Non Solo Un Gregario, Ma Uno Dei Migliori Chitarristi Su Piazza. Kirk Fletcher – My Blues Pathway

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Kirk Fletcher – My Blues Pathway – Cleopatra Blues

Kirk Fletcher in ambito blues non è il primo pirla che passa per strada, al contrario si tratta di un esperto musicista cresciuto a pane e West Coast Blues nella natia California, poi ha suonato agli esordi nella Hollywood Fats Band, si è creato un nome suonando con Kim Wilson, che poi lo ha voluto nei Fabulous Thunderbirds, e anche con un altro grande armonicista come Charlie Musselwhite (e Fletcher è pure all’occorrenza armonicista, oltre che chitarrista di grande spessore https://www.youtube.com/watch?v=wnBx4CNSvbc ); nel suo secondo CD solista del 2003 Shades Of Blue come ospiti c’erano Janiva Magness, Finis Tasby e lo stesso Wilson, l’album del 2010 My Turn era prodotto da Michael Landau, e il nostro amico Kirk ha suonato anche nei Mannish Boys, ma per portare a casa la pagnotta pure nei dischi di Eros Ramazzotti (ebbene sì), e in seguito è stato per alcuni anni nella touring band di Joe Bonamassa, dove svolgeva le funzioni di secondo chitarrista, anche negli strepitosi Live a Red Rocks e Greek Theater.

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Ha pubblicato un disco dal vivo nel 2014 e un altro in studio nel 2018, entrambi auto prodotti e scarsamente reperibili, mentre questo My Blues Pathway esce per i miei amici della Cleopatra che per l’occasione, lo ammetto, hanno fatto un ottimo lavoro. Accompagnato da Travis Carlton al basso, Jeff Babko alle tastiere, e con Lemar Carter e David Kida che si alternano alla batteria, con il vecchio pard di Robert Cray Richard Cousins che firma due brani con lui, e Joe Sublett al sax e Mark Pender alla tromba, sezione fiati aggiunta. Nel disco troviamo dell’ottimo blues, anche “contemporaneo”, come nella iniziale melliflua Ain’t No Cure For The Downhearted, che ricorda molto il citato Robert Cray, con Fletcher che fa cantare la sua solista, e si dimostra, se mi passate la ripetizione, cantante più che adeguato, non al livello di Cray, ma con un bel timbro vocale https://www.youtube.com/watch?v=r80dOwqg7AA , come ribadisce nel funky-blues fiatistico con retrogusto soul di No Place To Go, scritta con Cousins, Love Is More Than A Word, l’altra firmata con Cousins, è una deep soul ballad tra Stax e Motown, con fiati e organo “scivolante”, e la solista che cesella un assolo finissimo https://www.youtube.com/watch?v=EqCPZewZix4 , sempre a proposito di Stax Struggle For Grace è un super blues con uso fiati alla Albert King, chitarra “friccicarella” e grande tecnica e feeling in mostra negli assoli, insomma siamo fronte ad uno di “quelli bravi” https://www.youtube.com/watch?v=ECQ6VKbByoA .

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I’d Rather Fight Than Switch è un shuffle del sassofonista A.C. Reed, classico Chicago Blues con la chitarra pungente di Fletcher sempre in bella evidenza, mentre i fiati decorano sullo sfondo https://www.youtube.com/watch?v=I_6Ox3548Dk , Heart So Heavy è uno slow di quelli duri e puri, di grande fascino ancora una volta, con la solista che viaggia con estrema confidenza tra i temi classici delle 12 battute https://www.youtube.com/watch?v=-vxW80vPgQA , ribaditi nella cover di Fatteming Frogs For Snakes, un brano di Sonny Boy Williamson dove l’armonica viene sostituita dalla chitarra come strumento guida, con risultati sorprendenti, prima di tornare con Place In This World alle atmosfere ricche di elementi funky-blues alla Cray, di nuovo con la fluida solista di Fletcher a disegnare linee di grande raffinatezza nel suo incedere e non manca neppure un classico brano strumentale old school come D Is For Denny, che ricorda certe cose alla Booker T & The Mg’s https://www.youtube.com/watch?v=xjF_OvGEak0 , mentre la chiusura è affidata al Delta Blues acustico di una vivida ed intensa Life Gave Me A Dirty Deal, con Charlie Musselwhite all’armonica e Josh Smith alla resonator guitar. Fletcher quindi si conferma, o si rivela per chi non lo conoscesse, bluesman di vaglia e uno dei migliori chitarristi su piazza, non solo un gregario. Consigliato.

