Un Album Spiazzante, Sicuramente Difficile, Ma Affascinante. The Dream Syndicate – The Universe Inside

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The Dream Syndicate – The Universe Inside – ANTI CD USA 10-04-2020/Download

Andiamo con ordine. Quando nel 2017 i Dream Syndicate avevano pubblicato il loro comeback album How Did I Find Myself Here?, avevo giudicato il disco sorprendente non tanto per il fatto che fosse uscito (dopotutto i nostri si erano riformati come live band nel 2012, ed era dunque lecito aspettarsi un nuovo lavoro prima o poi) quanto per la bontà del contenuto, una miscela vincente di rock’n’roll urbano, punk e psichedelia che riportava i nostri ai fasti degli anni ottanta: Un album che era l’ideale seguito più del mitico Medicine Show che del loro epitaffio Ghost Stories, ed era anche meglio di tutta la discografia solista del leader Steve Wynn, con la possibile eccezione dei notevoli Kerosene Man e Fluorescent. Lo scorso anno era poi uscito These Times, questa volta sì un po’ a sorpresa in quanto non mi aspettavo un seguito così presto https://discoclub.myblog.it/2019/05/19/la-reunion-prosegue-ed-anche-molto-bene-the-dream-syndicate-these-times/ , e di sicuro non di livello quasi comparabile al precedente: il disco era però in parte diverso, con un maggior ricorso all’elettronica pur dosata in maniera intellingente, ed un ruolo decisamente più importante per le tastiere di Chris Cacavas (ex Green On Red), un lavoro cupo e pessimistico sia dal punto di vista dei testi che del sound, e che non aveva mancato di suscitare perplessità ed attirarsi qualche timida critica.

A meno di un anno di distanza il Sindacato del Sogno è di nuovo tra noi con The Universe Inside (che, coronavirus permettendo, uscirà in CD il primo maggio (a parte negli States, dove è in vendita dal 10 aprile, per ora è solo in download), un album ancora più imprevedibile e spiazzante nel quale i nostri in cinque lunghi pezzi ci fanno vedere quello che sono oggi, cioè una band in cui il Paisley Sound degli inizi ha ceduto ormai il passo ad una musica che fonde in maniera solo apparentemente caotica avanguardia europea, jazz-rock, progressive e massicce dosi di psichedelia. Registrato in presa diretta durante una notte di fine anno scorso (80 minuti poi ridotti a 58), The Universe Inside ci mostra che i nostri oggi non concepiscono la loro musica secondo schemi classici, e le cinque tracce presenti non è neppure il caso di chiamarle “canzoni”, bensì un viaggio lisergico ed allucinato nei bassifondi di Los Angeles (o di New York, i bassifondi sono tutti uguali, marci e malati allo stesso modo), un disco che avrebbe potuto concepire uno come Lou Reed se fosse stato ancora tra noi, ed in cui la voce di Wynn non è una guida melodica ma una sorta di strumento aggiunto. In questo lavoro vengono poi fuori le radici avanguardistiche dell’altro chitarrista Jason Victor e quelle jazz della formidabile sezione ritmica formata da Mark Walton e Dennis Duck: infatti l’approccio musicale si potrebbe paragonare a quello che diede vita al leggendario Bitches Brew di Miles Davis, cioè un’unica ed improvvisata session che fu poi leggeremente accorciata in sede di post-produzione.

E’ un po’ come se Wynn e soci ci avessero detto: “Eccoci di nuovo qui: ora vi facciamo vedere che siamo ancora capaci di fare quello che sapevamo fare negli anni ottanta (How Did I Find Myself Here?). Attenzione però, noi non siamo più quelli, ma il nostro suono si sta evolvendo (These Times), ed oggi siamo questi qua (The Universe Inside)”. L’album non mette dunque l’ascoltatore in posizione privilegiata, ma in realtà è come se lo caricasse di botte ed alla fine lo lasciasse a terra malconcio e sanguinante (e magari in overdose), ma se riuscirete ad “entrare” nel disco per il verso giusto, come sono fortunatamente riuscito a fare io, non potrete che rimanerne affascinati. Se la struttura vi può sembrare simile a quella di The Third Mind, esordio omonimo del supergruppo guidato da Dave Alvin, tenete presente che là i brani erano un omaggio al rock psichedelico di fine anni sessanta ed il suono decisamente più accomodante https://discoclub.myblog.it/2020/03/06/un-dave-alvin-diverso-ma-sempre-notevole-the-third-mind/ : qui di accomodante non c’è assolutamente nulla.

