittimo di Jerry Garcia, anche sul lato artistico, parliamo di un brano veramente splendido, che senza soluzione di continuità poi si riversa nelle volute ancora più intricate dell’altrettanto intrigante Wildflowers.

Tanta “nostalgia” quindi tra i solchi virtuali di questo Summerlong, ma anche tanta buona musica. Esce domani 17 luglio.

Bruno Conti

Un Dave Alvin “Diverso” Ma Sempre Notevole. The Third Mind

the third mind

The Third Mind – The Third Mind – Yep Roc CD

Penso che non ci siano dubbi sul fatto che Dave Alvin sia uno dei campioni mondiali del genere roots rock/Americana, e che appartenga alla ristretta cerchia di musicisti che non hanno mai sbagliato un disco, sia come leader dei Blasters insieme al fratello Phil che come solista. Questa volta però il rocker californiano ha voluto fare qualcosa di diverso, andando a ricreare le atmosfere psichedeliche del periodo 1967-69: il risultato è The Third Mind, che oltre ad essere il titolo dell’album è anche il nome del supergruppo dietro il quale Dave ha deciso di “nascondersi” (nome ispirato da un libro scritto da William S. Burroughs, famoso artista della Beat Generation, insieme a Brion Gysin), un quartetto in cui l’ex Blasters è coadiuvato dall’altro chitarrista David Immergluck, noto per i suoi trascorsi con Camper Van Beethoven, Counting Crows e John Hiatt Band (e più di recente con James Maddock), dal bassista Victor Krummenacher, anch’egli dei Camper Van Beethoven, e dal batterista Michael Jerome (Richard Thompson, John Cale, Blind Boys Of Alabama).

I quattro si sono dati appuntamento in uno studio in Connecticut e hanno registrato sei brani (cinque cover ed un originale) usando un approccio, a detta di Alvin, alla Miles Davis (nel periodo in cui sperimentava con il suo produttore Teo Macero), cioè scegliendo una tonalità di partenza e suonando in presa diretta e senza seguire alcun spartito o vincolo musicale. Il risultato è un eccellente disco che ci riporta idealmente indietro di cinquanta anni, quando San Francisco era la capitale mondiale della musica rock e gli acid test a base di LSD e quant’altro erano all’ordine del giorno, e l’elenco dei musicisti ai quali l’album è dedicato è emblematico: Gary Duncan, John Cipollina, Roky Erickson e Mike Bloomfield. Grande musica, con le chitarre dei due leader che si scambiano licks e assoli come se piovesse e la sezione ritmica che li asseconda in maniera solida e potente: un suono che non ti aspetti da uno come Alvin (ma anche Immergluck si muove solitamente in territori “roots”), ma il disco risulta comunque riuscito, coinvolgente e per nulla ostico. L’iniziale Journey In Satchidananda (brano strumentale del 1970 di Alice Coltrane, musicista di estrazione jazz moglie del grande John Coltrane e scomparsa nel 2007) parte piano, con i nostri che sembrano accordare gli strumenti e lanciano vibrazioni psichedeliche alla Grateful Dead, poi il brano prende corpo a poco a poco ma sempre in modo soffuso: basso e batteria procedono con fare attendista, ma i due chitarristi iniziano a fendere l’aria con svisate elettriche notevoli, con Dave che si produce in un lungo e lirico assolo subito doppiato da uno acidissimo di Immergluck.

The Dolphins (Fred Neil) è nettamente più distesa e rilassata, con Alvin che ci fa sentire la sua ugola baritonale: il brano, splendido, mantiene l’anima folk originale con l’aggiunta però della chitarra dell’ex Blasters, che ci regala momenti formidabili di pura psichedelia. La breve, meno di tre minuti, Claudia Cardinale è l’unico pezzo originale, una canzone dedicata ad un’icona della bellezza degli anni sessanta (Bob Dylan fece inserire addirittura una sua foto nella copertina interna di Blonde On Blonde) che è uno strumentale per chitarra dall’andamento ipnotico ma nello stesso tempo profondamente melodioso e godibile, con un finale in deciso crescendo. Il CD arriva alla sua parte cruciale con i nove minuti della nota Morning Dew, folk song di Bonnie Dobson ma resa famosa dai Grateful Dead, dal testo post-apocalittico che mette i brividi ancora oggi: la versione dei nostri è strepitosa (la voce femminile è di Jesse Sykes, ospite speciale solo in questo brano), con la base che rimane folk, il tempo lento e Dave che fornisce la parte rock con la sua magica chitarra, ed un crescendo strumentale fantastico ed emozionante https://www.youtube.com/watch?v=sOzHXb-u92s . Niente psichedelia, solo grande musica rock.

Ma ecco il centerpiece del disco, cioè una sensazionale rilettura di sedici minuti del capolavoro della Butterfield Blues Band East-West (l’originale durava tre minuti di meno), un tour de force incredibile in cui ascoltiamo un’esplosione di rock, psichedelia, blues e musica orientale in un tripudio di chitarre (c’è anche un’armonica, suonata da Jack Rudy) e con la sezione ritmica che pare un treno in corsa: una jam fluidissima nella quale i nostri mostrano di poter suonare qualsiasi cosa riuscendo sempre a farci godere come ricci. Il CD si chiude con una versione potente, roccata e coinvolgente di Reverberation, un classico dei 13th Floor Elevators di Roky Erickson, forse il brano più diretto ed immediato dell’album. Questo per quanto riguarda il disco “normale”, ma la prima tiratura (che credo si trovi ancora) presenta due bonus tracks, ovvero due versioni alternate di East-West: la prima è un remix ad opera del noto produttore Tchad Blake, mentre la seconda è una take differente e forse ancora più roccata e trascinante. Un gran bell’esordio questo dei Third Mind, un album da consigliare non solo ai fan di Dave Alvin: c’è solo da sperare che non si tratti di un evento estemporaneo.

Marco Verdi

In Attesa Del Cofanetto Inedito Previsto Per L’Autunno Ecco La Storia Dei Fleetwood Mac & Peter Green: Un Binomio “Magico” Dal 1967 Al 1971, Parte II

fleetwood mac 1969

Parte seconda.