Bruno Conti

Più Di 150 anni In Due Per Rendere Omaggio A Un Secolo Di Blues. Elvin Bishop & Charlie Musselwhite – 100 Years Of Blues

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Elvin Bishop & Charlie Musselwhite – 100 Years Of Blues – Alligator Records/Ird

Ultimamente entrambi i protagonisti di questo album stanno vivendo un ottimo periodo di creatività: Elvin Bishop, con una serie di ottimi album per la Alligator con il suo Big Fun Trio https://discoclub.myblog.it/2018/08/31/sono-veramente-bravi-tutti-elvin-bishops-big-fun-trio-something-smells-funky-round-here/ , quello del 2017 candidato anche ai Grammy come miglior disco di Blues Tradizionale, e anche Charlie Musselwhite, sia con una serie di album per etichette diverse, sia soprattutto con innumerevoli collaborazioni, sta tenendo alto il vessillo delle 12 battute. Di cui, per rovesciare il solito paradigma non “politically correct” (chissà perché non si può più dire musica nera?), ne sono sempre stati tra i migliori rappresentanti tra i musicisti “bianchi”. Partendo da California e Mississippi e passando entrambi a lungo per Chicago, sono diventati due veri paladini del blues elettrico, e Bishop per diversi anche anche del rock e del southern.

Come ricordano anche le note di copertina, pur avendo creato nella loro lunga carriera all’incirca una sessantina di album complessivamente, i due non avevano mai registrato un disco insieme (anche se probabilmente dal vivo sarà capitato diverse volte), comunque, come era quasi inevitabile, l’alchimia ha funzionato perfettamente, e questo 100 Years Of Blues, registrato ai Greaseland Studios di San Jose, CA, di Kid Andersen, che ha curato anche la produzione, oltre a suonare, stranamente, il contrabbasso in alcuni brani. Per il resto hanno fatto tutto Elvin Bishop, chitarra e voce, Charlie Musselwhite, armonica, e il fedele pard di Bishop negli ultimi anni Bob Welsh, che si è diviso tra chitarra e piano, in un disco che conferma questo ritorno ad un blues tradizonale di grande intensità, che ha caratterizzato per esempio anche le recenti prove di Bobby Rush e dei Pretty Things, tutti rigorosamente, ma creativamente, tornati alla musica che li aveva ispirati ad inizio carriera, e con risultati eccellenti. Entrambi non sono mai stati dei grandi cantanti, e Musselwhite addirittura per l’occasione ne canta solo una, mentre Bishop, con la sua voce vissuta e temprata da mille avventure, ci regala per l’occasione una delle sue migliori performance degli ultimi anni, come dimostra subito con una gagliarda e spigliata interpretazione nella propria Birds Of A Feather, un esempio di quanto viene offerto anche nel resto del disco.

Non la solita liturgia di molti album di blues eseguiti dai cosiddetti “tradizionalisti”, che spesso sono anche dischi piuttosto noiosi e ripetitivi, senza quella scintilla che permette di rivitalizzare una musica che per definizione vive appunto di tradizione, ma ha bisogno di queste botte di ispirazione per creare nuovo interesse in questo genere, di cui, come forse avrete notato, mi occupo spesso e volentieri nelle sue varie connotazioni, fine della concione. Quindi, sintetizzando (ogni tanto mi “scappa” la mano sulla tastiera, e mi dilungo, ma secondo me ci sta), Birds Of A Feather è un omaggio ai blues lovers, come dice il testo, offerto attraverso il basso pulsante di Andersen, le chitarre pungenti di Bishop e Welsh, qualche percussione a colorare il suono, ed una grinta ed energia ammirevoli, con Musselwhite che punteggia il tutto con il soffio della sua armonica (che leggenda vuole sia quella che ispirò Dan Akroyd per il suo personaggio Elwood Blues, nei Blues Brothers, mentre per Jake Joliet Belushi si ispirò a Curtis Salgado). Stranamente nell’album ci sono nove composizioni nuove e solo tre cover, una è quella di West Helena Blues di Roosevel Sykes, un brano non notissimo, che è però è l’epitome dello slow country blues, con Welsh al piano, Bishop alla chitarra elettrica e alla voce (che per smentirmi è viva e pimpante), mentre Musselwhite è sempre magistrale alla mouth harp, What The The Hell?, di nuovo di Elvin, è un classico blues elettrico Chicago Style, con la solista di Bishop in bella evidenza, spalleggiata dall’armonica di Charlie, Musselwhite che sale al proscenio con la propria Good Times, l’unico brano cantato da lui, che passa per l’occasione alla slide, suonata con grande perizia, mentre Andersen al contrabbasso e Welsh al piano contribuiscono al solido sound del pezzo.

