In Attesa Del Cofanetto Inedito Previsto Per L’Autunno Ecco La Storia Dei Fleetwood Mac & Peter Green: Un Binomio “Magico” Dal 1967 Al 1971, Parte II

fleetwood mac 1969

Parte seconda.

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Fleetwood Mac In Chicago/Blues Jam At Chess – 2 LP Blue Horizon 1969 – ****

Nel frattempo, ad inizio gennaio appunto del 1969, il giorno 4, il quintetto, con Kirwan, si era recato agli studi Chess Ter-Mar della famosa etichetta di Chicago, per un meeting con sette musicisti neri importantissimi, dei veri maestri per Green e soci, la jam session, uscita con due titoli diversi, è fenomenale, un incontro proficuo tra cinque giovani musicisti inglesi ed alcune vere leggende del Blues, come Otis Spann (piano e voce), Willie Dixon (contrabbasso), Shakey Horton (armonica e voce), J.T. Brown ( sax tenore e voce), Buddy Guy (chitarra), Honeyboy Edwards (chitarra), e S.P. Leary (batteria); forse, ma forse, solo Fathers And Sons, il disco che vide l’incontro tra Muddy Waters, Michael Bloomfield e Paul Butterfield della Paul Butterfield Blues Band, Donald “Duck” Dunn di Booker T. & the M.G.’s, Otis Spann e Sam Lay, si può considerare pari o di poco inferiore a quello dei Fleewood Mac, ma è un’altra storia.

A produrre l’album furono Mike Vernon e Marshall Chess e il disco profuma di musica in libertà, le 12 battute classiche appunto in libera uscita per questa occasione unica. L’apertura è affidata a Watch Out, uno dei due contributi di Green come autore, un brano che rivaleggia con le migliori composizioni di Willie Dixox, uno shuffle intensissimo dove il chitarrista inglese dimostra di meritare tutta la stima che B.B. King gli ha poi tributato, con la sua solista variegata ed incontenibile e una parte cantata convinta come poche altre volte.  Da lì parte una sequenza di classici del blues splendidi: Ooh Baby, un ondeggiante blues con profumi errebì dalla penna di Howlin’ Wolf, sempre con Peter in gran forma, seguono due diverse e tirate takes dello strumentale South Indiana di Big Walter Horton, altri perfetti esempi del miglior Chicago Blues, con Shakey Horton all’armonica, Last Night è un intenso slow di Little Walter, sempre con Horton all’armonica, tutte cantate da Green, che poi guida il gruppo in Red Hot Jam, uno strumentale dove tutti i musicisti si divertono.

Seguono quattro brani consecutivi di Elmore James, nei quali Jeremy Spencer assume la guida delle operazioni alla voce e slide, I’m Worried, il lento I Held My Baby Last Night, la potente Madison Blues, in cui l’accoppiata bottleneck con il sax di JT Brown anticipa i futuri sviluppi di George Thorogood, e infine I Can’t Hold Out, con i musicisti neri presenti in sala che approvano. World’s In A Tangle di Jimmy Rogers apre il secondo album, un lento atmosferico dove Danny Kirwan sale al proscenio, mentre Otis Spann accarezza il suo piano, Talk With You e la tirata Like It This Way sono due composizioni di Kirwan, ottime a livello musicali, anche se Danny non è un grande cantante le chitarre viaggiano alla grande, a seguire troviamo due pezzi di Otis Spann, Someday Soon Baby e Hungry Country Girl, soprattutto la prima uno slow magistrale. La quarta ed ultima facciata prevede Black Jack Blues, un pezzo di J.T. Brown, con il contrabbasso di Dixon in evidenza di fianco al sax,  notevole anche Everyday I Have The Blues, di nuovo con la slide di Spencer, che la canta, e il sax a fronteggiarsi. Rockin’ Boogie come da titolo è uno scatenato R&R ancora di Jeremy, mentre Sugar Mama è un colossale blues corale con Peter Green che riprende la guida della session e Homework una travolgente scarica di blues da cento ottani, un successo in origine di Otis Rush e poi un cavallo di battaglia per i Nine Below Zero.