l pezzo più lungo, The Regulator, è messo proprio all’inizio, più di venti minuti che partono con un ritmo sostenuto, una chitarra per ognuno dei due lati dello stereo che vanno ciascuna per conto suo riuscendo però a non perdere il filo con il tema musicale di base (“melodia” mi sembra una parola grossa), con l’aggiunta dei riff di un sitar elettrico suonato da Stephen McCarthy dei Long Ryders; poi una chitarra parte per la tangente con suoni distorti, così come distorta è la voce di Wynn (sembra più Leonard Cohen all’inizio ed Iggy Pop alla fine), mentre Cacavas comincia a farsi largo con un piano elettrico ed un synth usato in maniera “giusta”, e spuntano anche un’armonica, il sax di Marcus Tenney suonato proprio alla maniera di Miles Davis (so che Miles era un trombettista, ma sto parlando dello stile) ed un coro quasi onirico, fino all’esplosione sonora finale. Musica in assoluta libertà, di chiaro impianto psycho-jazz (se mi passate la definizione), ma decisamente intrigante. In confronto la seguente The Longing (“solo” sette minuti e mezzo) è una canzonetta: con il suo ritmo cadenzato ed i riff chitarristici lancinanti alla Neil Young, il brano è un rock psichedelico e notturno che rimanda ai Dream Syndicate classici, con un motivo di fondo abbastanza definito che mi ricorda un po’ anche il David Bowie più sperimentale e che si potrebbe anche definire piacevole (almeno fino al quinto minuto, dato che il finale è puro trip lisergico).

Apropos Of Nothing (nove minuti e mezzo) è un potente rock’n’roll elettrico alla maniera dei nostri, leggermente più disteso dei precedenti ma sempre con un’aura psichedelica, con una steel in sottofondo che cerca di ammorbidire il suono: Steve canta nel suo tipico stile ed in leggero contrasto con l’accompagnamento strumentale, ed il tutto risulta anche gradevole (nel senso più “perverso” del termine) e meno difficile del resto, nonostante anche qui la parte centrale sembri la colonna sonora di un “viaggio” a base di allucinogeni, con tanto di accelerazione ritmica finale. Lo strumentale Dusting Off The Rust, altri dieci minuti, inizia in maniera obliqua con le chitarre decisamente “avant-garde” ed i suoni elettronici di Cacavas che prendono il sopravvento, mentre il sax tenta di riportare il tutto ad una dimensione terrena riuscendoci a poco a poco visto che il sound si fa più morbido con il passare del tempo, ed il brano diventa quasi fruibile pur rimanendo nei binari dell’improvvisazione “free”; chiusura con gli undici minuti di The Slowest Rendition, un pezzo che parte lento, etereo e dissonante, con Wynn che interviene in maniera discorsiva con voce quasi narrante, poi entra una ritmica ossessiva dai suoni sintetici trasformando la canzone nell’ideale soundtrack di un film sperimentale di ambientazione post-apocalittica, per quello che è l’episodio più ostico di The Universe Inside.

Un disco non facile quindi, che necessita di più ascolti per essere assorbito a dovere: una cosa è sicura, e cioè che i Dream Syndicate non sono certo una band che si adagia sugli allori.

Marco Verdi

 

Un Dave Alvin “Diverso” Ma Sempre Notevole. The Third Mind

the third mind

The Third Mind – The Third Mind – Yep Roc CD

Penso che non ci siano dubbi sul fatto che Dave Alvin sia uno dei campioni mondiali del genere roots rock/Americana, e che appartenga alla ristretta cerchia di musicisti che non hanno mai sbagliato un disco, sia come leader dei Blasters insieme al fratello Phil che come solista. Questa volta però il rocker californiano ha voluto fare qualcosa di diverso, andando a ricreare le atmosfere psichedeliche del periodo 1967-69: il risultato è The Third Mind, che oltre ad essere il titolo dell’album è anche il nome del supergruppo dietro il quale Dave ha deciso di “nascondersi” (nome ispirato da un libro scritto da William S. Burroughs, famoso artista della Beat Generation, insieme a Brion Gysin), un quartetto in cui l’ex Blasters è coadiuvato dall’altro chitarrista David Immergluck, noto per i suoi trascorsi con Camper Van Beethoven, Counting Crows e John Hiatt Band (e più di recente con James Maddock), dal bassista Victor Krummenacher, anch’egli dei Camper Van Beethoven, e dal batterista Michael Jerome (Richard Thompson, John Cale, Blind Boys Of Alabama).