220px-Fleetwood-Mac-in-Chicago-LP 220px-Blues-Jam-at-Chess-LP

Fleetwood Mac In Chicago/Blues Jam At Chess – 2 LP Blue Horizon 1969 – ****

Nel frattempo, ad inizio gennaio appunto del 1969, il giorno 4, il quintetto, con Kirwan, si era recato agli studi Chess Ter-Mar della famosa etichetta di Chicago, per un meeting con sette musicisti neri importantissimi, dei veri maestri per Green e soci, la jam session, uscita con due titoli diversi, è fenomenale, un incontro proficuo tra cinque giovani musicisti inglesi ed alcune vere leggende del Blues, come Otis Spann (piano e voce), Willie Dixon (contrabbasso), Shakey Horton (armonica e voce), J.T. Brown ( sax tenore e voce), Buddy Guy (chitarra), Honeyboy Edwards (chitarra), e S.P. Leary (batteria); forse, ma forse, solo Fathers And Sons, il disco che vide l’incontro tra Muddy Waters, Michael Bloomfield e Paul Butterfield della Paul Butterfield Blues Band, Donald “Duck” Dunn di Booker T. & the M.G.’s, Otis Spann e Sam Lay, si può considerare pari o di poco inferiore a quello dei Fleewood Mac, ma è un’altra storia.

A produrre l’album furono Mike Vernon e Marshall Chess e il disco profuma di musica in libertà, le 12 battute classiche appunto in libera uscita per questa occasione unica. L’apertura è affidata a Watch Out, uno dei due contributi di Green come autore, un brano che rivaleggia con le migliori composizioni di Willie Dixox, uno shuffle intensissimo dove il chitarrista inglese dimostra di meritare tutta la stima che B.B. King gli ha poi tributato, con la sua solista variegata ed incontenibile e una parte cantata convinta come poche altre volte.  Da lì parte una sequenza di classici del blues splendidi: Ooh Baby, un ondeggiante blues con profumi errebì dalla penna di Howlin’ Wolf, sempre con Peter in gran forma, seguono due diverse e tirate takes dello strumentale South Indiana di Big Walter Horton, altri perfetti esempi del miglior Chicago Blues, con Shakey Horton all’armonica, Last Night è un intenso slow di Little Walter, sempre con Horton all’armonica, tutte cantate da Green, che poi guida il gruppo in Red Hot Jam, uno strumentale dove tutti i musicisti si divertono.

Seguono quattro brani consecutivi di Elmore James, nei quali Jeremy Spencer assume la guida delle operazioni alla voce e slide, I’m Worried, il lento I Held My Baby Last Night, la potente Madison Blues, in cui l’accoppiata bottleneck con il sax di JT Brown anticipa i futuri sviluppi di George Thorogood, e infine I Can’t Hold Out, con i musicisti neri presenti in sala che approvano. World’s In A Tangle di Jimmy Rogers apre il secondo album, un lento atmosferico dove Danny Kirwan sale al proscenio, mentre Otis Spann accarezza il suo piano, Talk With You e la tirata Like It This Way sono due composizioni di Kirwan, ottime a livello musicali, anche se Danny non è un grande cantante le chitarre viaggiano alla grande, a seguire troviamo due pezzi di Otis Spann, Someday Soon Baby e Hungry Country Girl, soprattutto la prima uno slow magistrale. La quarta ed ultima facciata prevede Black Jack Blues, un pezzo di J.T. Brown, con il contrabbasso di Dixon in evidenza di fianco al sax,  notevole anche Everyday I Have The Blues, di nuovo con la slide di Spencer, che la canta, e il sax a fronteggiarsi. Rockin’ Boogie come da titolo è uno scatenato R&R ancora di Jeremy, mentre Sugar Mama è un colossale blues corale con Peter Green che riprende la guida della session e Homework una travolgente scarica di blues da cento ottani, un successo in origine di Otis Rush e poi un cavallo di battaglia per i Nine Below Zero.

Al solito nelle edizioni ampliate contenute nel box ci sono moltissime bonus extra.

Then Play On, End Of The Game E I Dischi Postumi 1969-1971

Naturalmente gli anni si riferiscono a quando questo materiale venne registrato, poi è stato pubblicato in un arco di tempo lunghissimo, fino ai giorni nostri, in cui la  Sony farà uscire in autunno un cofanetto triplo Before The Beginning 1968-1970 Rare Live & Demo Sessions, con materiale inedito e dal vivo trovato negli archivi, e che è anche tra i motivi di questo articolo retrospettivo.

220px-Then_Play_On

Then Play On – Reprise/Warner 1969 – *****

Proprio durante le sessions che poi daranno vita a  questo magnifico album, i compagni di avventura di Peter Green cominciano a notare dei cambi di umore che li allarmano: il nostro amico che comincia ad usare grandi quantità di LSD, si lascia crescere una lunga barba incolta, inizia ad indossare delle tuniche e portare dei crocifissi, si fa più pensoso e malinconico, come testimonia la peraltro splendida Man Of The World, un brano che esce solo come singolo per la Immediate Records, che poi fallisce a breve, e la band firma un nuovo contratto per la Warner.

Tornando a Peter, Mick Fleetwood ricorda che l’amico cominciava a diventare ossessivo sul fatto di non fare soldi, e voleva dare via tutti i loro averi, cosa su cui i suoi compagni non erano molto d’accordo. Comunque le registrazioni vanno bene e l’album che ne risulta è uno dei capolavori assoluti del rock dell’epoca. Lasciato il blues, che rimane comunque presente nello spirito della musica, il suono si fa più aggressivo, anche se non mancano i soliti brani dalle atmosfere sognanti e malinconiche, con le chitarre di Green e Kirwan che fanno meraviglie nel loro interscambio, mentre la sezione ritmica di Mick Fleetwood e John McVie è veramente irrefrenabile.