Al solito nelle edizioni ampliate contenute nel box ci sono moltissime bonus extra.

Then Play On, End Of The Game E I Dischi Postumi 1969-1971

Naturalmente gli anni si riferiscono a quando questo materiale venne registrato, poi è stato pubblicato in un arco di tempo lunghissimo, fino ai giorni nostri, in cui la  Sony farà uscire in autunno un cofanetto triplo Before The Beginning 1968-1970 Rare Live & Demo Sessions, con materiale inedito e dal vivo trovato negli archivi, e che è anche tra i motivi di questo articolo retrospettivo.

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Then Play On – Reprise/Warner 1969 – *****

Proprio durante le sessions che poi daranno vita a  questo magnifico album, i compagni di avventura di Peter Green cominciano a notare dei cambi di umore che li allarmano: il nostro amico che comincia ad usare grandi quantità di LSD, si lascia crescere una lunga barba incolta, inizia ad indossare delle tuniche e portare dei crocifissi, si fa più pensoso e malinconico, come testimonia la peraltro splendida Man Of The World, un brano che esce solo come singolo per la Immediate Records, che poi fallisce a breve, e la band firma un nuovo contratto per la Warner.

Tornando a Peter, Mick Fleetwood ricorda che l’amico cominciava a diventare ossessivo sul fatto di non fare soldi, e voleva dare via tutti i loro averi, cosa su cui i suoi compagni non erano molto d’accordo. Comunque le registrazioni vanno bene e l’album che ne risulta è uno dei capolavori assoluti del rock dell’epoca. Lasciato il blues, che rimane comunque presente nello spirito della musica, il suono si fa più aggressivo, anche se non mancano i soliti brani dalle atmosfere sognanti e malinconiche, con le chitarre di Green e Kirwan che fanno meraviglie nel loro interscambio, mentre la sezione ritmica di Mick Fleetwood e John McVie è veramente irrefrenabile.

Il 19 settembre del 1969, con la bellissima copertina dell’uomo nudo sul cavallo bianco, un titolo ispirato da una frase della Dodicesima Notte di Shakespeare, e con il primo singolo Oh Well, uscito la settimana successiva e non presente nella prima versione dell’album, che arriva, come Man Of The World, al secondo posto delle classifiche inglesi (mentre negli States Rattlesnake Shake uscita per prima, si rivela un flop), esce Then Play On , un album veramente superbo. Attualmente il disco si trova in CD nella edizione Extended  & Remastered uscita nel 2013 e quella vi consiglierei di cercare, in quanto con i suoi 18 brani si tratta della versione definitiva: comunque la versione “rivista” di fine 1969 (con Oh Well) iniziava con Coming You Way, un pezzo “galoppante” (vista anche la copertina) di Danny KIrwan, con il nuovo sound delle due soliste subito in evidenza, percussioni a manetta, e finale chitarristico psichedelico che ha non ha nulla da invidiare a quelli dei Quicksilver di John Cipollina e Gay Duncan.

Closing My Eyes è il primo splendido brano di Peter Green, una misteriosa e sognante canzone a tempo di valzer, con le chitarre accarezzate e le sferzate dei timpani di Fleetwood a percorrerla, una rivisitazione dei suoni di Albatross, con inserti acustici, Show-Biz Blues è un omaggio al tanto amato blues, un pezzo intimo ed acustico con le stesso Peter alla slide, visto che Jeremy Spencer praticamente non si sente più nel disco. My Dream di Kirwan è un delizioso strumentale tra surf music e atmosfere più malinconiche, sempre con quelle chitarre magnifiche, Underway, che poi dal vivo diventerà colossale, ha più di un punto di contatto con le ricerche sonore di Hendrix in quel periodo, con un crescendo magnifico punteggiato dal lavoro superbo di Fleetwood alla batteria, peccato che venga sfumato quando Green e Kirwan iniziano a divertirsi.