I quattro si sono dati appuntamento in uno studio in Connecticut e hanno registrato sei brani (cinque cover ed un originale) usando un approccio, a detta di Alvin, alla Miles Davis (nel periodo in cui sperimentava con il suo produttore Teo Macero), cioè scegliendo una tonalità di partenza e suonando in presa diretta e senza seguire alcun spartito o vincolo musicale. Il risultato è un eccellente disco che ci riporta idealmente indietro di cinquanta anni, quando San Francisco era la capitale mondiale della musica rock e gli acid test a base di LSD e quant’altro erano all’ordine del giorno, e l’elenco dei musicisti ai quali l’album è dedicato è emblematico: Gary Duncan, John Cipollina, Roky Erickson e Mike Bloomfield. Grande musica, con le chitarre dei due leader che si scambiano licks e assoli come se piovesse e la sezione ritmica che li asseconda in maniera solida e potente: un suono che non ti aspetti da uno come Alvin (ma anche Immergluck si muove solitamente in territori “roots”), ma il disco risulta comunque riuscito, coinvolgente e per nulla ostico. L’iniziale Journey In Satchidananda (brano strumentale del 1970 di Alice Coltrane, musicista di estrazione jazz moglie del grande John Coltrane e scomparsa nel 2007) parte piano, con i nostri che sembrano accordare gli strumenti e lanciano vibrazioni psichedeliche alla Grateful Dead, poi il brano prende corpo a poco a poco ma sempre in modo soffuso: basso e batteria procedono con fare attendista, ma i due chitarristi iniziano a fendere l’aria con svisate elettriche notevoli, con Dave che si produce in un lungo e lirico assolo subito doppiato da uno acidissimo di Immergluck.

The Dolphins (Fred Neil) è nettamente più distesa e rilassata, con Alvin che ci fa sentire la sua ugola baritonale: il brano, splendido, mantiene l’anima folk originale con l’aggiunta però della chitarra dell’ex Blasters, che ci regala momenti formidabili di pura psichedelia. La breve, meno di tre minuti, Claudia Cardinale è l’unico pezzo originale, una canzone dedicata ad un’icona della bellezza degli anni sessanta (Bob Dylan fece inserire addirittura una sua foto nella copertina interna di Blonde On Blonde) che è uno strumentale per chitarra dall’andamento ipnotico ma nello stesso tempo profondamente melodioso e godibile, con un finale in deciso crescendo. Il CD arriva alla sua parte cruciale con i nove minuti della nota Morning Dew, folk song di Bonnie Dobson ma resa famosa dai Grateful Dead, dal testo post-apocalittico che mette i brividi ancora oggi: la versione dei nostri è strepitosa (la voce femminile è di Jesse Sykes, ospite speciale solo in questo brano), con la base che rimane folk, il tempo lento e Dave che fornisce la parte rock con la sua magica chitarra, ed un crescendo strumentale fantastico ed emozionante https://www.youtube.com/watch?v=sOzHXb-u92s . Niente psichedelia, solo grande musica rock.

Ma ecco il centerpiece del disco, cioè una sensazionale rilettura di sedici minuti del capolavoro della Butterfield Blues Band East-West (l’originale durava tre minuti di meno), un tour de force incredibile in cui ascoltiamo un’esplosione di rock, psichedelia, blues e musica orientale in un tripudio di chitarre (c’è anche un’armonica, suonata da Jack Rudy) e con la sezione ritmica che pare un treno in corsa: una jam fluidissima nella quale i nostri mostrano di poter suonare qualsiasi cosa riuscendo sempre a farci godere come ricci. Il CD si chiude con una versione potente, roccata e coinvolgente di Reverberation, un classico dei 13th Floor Elevators di Roky Erickson, forse il brano più diretto ed immediato dell’album. Questo per quanto riguarda il disco “normale”, ma la prima tiratura (che credo si trovi ancora) presenta due bonus tracks, ovvero due versioni alternate di East-West: la prima è un remix ad opera del noto produttore Tchad Blake, mentre la seconda è una take differente e forse ancora più roccata e trascinante. Un gran bell’esordio questo dei Third Mind, un album da consigliare non solo ai fan di Dave Alvin: c’è solo da sperare che non si tratti di un evento estemporaneo.

Marco Verdi