Il 19 settembre del 1969, con la bellissima copertina dell’uomo nudo sul cavallo bianco, un titolo ispirato da una frase della Dodicesima Notte di Shakespeare, e con il primo singolo Oh Well, uscito la settimana successiva e non presente nella prima versione dell’album, che arriva, come Man Of The World, al secondo posto delle classifiche inglesi (mentre negli States Rattlesnake Shake uscita per prima, si rivela un flop), esce Then Play On , un album veramente superbo. Attualmente il disco si trova in CD nella edizione Extended  & Remastered uscita nel 2013 e quella vi consiglierei di cercare, in quanto con i suoi 18 brani si tratta della versione definitiva: comunque la versione “rivista” di fine 1969 (con Oh Well) iniziava con Coming You Way, un pezzo “galoppante” (vista anche la copertina) di Danny KIrwan, con il nuovo sound delle due soliste subito in evidenza, percussioni a manetta, e finale chitarristico psichedelico che ha non ha nulla da invidiare a quelli dei Quicksilver di John Cipollina e Gay Duncan.

Closing My Eyes è il primo splendido brano di Peter Green, una misteriosa e sognante canzone a tempo di valzer, con le chitarre accarezzate e le sferzate dei timpani di Fleetwood a percorrerla, una rivisitazione dei suoni di Albatross, con inserti acustici, Show-Biz Blues è un omaggio al tanto amato blues, un pezzo intimo ed acustico con le stesso Peter alla slide, visto che Jeremy Spencer praticamente non si sente più nel disco. My Dream di Kirwan è un delizioso strumentale tra surf music e atmosfere più malinconiche, sempre con quelle chitarre magnifiche, Underway, che poi dal vivo diventerà colossale, ha più di un punto di contatto con le ricerche sonore di Hendrix in quel periodo, con un crescendo magnifico punteggiato dal lavoro superbo di Fleetwood alla batteria, peccato che venga sfumato quando Green e Kirwan iniziano a divertirsi.

Oh Well (Part 1 & 2) ci regala più di nove minuti di magia sonora, inizio quasi flamenco con chitarra acustica e uno dei riff più inconfondibili della storia del rock, poi entra l’elettrica e il cantato sincopato di Peter, continui rilanci e una prima sferzata rock con le soliste che impazzano, poi segue un lungo segmento elettroacustico quasi cameristico (ma comunque tipicamente tra progressive e baroque rock)  anche con il piano di Spencer, nella sua unica apparizione, a disegnare atmosfere uniche. Although The Sun Is Shining è un’altra breve composizione di Kirwan, di ispirazione quasi folk, dolce e malinconica, mentre Rattlenake Shake è un’altra sferzata di pura energia rock, che non sarà anche entrata in classifica, ma questo non impedisce a vere muraglie di chitarra di ululare e dibattersi con una veemenza incredibile,  poi portate a livelli fantasmagorici nelle versioni live da 25 minuti e oltre; la sequenza di Searching For Madge e Fighting For Madge, composte da McVie e Fleetwood, è un altro dei momenti topici, caratterizzati da fade in e fade out estrapolati da magnifiche lunghe jam strumentali , intermezzo orchestrale incluso, che poi potremo ascoltare nella loro colossale completezza sul postumo The Vaudeville Years https://www.youtube.com/watch?v=bv0nEvy3Pok .

When You Say è un altro valzerone acustico di Kirwan, forse l’unico brano non memorabile dell’album, meglio il duetto blues con Green nella piacevole Like Crying e l’ultimo brano di Peter, una eterea ed estatica Before The Beginning che ci permette ancora una volta di gustare la maestria sopraffina del nostro alla chitarra, che raggiunge poi la sua punta più “dura e cattiva” nel singolo The Green Manalishi (With The Two-Pronged Crown), altro brano destinato ad infiammare le platee americane nel tour americano dell’anno successivo, un esempio di proto metal (non stupisce che i Judas Priest ne abbiamo fatto un cavallo di battaglia), registrato a Hollywood nell’aprile ’70 e pubblicato come singolo, ma che i Fleetwood Mac avevano già suonato a febbraio e verrà pubblicato nel postumo Live In Boston.

220px-Vaudevilleyears

The Vaudeville Years 1969-1970 – 2 CD Receiver 1998 – ****

Live In Boston – 3 CD Snapper 1999 o come Boston 3 CD Madfish 2017 – ****

Questi due dischi in teoria non sono ufficiali, ma chi se ne frega, visto che sono incisi molto bene, perché consentono di ascoltare i Fleetwood Mac , sia in studio che dal vivo, nel pieno del proprio fulgore rock, quando tra il 1969 e il 1970 rivaleggiavano come potenza di suono con i Led Zeppelin, i Blind Faith e le varie band di Clapton, Hendrix e Jeff Beck, e Peter Green era forse superiore anche a questi grandi chitarristi, prima di consumarsi nella sua dipendenza con l’LSD sfociata in una overdose nel 1970 a Monaco in Germania, che probabilmente ha iniziato a bruciargli lentamente ma inesorabilmente le cellule del proprio cervello (una storia comune a Syd Barrett, Rocky Erickson e molti altri in quegli anni)., quindi ammesso che si trovino ancora, cercateli. Ma prima, nelle ultime fiammate di creatività, tra maggio e giugno del 1970, registra un album di pura improvvisazione come

220px-Peter_Green_-_The_End_of_the_Game

The End Of The Game – Reprise 1970 -***1/2

Secondo me un mezzo capolavoro, secondo altri un disco senza capo né coda: ai posteri l’ardua sentenza! Ah già ma siamo noi i posteri, allora dico il mio parere, riascoltando il CD dopo tanti anni. Già all’epoca mi aveva affascinato: registrato in una sola sessione notturna, poi “editata” e spezzettata in una serie di bozzetti sonori, Green è sempre più preda dei suoi problemi con LSD e sbandamenti mistico-religiosi, ma a livello musicale riesce ancora a realizzare un’opera quasi unica, che affianca le sonorità del Jimi Hendrix più sperimentale, con uso  costante del pedale wah-wah a improvvisazioni quasi zappiane, Alex Dmochowski il bassista che veniva dai  Retaliation di Aynsley Dunbar, poi suonerà proprio in un paio di album del baffuto chitarrista americano, Zoot Money, grande pianista e organista britannico è l’altro libero improvvisatore nel disco, Nick Buck, il secondo tastierista al piano elettrico, e Godfrey McLean, esperto batterista che anche lui contribuisce alla riuscita dell’opera, pubblicata nel dicembre del 1970 (e che non ha circolato molto in CD, al di là edizioni giapponesi e versioni economiche, ma al momento si trova abbastanza facilmente).