Old School, come da titolo, è un blues di quelli tosti, se gli aggiungessimo una sezione ritmica alle spalle, avrebbe fatto un figurone nel repertorio della Butterfield Blues Band, mentre If I Should Have Bad Luck, a firma Musselwhite, è un altro ottimo esempio di 12 battute classiche, con Bishop molto efficace alla solista, come pure la cover di Midnight Hour Blues, un pezzo lento ed intenso dal repertorio di Leroy Carr, cantato con passione da Bishop, che poi lascia spazio all’amico Charlie per Blues, Why Do You Worry Me, un ottimo shuffle dove i tre solisti, Musselwhite all’armonica, Bishop alla solista e Welsh al piano, si dividono equamente gli spazi. Molto bello anche lo strumentale South Side Slide, dove è Elvin a salire in cattedra con un bottleneck “cattivo” al quale Charlie risponde colpo su colpo, per poi passare alla guida del combo per la propria Blues For Yesterday, un altro bel lento con uso slide di Elvin, ben coadiuvato dall’armonica di Musselwhite. Le due tracce conclusive sono Help Me, il super classico di Sonny Boy Williamson, ancora con Bishop, Musselwhite a e Welsh a menare le danze ai rispettivi strumenti in una esuberante versione, e la title track 100 Years Of Blues, firmata in coppia dai due titolari, che, a suggello di questo eccellente lavoro, ci raccontano con forza, vigore e orgoglio i loro cento anni complessivi vissuti a spargere il verbo di questa musica senza tempo.

Bruno Conti

Bellissimo Album D’Esordio (Con 50 Anni Di Ritardo) Per Queste Quattro Arzille “Carampane”! Ace Of Cups – Ace Of Cups

ace of cups

Ace Of Cups – Ace Of Cups – High Moon 2CD

Questo disco in realtà è uscito a Novembre 2018, ma, un po’ per colpa mia che l’ho scoperto in ritardo, un po’ per il fatto che ho rimandato la recensione, ne parlo soltanto oggi, anche perché merita davvero e non mi sembrava giusto bypassarlo. La storia delle Ace Of Cups, gruppo tutto al femminile originario di San Francisco, è più simile ad una favola a lieto fine. Formatesi nel 1967, quindi in piena Summer Of Love, le AOC avevano subito fatto parlare di loro un po’ per il fatto che all’epoca non si vedeva tutti i giorni una band formata solo da ragazze, ma soprattutto per la loro bravura on stage, al punto che un certo Jimi Hendrix le notò e le volle come opening act per aprire un suo concerto al Golden Gate Park. Il quintetto (Denise Kaufman, chitarra ritmica, Mary Gannon, basso, Marla Hunt, organo, Diane Vitalich, batteria, Mary Simpson, chitarra solista, e tutte e cinque al canto) venne poi preso in consegna da Ron Polte, ex manager tra gli altri dei Quicksilver Messenger Service, che iniziò a guardarsi intorno per cercare loro un contratto discografico, ma ricevette solo offerte a suo giudizio non adeguate. Nel frattempo gli anni passavano, e le nostre si limitavano a tenere dei concerti e ad incidere qualche demo di canzoni scritte da loro, ma nel frattempo si erano sposate ed avevano fatto figli.