Oh Well (Part 1 & 2) ci regala più di nove minuti di magia sonora, inizio quasi flamenco con chitarra acustica e uno dei riff più inconfondibili della storia del rock, poi entra l’elettrica e il cantato sincopato di Peter, continui rilanci e una prima sferzata rock con le soliste che impazzano, poi segue un lungo segmento elettroacustico quasi cameristico (ma comunque tipicamente tra progressive e baroque rock)  anche con il piano di Spencer, nella sua unica apparizione, a disegnare atmosfere uniche. Although The Sun Is Shining è un’altra breve composizione di Kirwan, di ispirazione quasi folk, dolce e malinconica, mentre Rattlenake Shake è un’altra sferzata di pura energia rock, che non sarà anche entrata in classifica, ma questo non impedisce a vere muraglie di chitarra di ululare e dibattersi con una veemenza incredibile,  poi portate a livelli fantasmagorici nelle versioni live da 25 minuti e oltre; la sequenza di Searching For Madge e Fighting For Madge, composte da McVie e Fleetwood, è un altro dei momenti topici, caratterizzati da fade in e fade out estrapolati da magnifiche lunghe jam strumentali , intermezzo orchestrale incluso, che poi potremo ascoltare nella loro colossale completezza sul postumo The Vaudeville Years https://www.youtube.com/watch?v=bv0nEvy3Pok .

When You Say è un altro valzerone acustico di Kirwan, forse l’unico brano non memorabile dell’album, meglio il duetto blues con Green nella piacevole Like Crying e l’ultimo brano di Peter, una eterea ed estatica Before The Beginning che ci permette ancora una volta di gustare la maestria sopraffina del nostro alla chitarra, che raggiunge poi la sua punta più “dura e cattiva” nel singolo The Green Manalishi (With The Two-Pronged Crown), altro brano destinato ad infiammare le platee americane nel tour americano dell’anno successivo, un esempio di proto metal (non stupisce che i Judas Priest ne abbiamo fatto un cavallo di battaglia), registrato a Hollywood nell’aprile ’70 e pubblicato come singolo, ma che i Fleetwood Mac avevano già suonato a febbraio e verrà pubblicato nel postumo Live In Boston.

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The Vaudeville Years 1969-1970 – 2 CD Receiver 1998 – ****

Live In Boston – 3 CD Snapper 1999 o come Boston 3 CD Madfish 2017 – ****

Questi due dischi in teoria non sono ufficiali, ma chi se ne frega, visto che sono incisi molto bene, perché consentono di ascoltare i Fleetwood Mac , sia in studio che dal vivo, nel pieno del proprio fulgore rock, quando tra il 1969 e il 1970 rivaleggiavano come potenza di suono con i Led Zeppelin, i Blind Faith e le varie band di Clapton, Hendrix e Jeff Beck, e Peter Green era forse superiore anche a questi grandi chitarristi, prima di consumarsi nella sua dipendenza con l’LSD sfociata in una overdose nel 1970 a Monaco in Germania, che probabilmente ha iniziato a bruciargli lentamente ma inesorabilmente le cellule del proprio cervello (una storia comune a Syd Barrett, Rocky Erickson e molti altri in quegli anni)., quindi ammesso che si trovino ancora, cercateli. Ma prima, nelle ultime fiammate di creatività, tra maggio e giugno del 1970, registra un album di pura improvvisazione come

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The End Of The Game – Reprise 1970 -***1/2