Sei brani strumentali, poco più di 33 minuti, che si aprono con il festival del wah-wah della iniziale magnifica Bottoms Up, con Dmochowski e McLean che sostengono in modo splendido le scale free form della chitarra di un Peter Green quasi trasfigurato nelle sue improvvisazioni sperimentali e jazzate, poi il basso assume un suono ancora più rotondo, entra un liquido piano elettrico e il lavoro della chitarra si fa ancora più intricato, insomma dovreste ascoltare per capire di cosa parliamo. Timeless Time è un breve brano, poco più di due minuti, lirico, intimo e malinconico più vicino al “solito” Green, mentre Descending Scale è più ascendente che discendente, lavoro frenetico della ritmica, piano e organo di Zoot Money in primo piano, fino all’ingresso perentorio e devastante della chitarra quasi rabbiosa di Peter, tra esplosioni e momenti di quiete, in un brano certo di non facile ascolto, ma siamo nell’anno di Bitches Brew di Miles Davis, la musica ha questa libertà assoluta.

Burnt Foot con la batteria dappertutto ha tocchi quasi tribali e il solito spirito di impronta jazz-rock, genere allora nascente, con spasmi ritmici devastanti, che poi virano di nuovo verso la psichedelia con il suono quasi deadiano e liquido delle improvvisazioni live di Jerry Garcia con la sua band, in un brano come Hidden Depth dove il wah-wah è ancora protagonista assoluto. La conclusiva End Of The Game, tra dissonanze e cacofonie sonore, esplora quasi i limiti dell’uso del wah-wah in un ambito che sembra avere poche parentele con il rock. Fine Del Gioco!

Per giustificare l’arco temporale indicato nel titolo del paragrafo, in effetti nel 1971 non succede molto: nel corso del tour americano di quell’anno, chiamato dai vecchi pards dei Mac, si presenta come Peter Blue per sostituire Jeremy Spencer, anche lui andato fuori di melone e che si unisce ai Children Of God (anche se poi molti anni dopo si parlò pure di abusi su minori), poi suona con il suo ammiratore BB King a Londra nel 1972, ma la malattia mentale e l’uso di droghe hanno la meglio su di lui, e leggenda o verità vogliono che regali tutti i suoi averi, compresa la Gibson del 1959 a Gary Moore, lavori come infermiere e in un kibbuz in Israele, poi si perdono le sue tracce.

Un primo ritorno tra il 1979 e il 1984, vede come miglior album In The Skies, mentre la seconda, più sostanziosa rentrée, è quella con lo Splinter Group a cavallo tra 1997 e 2003, ma a fianco di piccoli sprazzi dell’antico splendore e una ritrovata serenità, musicalmente sembrano più dischi di Nigel Watson, anche se una serie di ottimi musicisti ne garantiscono la qualità. Poi qualche tour ancora come Peter Green & Friends, fino all’inizio di questa decade, al momento non saprei dirvi come se la passa.. Ma tutto quello che ha fatto in quei cinque anni gloriosi basta e avanza.

Bruno Conti

Prosegue La Serie Di Ristampe…Proiettata Molto Nel Futuro! Grateful Dead – Aoxomoxoa 50th Anniversary

grateful dead aoxomoxoa 50th

Grateful Dead – Aoxomoxoa 50th Anniversary – Rhino/Warner Deluxe 2CD

Terzo episodio delle riedizioni per i cinquantennali degli album sia in studio che dal vivo dei Grateful Dead, un’iniziativa che come ho già avuto modo di dire ha ottenuto parecchie critiche, dato che quando sarà il turno dell’ultimo album pubblicato dalla storica band californiana durante il periodo di attività, il live Without A Net, sarà il 2040 e molti fans della prima ora (ed anche della seconda) non saranno più tra noi, per non parlare della possibile sparizione del CD come supporto prima di quella data. Ma per ora direi di non pensare al futuro, e quindi eccomi ad occuparmi dell’edizione deluxe del terzo album del Morto Riconoscente, che risponde al misterioso titolo palindromo di Aoxomoxoa (titolo mai spiegato, tra l’altro), disco che tra l’altro presenta quella che è la più bella copertina in assoluto dei nostri, ed una delle massime espressioni grafiche del grande Rick Griffin. Aoxomoxoa è un lavoro che ha sempre diviso la critica e i fans: chi lo considera il capolavoro del gruppo per quanto riguarda il periodo psichedelico, chi invece lo vede come un album di transizione. A mio parere hanno un po’ di ragione entrambe le fazioni, dato che da una parte c’è ancora molta psichedelia nelle canzoni contenute nel disco, che è quindi il naturale seguito di Anthem Of The Sun, ma in alcuni brani si cominciano ad intravedere i germogli del suono roots che poi si paleserà nei due lavori seguenti, Workingman’s Dead e American Beauty.