Il periodo del Flower Power passò, ed un disco delle Ace Of Cups diventava sempre meno probabile, anche perché pubblicare un album significava dover andare in tour, e ciò non era possibile per cinque madri di famiglia. Così la band si sciolse e divenne una sorta di leggenda metropolitana, ma le ragazze (che uscirono dal mondo della musica) si tennero in contatto fino ai giorni nostri: la svolta avvenne quando il boss della label indipendente High Noon le vide esibirsi nel 2011 al concerto per i 75 anni di Wavy Gravy, e ne fu così colpito che le mise sotto contratto per registrare finalmente quel disco di debutto che avrebbero dovuto fare negli anni sessanta (nel 2003 la Ace aveva fatto uscire It’s Bad For You But Buy It!, una collezione di demo e brani dal vivo delle AOC incisi in gioventù, un disco che passò quasi inosservato). Il resto è storia recente: nel 2016 le ormai non più ragazze (ridotte a quartetto, la Hunt ha preferito non partecipare alla reunion) si sono ritrovate in studio con circa cento canzoni, tra brani scritti nei sixties, pezzi abbozzati e da finire sul momento e brani nuovi, e hanno registrato non uno ma ben due album doppi (il secondo dovrebbe uscire nel corso del 2019) sotto la guida del produttore Dan Shea, uno con un curriculum a mio parere non proprio immacolato (Mariah Carey, Jennifer Lopez, Celine Dion), ma che qui ha fatto un lavoro egregio.

Ed Ace Of Cups si rivela essere un disco splendido, sorprendente e per nulla nostalgico: le quattro amiche non sono ex musiciste stanche che vogliono rivivere il bel tempo che fu, ma quattro tostissime rockers che hanno ancora una grinta ed una voglia di spaccare il mondo invidiabile. Non è facile trovare un doppio album bello dalla prima all’ultima canzone, ma devo dire che questo lavoro omonimo delle AOC è la classica eccezione: canzoni belle, intense, cantate con voci giovanili e suonate con grande forza; è chiaro che c’è più di un accenno agli anni sessanta (la maggior parte dei brani risale a quell’epoca), ma il disco non è affatto monotematico in quanto offre una stimolante miscela di rock, folk, country, blues ed anche un tocco di psichedelia e garage rock. Dulcis in fundo, abbiamo una serie impressionante di ospiti di altissimo livello, che elevano ancora di più un disco già bello di suo. La divisione degli strumenti è quella del gruppo originale, con la differenza che la Gannon qui si limita a cantare e battere le mani, ed il basso lo suona la Kaufman. Se pensate a quattro tranquille signore vi basti ascoltare l’iniziale Feel Good, una rock song potente ed elettrica, dal drumming secco e un riff di chitarra bello tosto, ma con una melodia decisamente accattivante ed un ritornello di presa immediata: abbiamo anche i primi ospiti, nientemeno che Jack Casady (ex Jefferson Airplane e Hot Tuna) al basso ed il grande organista Pete Sears.

Pretty Boy ha elementi pop, quasi beat (ma il suono è indubbiamente attuale), un brano diretto che paga tributo alle band inglesi, dai Beatles in giù; l’intro di organo di Fantasy 1&4 è decisamente sixties, ed il pezzo stesso è una deliziosa e fresca pop song che non dimostra affatto 50 anni, mentre Circles è puro rock’n’roll, ritmato, coinvolgente e cantato con grinta, che aggiunge anche un assolo torcibudella da parte di Barry Melton, ex Country Joe & The Fish (anzi, The Fish era proprio lui). We Can’t Go Back Again è una suadente ballata sostenuta da un bellissimo refrain e da un suono molto classico, da vera rock band, ed un bel assolo di organo da parte di Sears, preludio a uno degli highlights del doppio, cioè The Well, una canzone scritta dalle quattro ragazze insieme ma affidata alla voce solista di Bob Weir (che suona anche le chitarre), ed il pezzo è un coinvolgente brano di pura Americana con tanto di banjo e strumentazione roots (e qui all’organo c’è il leggendario Melvin Seals, quindi due ex compagni di Jerry Garcia in un colpo solo). Taste Of One è uno scintillante folk-rock con splendido assolo di slide della Simpson ed ancora reminiscenze pop (tipo la prima Marianne Faithfull), mentre Mama’s Love è a sorpresa un blues tosto, grintoso e perfettamente credibile, impreziosito da due mostri sacri come Charlie Musselwhite all’armonica e Jorma Kaukonen alla lead guitar. Ritroviamo Jorma anche nella classica rock ballad Simplicity (con un inizio un po’ alla Stairway To Heaven), che parte lenta ma dal secondo minuto in poi aumenta di ritmo, fino ad uno strepitoso duello chitarristico tra Kaukonen e la Simpson; il primo CD si chiude con la sognante Feel It In The Air, altro slow di stampo rock con un motivo di prima scelta.