Secondo me un mezzo capolavoro, secondo altri un disco senza capo né coda: ai posteri l’ardua sentenza! Ah già ma siamo noi i posteri, allora dico il mio parere, riascoltando il CD dopo tanti anni. Già all’epoca mi aveva affascinato: registrato in una sola sessione notturna, poi “editata” e spezzettata in una serie di bozzetti sonori, Green è sempre più preda dei suoi problemi con LSD e sbandamenti mistico-religiosi, ma a livello musicale riesce ancora a realizzare un’opera quasi unica, che affianca le sonorità del Jimi Hendrix più sperimentale, con uso  costante del pedale wah-wah a improvvisazioni quasi zappiane, Alex Dmochowski il bassista che veniva dai  Retaliation di Aynsley Dunbar, poi suonerà proprio in un paio di album del baffuto chitarrista americano, Zoot Money, grande pianista e organista britannico è l’altro libero improvvisatore nel disco, Nick Buck, il secondo tastierista al piano elettrico, e Godfrey McLean, esperto batterista che anche lui contribuisce alla riuscita dell’opera, pubblicata nel dicembre del 1970 (e che non ha circolato molto in CD, al di là edizioni giapponesi e versioni economiche, ma al momento si trova abbastanza facilmente).

Sei brani strumentali, poco più di 33 minuti, che si aprono con il festival del wah-wah della iniziale magnifica Bottoms Up, con Dmochowski e McLean che sostengono in modo splendido le scale free form della chitarra di un Peter Green quasi trasfigurato nelle sue improvvisazioni sperimentali e jazzate, poi il basso assume un suono ancora più rotondo, entra un liquido piano elettrico e il lavoro della chitarra si fa ancora più intricato, insomma dovreste ascoltare per capire di cosa parliamo. Timeless Time è un breve brano, poco più di due minuti, lirico, intimo e malinconico più vicino al “solito” Green, mentre Descending Scale è più ascendente che discendente, lavoro frenetico della ritmica, piano e organo di Zoot Money in primo piano, fino all’ingresso perentorio e devastante della chitarra quasi rabbiosa di Peter, tra esplosioni e momenti di quiete, in un brano certo di non facile ascolto, ma siamo nell’anno di Bitches Brew di Miles Davis, la musica ha questa libertà assoluta.

Burnt Foot con la batteria dappertutto ha tocchi quasi tribali e il solito spirito di impronta jazz-rock, genere allora nascente, con spasmi ritmici devastanti, che poi virano di nuovo verso la psichedelia con il suono quasi deadiano e liquido delle improvvisazioni live di Jerry Garcia con la sua band, in un brano come Hidden Depth dove il wah-wah è ancora protagonista assoluto. La conclusiva End Of The Game, tra dissonanze e cacofonie sonore, esplora quasi i limiti dell’uso del wah-wah in un ambito che sembra avere poche parentele con il rock. Fine Del Gioco!

Per giustificare l’arco temporale indicato nel titolo del paragrafo, in effetti nel 1971 non succede molto: nel corso del tour americano di quell’anno, chiamato dai vecchi pards dei Mac, si presenta come Peter Blue per sostituire Jeremy Spencer, anche lui andato fuori di melone e che si unisce ai Children Of God (anche se poi molti anni dopo si parlò pure di abusi su minori), poi suona con il suo ammiratore BB King a Londra nel 1972, ma la malattia mentale e l’uso di droghe hanno la meglio su di lui, e leggenda o verità vogliono che regali tutti i suoi averi, compresa la Gibson del 1959 a Gary Moore, lavori come infermiere e in un kibbuz in Israele, poi si perdono le sue tracce.

Un primo ritorno tra il 1979 e il 1984, vede come miglior album In The Skies, mentre la seconda, più sostanziosa rentrée, è quella con lo Splinter Group a cavallo tra 1997 e 2003, ma a fianco di piccoli sprazzi dell’antico splendore e una ritrovata serenità, musicalmente sembrano più dischi di Nigel Watson, anche se una serie di ottimi musicisti ne garantiscono la qualità. Poi qualche tour ancora come Peter Green & Friends, fino all’inizio di questa decade, al momento non saprei dirvi come se la passa.. Ma tutto quello che ha fatto in quei cinque anni gloriosi basta e avanza.

Bruno Conti

In Attesa Del Cofanetto Inedito Previsto Per L’Autunno Ecco La Storia Dei Fleetwood Mac & Peter Green: Un Binomio “Magico” Dal 1967 Al 1971, Parte IIultima modifica: 2019-06-29T08:59:58+02:00da bruno_conti
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