In Aoxomoxoa i Dead sono in sette, con la seconda ed ultima apparizione di Tom Constanten all’interno del gruppo, e c’è anche la partecipazione come ospiti di John Dawson e David Nelson, che un paio di anni dopo formeranno i New Riders Of The Purple Sage proprio con Jerry Garcia. Questo doppio CD presenta nel primo dischetto l’album originale in due missaggi diversi (quello originale del 1969 ed il remix del 1971, con i brani leggermente più corti), mentre come da consuetudine in queste ristampe il secondo supporto contiene una performance inedita dal vivo. Aoxomoxoa (che è anche l’unico episodio della discografia dei Dead con tutti i brani a firma Garcia-Hunter, con l’aggiunta di Phil Lesh in St. Stephen) contiene due classici assoluti del gruppo come appunto St. Stephen, che diventerà uno dei brani più apprezzati dal vivo con versioni anche chilometriche (mentre qui è più sintetica, quattro minuti e mezzo più rock e meno psichedelici) e la vibrante China Cat Sunflower, spesso usata come apertura dei concerti (video delizioso che vedete sopra). Altri pezzi conosciuti e proposti più volte on stage sono l’elettroacustica e diretta Dupree’s Diamond Blues, a metà tra rock e musica old-time, Doin’ That Rag, vivace rock song elettrica con gran lavoro di organo da parte di Ron “Pigpen” McKernan, ed il puro psychedelic pop di Mountains On The Moon. Meno noti sono la breve Rosemary, un pezzo acustico cantato con una strana voce filtrata e la lunga ed allucinata What’s Become Of The Baby, otto minuti di delirio psichedelico per voce ed effetti sonori di difficile digestione.

Finale con la countreggiante Cosmic Charile con Garcia alla steel, brano che in un certo senso anticiperà le atmosfere di Workingman’s Dead. Il secondo CD presenta nove brani selezionati da due serate del Gennaio 1969 all’Avalon Ballroom di San Francisco, due concerti ancora molto acidi e psichedelici: Aoxomoxoa è rappresentato da due ottime rese di Dupree’s Diamond Blues e Doin’ That Rag, abbastanza simili alle versioni di studio anche come durata (rispettivamente poco meno di cinque e sei minuti). Anthem Of The Sun è presente per tre quinti: una liquidissima New Potato Caboose di 14 minuti con Jerry subito in tiro (e cantata purtroppo da Lesh che è tutto tranne che un cantante), una potente Alligator di nove minuti, con annesso assolo della doppia batteria ed un grande Garcia, brano che si fonde con la spedita e tonica Caution (Do Not Stop On Tracks). Il finale è notevole (a parte la consueta traccia Feedback che come al solito “skippo” col telecomando): dopo il breve siparietto a cappella di And We Bid You Goonight troviamo una delle ultime versioni di Clementine, che dopo il 1969 non verrà mai più suonata, ed una favolosa versione di Death Don’t Have No Mercy (Rev. Gary Davis), dieci minuti di puro “acid blues” con Pigpen e Garcia protagonisti indiscussi.

A Novembre toccherà ai 50 anni di Live/Dead, uno dei dischi dal vivo più importanti di tutti i tempi: visto anche il periodo pre-natalizio non mi dispiacerebbe un bel cofanetto.

Marco Verdi

Correva L’Anno 1968 – Bonus Track. Pearls Before Swine – Balaklava

pearls before swine balaklava

Pearls Before Swine – Balaklava – Drag City CD

Pensavo che le recensioni riguardanti i dischi che nel 2018 hanno compiuto 50 anni si fossero esaurite con la disamina da parte di Bruno della versione ampliata di Cheap Thrills di Janis Joplin, ma, complice un momento in cui le novità discografiche latitano alquanto, ho voluto cogliere l’opportunità di parlare di un album che, pur non avendo l’importanza né del White Album né di Electric Ladyland (ma neppure di In Search Of The Lost Chord o The Village Green Preservation Society), rimane uno dei dischi più di culto dell’epoca nonché il capolavoro del gruppo che lo ha realizzato: sto parlando di Balaklava, secondo full-length dei Pearls Before Swine, band originaria della Florida e guidata da Tom Rapp, vulcanico e geniale musicista scomparso quasi esattamente un anno fa (l’11 febbraio 2018). I PBS oggi purtroppo sono un gruppo abbastanza dimenticato, ma tra gli anni sessanta e settanta erano fautori di un suono abbastanza unico in America, una sorta di fusione tra folk e psichedelia che non aveva molti termini di paragone: se proprio vogliamo, in certi momenti mi sembra di sentire il Tim Buckley meno sperimentale, mentre artisti contemporanei come Father John Misty e Fleet Foxes devono sicuramente qualcosa a questo tipo di sound.

 

I PBS erano una band i cui componenti venivano cambiati spesso e volentieri da Rapp, che era chiaramente il deus ex machina (e negli anni settanta Tom manterrà attivo il monicker nonostante i suoi lavori saranno sempre di più opere soliste): il loro esordio risale al 1967 con l’apprezzato One Nation Underground, ma è con Balaklava dell’anno seguente che i nostri pubblicano la loro opera unanimemente riconosciuta come la migliore. L’album prende il titolo dalla città della Crimea che fu teatro della famosa battaglia del 1854 tra impero russo da una parte e le forze alleate di Francia, Regno Unito ed impero ottomano dall’altra, ed è un lavoro dai testi profondamente anti-bellici, una sorta di pacifismo alternativo a quello della Summer Of Love della West Coast, mentre dal punto di vista musicale troviamo una serie di canzoni di stampo folk e sfiorate in più punti dalla psichedelia, una miscela intrigante che oggi viene riproposta con il suono opportunamente rimasterizzato per questa bella edizione che ricalca anche nella confezione il disco originale (e One Nation Underground aveva beneficiato dello stesso trattamento, quindi aspettiamoci la stessa cosa quest’anno per These Things Too, terzo album del gruppo), con la bella copertina che riproduce Il Trionfo Della Morte del visionario pittore olandese Pieter Bruegel: l’unico punto a sfavore di questa ristampa è la totale mancanza di bonus tracks, che ci stavano eccome dato che Balaklava durava appena mezz’ora.

In questo album la formazione dei PBS, oltre a Rapp che canta e suona la chitarra, comprende Jim Bohannon al piano, organo e marimba, Wayne Harley al banjo e Lane Lederer al basso, mentre un ridotto gruppo di ospiti (tra cui Warren Smith ed il noto jazzista Joe Farrell) riveste il suono con interventi di batteria, flauto, archi e corno inglese, mentre la produzione è nelle mani di Richard Alderson, già responsabile del suono dal vivo di Nina Simone, Thelonious Monk e Bob Dylan (compreso il mitico tour del 1966 con The Band). Dopo una breve introduzione parlata volta a ricreare un vecchio annuncio radiofonico, il disco si apre in maniera suggestiva con Translucent Carriages, un brano acustico in cui la voce limpida e decisamente da folksinger di Rapp viene doppiata dal suo stesso sussurro sullo sfondo, un’atmosfera bucolica e sognante di sicuro impatto. Il mood campestre prosegue con Images Of April, in cui si sente distintamente un cinguettio di uccelli, mentre un flauto accompagna la voce sospesa di Tom, e comincia a filtrare un certo sentore psichedelico; There Was A Man è semplicemente splendida, altro brano guidato da voce e chitarra e servito da una melodia straordinaria, in assoluto la migliore dell’album: nella gentilezza con la quale Rapp porge la canzone vedo qualcosa di Tim Hardin, altro grande songwriter oggi purtroppo dimenticato.

I Saw The World è tenue ed onirica, ma la strumentazione è più presente e circonda in maniera limpida la voce del leader, con il piano a dominare ed una leggera orchestrazione sul finale, Guardian Angels è un delizioso bozzetto per voce e quartetto d’archi, con un suono low-fi creato volutamente per farlo sembrare un brano uscito da un 78 giri degli anni venti, mentre Suzanne è proprio quella di Leonard Cohen (ed unica cover del disco), un pezzo perfetto per l’approccio di Tom e compagni, versione pulita, cristallina e leggermente più elettrica di quella del poeta canadese. Il CD, trenta minuti di pura bellezza, si chiude con la pacata Lepers And Roses, con una squisita base strumentale per piano, basso, flauto ed organo (e qui la somiglianza con Buckley è più marcata) e con la tesa ed inquietante Ring Thing, in assoluto il brano più psichedelico della raccolta. Un plauso alla Drag City per aver ritirato fuori dalla naftalina un gruppo come i Pearls Before Swine: Balaklava, oltre ad essere un piccolo grande disco, risulta attuale ed innovativo ancora oggi.

Marco Verdi

Dopo La Scomparsa Di Paul Kantner Nel 2016, Giovedì 27 Ottobre Ci Ha Lasciato Anche Marty Balin, Aveva 76 Anni. Dei Tre Grandi Cantanti Dei Jefferson Airplane Ora Rimane Solo Grace Slick!

marty balin 1 marty balin 2

All’incirca due anni fa, nel gennaio del 2016, ci lasciava Paul Kantner, uno dei fondatori dei Jefferson Airplane https://discoclub.myblog.it/2016/01/29/direbbero-i-romani-mo-basta-ci-ha-lasciato-anche-paul-kantner/ora se ne è andato anche Marty Balin, che di quella formazione era una delle due formidabili voci soliste, insieme a Grace Slick, con cui era in grado di imbastire strepitosi interscambi vocali, sostenuti dalla voce più piana di Kantner e dalla perizia strumentale di Jorma Kaukonen alla chitarra e Jack Casady al basso (senza dimenticare Spencer Dryden alla batteria). Balin, nato Martyn Jerel Buchwald a Cincinnati,Ohio, nel gennaio del 1942, era presente sin dagli inizi del 1965 dei Jefferson, quando l’altra cantante era ancora Signe Toly Anderson, e l”‘Aeroplano” prese quota sui cieli della California con il primo album Takes Off. Ma fu nel quinquennio dal 1967 al 1971, con l’ingresso della Slick in formazione che i Jefferson Airplane divennero una delle leggende della Bay Area e della musica rock psichedelica americana di quegli anni, con una serie di album formidabili che rispondevano al nome di Surrealistic Pillow,  After Bathing At Baxter’s, Crown Of Creation Volunteers, senza dimenticare il live Bless Its Pointed Little Head (pubblicato nel 1969 come Volunteers, ma registrato nel 1968). Sul finire del 1969 Balin, nel famoso concerto degli Stones di Altamont, immortalato in Gimme Shelter, fu steso privo di sensi dagli stessi Hell’s Angels che causarono la morte di uno spettatore in quel tragico evento.

E l’anno successivo alla fine del tour del 1970, decise di abbandonare la band (scosso anche dalla morte di Janis Joplin), formalizzando l’abbandono poi nell’aprile del 1971, senza partecipare alla realizzazione dei due ultimi dischi di studio Bark Long John Silver. Nel 1973 iniziò la sua carriera solista con un album Bodacious DF, che non è rimasto certamente negli annali della musica rock, anche se la splendida voce di Marty Balin, questa sì tra le più belle ed espressive della storia della nostra musica, era comunque in piacevole evidenza. Poi Balin, richiamato da Kantner, entrò nella formazione dei Jefferson Starship (di nuovo ancora con la Slick), prima come ospite in Dragon Fly, dove cantava Caroline, una notevole power ballad scritta con Kantner.

Poi rimase in formazione per il successivo Red Octopus, il disco del 1975 che includeva la deliziosa Miracles, la canzone che arrivando al n*3 delle classifiche americane, fu il più grande successo di qualsiasi configurazione del giro Airplane/Starship: forse non era più il rock barricadero dei primi album, ma la voce di Balin si stagliava forte e sicura con quel suo cantato dai toni alti, fin quasi a sfiorare il falsetto, ricco di acuti, che da sempre era stato il suo grande pregio, tanto da farne una voce unica e subito riconoscibile. Marty rimase anche per Spitfire del 1976, anche questo finito al terzo posto delle charts, e per Earth del 1978, dove i problemi di alcolismo di Grace Slick si fecero sempre più evidenti, tanto da causarne l’uscita dalla band, subito seguita ad ottobre da Balin, che comunque non era mai stato un grande amante della vita on the road, anche lui in passato con qualche problema di droga e questa foto leggendaria con una canna lo ricorda.

ìmarty balin 3

Nel 1979 produce una rock opera Rock Justice, dove però non appare come cantante, e poi inizia la sua carriera solista nel 1981 con l’omonimo album Balin, che come tutti quelli che seguiranno negli anni a seguire conteneva dell’AOR abbastanza banale e poco memorabile, impreziosita a tratti dalla solo dalla sua voce, lasciando alla reunion del 1989 della formazione originale dei Jefferson Airplane, l’ultimo “acuto” della sua carriera, con un album più che dignitoso e degno della loro reputazione. Poi a parte qualche partecipazione con i riuniti Jefferson Starship di Kantner, la sua carriera ha vivacchiato fino ad arrivare ai due dischi del 2015 e del 2016, il primo Good Memories dove riproponeva oneste riprese dei suoi vecchi cavalli di battaglia, e il secondo The Greatest Love, il primo dove aveva scritto parecchi canzoni originali, ma in uno stile tendente all’hard rock dove impazzava un chitarrista, tale Chuck Morrongiello, un nome, un programma, con cui Balin aveva scritto le canzoni dell’album. Se vi interessa li trovate effigiati qui sotto.

marty balin good memoriesmarty balin the greatest love

A marzo del 2016, nel corso del tour per promuovere l’ultimo album, Balin a causa di dolori al petto, fu ricoverato in un ospedale di New York dove fu sottoposto ad un intervento a cuore aperto, che anche se gli salvò la vita lo ha lasciato chiaramente menomato, una corda vocale paralizzata, senza il pollice della mano sinistra sinistra, una parte della lingua, seri problemi alle reni e altri problemi che probabilmente sono stati tra quello che hanno portato alla sua attuale dipartita, avvenuta già al 27 di settembre in quel di Tampa, Florida, ma comunicata solo oggi dalla famiglia con un Post sul suo Facebook ufficiale (dove si trova anche il ricordo del suo amico Jorma Kaukonen https://www.facebook.com/martybalinmusic/ )  che non riporta peraltro la causa ufficiale della morte, ma visto quanto detto poc’anzi è immaginabile, Per il resto la moglie e le figlie ricordano affettuosamente un personaggio che almeno per una decade, tra gli anni ’60 e ’70, è stato una delle voci più belle della musica rock, l’interprete di canzoni indimenticabili, oltre a quelle citate, It’s No Secret, Comin’ Back To Me, Plastic Fantastic Lover, Young Girl Sunday Blues, The House At Pooneil Corners, l’epocale Volunteers, e tante altre trascinanti, cantate a due o tre voci con la Slick e Kantner, che lo aspetta sull’astronave per un viaggio nel futuro, dove potrà riposare le sue membra stanche.

Bruno Conti

Big Brother And The Holding Co. – Sex, Dope And Cheap Thrills. Anche “Questo” Album Compie 50 Anni E Recupera Il Suo Titolo Originale (Oltre A 25 Tracce Inedite): Esce il 30 Novembre.

Big Brother And The Holding Company Sex Dope And Cheap Thrills

Big Brother & The Holding Co. – Sex, Dope And Cheap Thrills – 2 CD Sony Legacy – 30-11-2018

Naturalmente stiamo parlando di quel disco che all’origine si chiamava Cheap Thrills, uscito il 12 agosto del 1968, si trattava del secondo album della band guidata da Janis Joplin (con Sam Andrew, James Gurley, Peter Albin Dave Getz), quello della loro consacrazione, che li porterà al primo posto delle classifiche di vendita americane di Billboard, e segnerà anche l’inizio della fine della loro breve vita come gruppo, in quanto già il 1° Dicembre, dopo un concerto a San Francisco, Janis Joplin lascia la la band, anche se continueranno comunque come Big Brother fino al 1972, ma senza Janis non è più stata la stessa cosa. L’album all’inizio doveva chiamarsi Sex, Dope And Cheap Thrills, abbreviato su richiesta della Columbia, che bocciò anche la foto di copertina che li ritraeva nudi sul letto di una camera di albergo, sostituendolo con il famoso disegno di Robert Crumb, va bene che era la Summer Of Love, ma l’America era ancora molto puritana. Il disco era anche un finto Live, in quanto gli applausi erano stati aggiunti in post produzione e l’unico pezzo veramente dal vivo era la strepitosa versione di Ball And Chain, registrata al San Francisco’s Winterland Ballroom il 12 Aprile del 1968. Ecco qui sotto come doveva essere la copertina originale, che non è stata recuperata, solo il titolo non usato, e quella dell’album dell’epoca.

Big Brother And The Holding Company Sex Dope And Cheap Thrills coverBig Brother And The Holding Company Cheap Thrills

Il fatto interessante è che in questa nuova edizione non appaiono i brani del disco originale, meno uno (quindi un’ottima cosa se lo avete già, in caso contrario è d’uopo provvedere, in quanto si tratta di uno dischi più belli dell’era psichedelica, e per meno di 10 euro fate vostra l’edizione rimasterizzata del 1999, arricchita anche da 4 bonus tracks), a cui aggiungere il CD doppio in cui ci sono trenta pezzi, di cui 25 sono inediti su disco, mentre i restanti cinque era apparsi nei seguenti CD: Summertime (Take 2) (su una compilaton del 1993 della Joplin); Roadblock (Take 1) (era l’unica presente come bonus nella versione 1999 di Cheap Thrills); It’s A Deal (Take 1) e Easy Once You Know How (Take 1) (entrambe erano sul disco Rare Pearls nel Box Pearls); e Magic Of Love (Take 1) (dal disco Columbia/Legacy per il Record Store Day, Move Over!). Tutto il resto è inedito, come potete verificare nella tracklist completa che leggete sotto; in questo caso quelli con l’asterisco sono i pezzi già editi.

[CD1]
1. Combination Of The Two (Take 3)
2. I Need A Man To Love (Take 4)
3. Summertime (Take 2) *
4. Piece Of My Heart (Take 6)
5. Harry (Take 10)
6. Turtle Blues (Take 4)
7. Oh, Sweet Mary
8. Ball And Chain (Live, The Winterland Ballroom, April 12, 1968)
9. Roadblock (Take 1) *
10. Catch Me Daddy (Take 1)
11. It’s A Deal (Take 1) *
12. Easy Once You Know How (Take 1) *
13. How Many Times Blues Jam
14. Farewell Song (Take 7)

[CD2]
1. Flower In The Sun (Take 3)
2. Oh Sweet Mary
3. Summertime (Take 1)
4. Piece Of My Heart (Take 4)
5. Catch Me Daddy (Take 9)
6. Catch Me Daddy (Take 10)
7. I Need A Man To Love (Take 3)
8. Harry (Take 9)
9. Farewell Song (Take 4)
10. Misery’n (Takes 2 & 3)
11. Misery’n (Take 4)
12. Magic Of Love (Take 1) *
13. Turtle Blues (Take 9)
14. Turtle Blues (Last Verse Takes 1-3)
15. Piece Of My Heart (Take 3)
16. Farewell Song (Take 5)

* Previously released

Di Janis Joplin, che, detto per inciso, è una delle mie voci femminili rock preferite in assoluto (probabilmente la numero uno, e un’altra delle grandissime come Grace Slick ha firmato proprio le note del libretto del doppio CD, insieme a Dave Getz) mi è capitato di scrivere in un paio di occasioni sul Blog: trovate i Post qui https://discoclub.myblog.it/2010/10/04/janis-joplin-19-01-1943-04-10-19701/ e qui https://discoclub.myblog.it/2012/04/02/quatto-ragazzi-e-una-ragazza-44-anni-fa-big-brother-the-hold/ . Dopo l’uscita del disco, prevista per il 30 novembre p.v., non mancheremo di tornarci nuovamente con la recensione completa.

Per il momento prendete buona nota.

Bruno Conti

Vecchio E Nuovo Rock, “Psichedelico”? Hans Chew – Open Sea

hans chew open sea

Hans Chew – Open Sea – At The Helm Records

Hans Chew, anche se la pronuncia del suo nome e cognome ricorda molto quella di uno starnuto, è in effetti un artista piuttosto interessante: prima membro di una band “country psichedelica” come D. Charles Speer & the Helix, poi si è creato una reputazione per i suoi interventi al piano nei dischi di Jack Rose, e in seguito anche Hiss Golden Messenger, Chris Forsyth e più di recente ancora con Steve Gunn. Nel frattempo ha registrato tre album solisti, di cui il primo Tennessee & Other Stories era entrato quasi nella Top 20 dei migliori dischi dell’anno di Uncut nel 2010; da poco è uscito il suo quarto album, questo Open Sea di cui stiamo per occuparci, un prodotto piuttosto interessante che lo vede alla guida di un quartetto con Dave Cavallo, il suo chitarrista abituale, e una sezione ritmica formata dal batterista Jimmy Seitang (spesso con Michael Chapman e il citato Steve Gunn) e da Rob Smith alla batteria. Lo stile che ne risulta incorpora elementi di rock, blues, country con spiccate venature southern e anche tocchi R&B e folk, quindi un suono piuttosto eclettico, dove spicca il piano di Chew, ma ancor di più le chitarre, suonate di sovente pure da Hans, che sono spesso e volentieri le protagoniste, in sei brani, tutti piuttosto lunghi, a parte uno, e che ricordano abbastanza anche una sorta di psichedelia gentile, come evidenzia subito l’iniziale Give Up The Ghost, che potrebbe rimandare ad un album come Shady Grove dei Quicksilver Messenger Service.

Il nostro ha anche una bella voce, particolare, rauca, profonda e risonante, ben inserita nel tessuto sonoro che si apre in continue jam strumentali, e scrive pure pezzi di eccellente qualità, come conferma la guizzante Cruikshanks, oltre otto minuti di una sorta di country-southern-rock anni ’70 che ricorda anche (sia pure in modo più vibrante e meno compassato) le sonorità di Hiss Golden Messenger (aka MC Taylor), con le chitarre che si rincorrono in un continuo intreccio di rimandi psych di ottima fattura, con la band che tira alla grande e in piena libertà. Molto bella anche la title track Open Sea che ha addirittura dei tratti che potrebbero riferirsi ai Grateful Dead più bucolici, almeno nella parte iniziale, perché poi nel dipanarsi del brano non siamo lontani dalle evoluzioni di una band come i Magpie Salute oppure di altre jam band attuali, tipo i Widespread Panic, con le chitarre che vengono rinforzate da improvvise entrate fluenti del piano di Chew, veramente bella musica; si diceva che l’unico brano breve del disco è riferito ai circa quattro minuti di Who Am Your Love?, introdotta da una chitarra acustica, da piccole percussioni e poco altro, ma che poi nella seconda parte si anima e si apre in un classico rock and roll con tanto di uso della solista in modalità wah-wah.

Freely, con il suo titolo, e gli oltre nove minuti di durata, è nuovamente musica psichedelica, acid rock, chiamatela come volete, libera e molta improvvisata, con gli strumenti sempre in modalità jam, anche con tocchi jazz e leggermente sperimentali che non sono lontani da quelli di Chris Forsyth http://discoclub.myblog.it/2016/04/02/chitarre-go-go-psych-rock-television-richard-thompson-improvvisazione-chris-forsyth-the-solar-motel-band-the-rarity-of-experience/ , altro musicista con cui Chew ha condiviso una parte di percorso, cambi di tempo continuo, chitarre e piano che si alternano alla guida per creare paesaggi sonori di grande bellezza e nuovamente in piena libertà, ma anche con improvvisi ritorni alla melodia e alla forma canzone. La conclusiva Extra Mile è un brano quasi di cosmic country e Americana, con una sorta di pianino honky-tonk, la voce alla Leon Russell del titolare e le solite chitarre acustiche ed elettriche che non mancano di farsi sentire nell’economia musicale della canzone. Quindi un menu veramente ricco e vario che non mancherà di colpire chi è alla ricerca di qualità e idee brillanti, ben realizzate, anche se con continui rimandi alla tradizione della migliore musica americana classica. Segnatevi il nome, questo signore è veramente bravo.

Bruno Conti