Il secondo dischetto parte con Stones, un sanguigno e gagliardo rock’n’roll che dimostra ancora che nonostante l’età le “ragazze” hanno grinta da vendere, al punto da sembrare una garage band under 30. Life In Your Hands vede alla voce solista addirittura Taj Mahal, per un blues lento di stampo rurale, eseguito quasi a cappella (c’è solo un basso e qualche percussione) e con le voci delle AOC a dare il tocco gospel. Il medley Macushla/Thielina è una suggestiva folk song dal sapore irlandese, con tanto di uilleann pipes e whistle (ed anche un coro di bambini di cui avrei fatto a meno), As The Rain è scritta e cantata dall’attore Peter Coyote, che mostra di avere una voce perfetta per il brano, una splendida ballata tra folk, country ed Irlanda, tra le migliori del CD. Dopo un breve interludio per voci e banjo intitolato Daydreamin’ e cantato ancora da Mahal, abbiamo On The Road, strepitosa country song cantata a più voci e dalla melodia coinvolgente, l’ottimo rock-blues elettrico Pepper In The Pot, con la voce principale di Buffy Sainte-Marie e la chitarra solista di Steve Kimock, e la lenta e distesa Indian Summer, ancora con strumentazione roots ed una leggera orchestrazione alle spalle. Chiusura con Grandma’s Hands, altro godibile e ritmato pezzo tra blues e gospel, il medley The Hermit/The Flame Still Burns/Gold & Green/Living In The Country, suggestivo esempio di vintage rock di gran classe, con una deliziosa atmosfera sixties ed un intermezzo di musica indiana (e in The Hermit c’è anche la voce di David Freiberg, ex Quicksilver e Jefferson Starship), per finire con la breve e corale Music, eseguita a cappella.

Mi dispiace non poter tornare indietro nel tempo e poter riscrivere le classifiche del 2018, dato che questo “esordio” delle Ace Of Cups avrebbe occupato posizioni molto alte: sarà per il secondo volume, che spero arrivi a breve.

Marco Verdi

Tanto Ottimo Blues, Tutto All’Interno Della Famiglia. Lurrie Bell & The Bell Dynasty – Tribute To Carey Bell

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Lurrie Bell & The Bell Dynasty – Tribute To Carey Bell – Delmark Records 

Carey Bell, l’oggetto di questo tributo, esordiva come solista all’incirca 50 anni fa, nel 1969, con il suo primo album da titolare, Carey Bell’s Blues Harp, su etichetta Delmark, dopo una proficua carriera come sideman, soprattutto con Eddie Taylor, ed apparendo negli anni successivi anche con la Muddy Waters Band e con il gruppo di Willie Dixon, oltre a registrare un disco in coppia con il suo maestro dell’armonica in Big Walter Horton with Carey Bell. Questa tradizione dei dischi registrati con altri grandi praticanti del “Mississippi saxophone” è proseguita  ad esempio in Harp Attack del 1990, registrato insieme a James Cotton, Junior Wells e Billy Branch, senza dimenticare comunque una propria carriera solista, ricca di parecchi dischi, in alcuni dei quali sono apparsi anche i suoi figli: prima di tutti il maggiore, Lurrie Bell, grande chitarrista, che già nel 1977, a 18 anni, suonava in un disco del babbo, Heartaches And Pain,  e poi negli anni a seguire anche gli altri, Tyson Bell, al basso, Steve Bell all’armonica e infine il più giovane James Bell, che già suonava la batteria nel gruppo di famiglia, quando non lo si poteva neppure scorgere dietro al  drum kit, vista la sua giovane età.

E come Carey & Lurrie Bell Dynasty avevano inciso anche con il padre: attualmente Steve suona nella band di John Primer, Tyson con Shawn Holt e James, in questo tributo si cimenta anche come cantante in alcuni brani. Nel CD appaiono alcuni ospiti di pregio come Charlie Musselwhite e Billy Branch, oltre a Eddie Taylor che suona la seconda chitarra in quasi tutte le canzoni, e l’ottimo Sumito “Ariyo” Ariyoshi al piano in tre tracce; ovviamente il risultato, è non poteva essere diversamente, è un eccellente disco di puro Chicago Blues. Ci sono brani di Muddy Waters, come l’iniziale Gone To Main Street, cantato con voce rauca e vissuta da Lurrie, che ormai si avvia verso i 60 anni anche lui, ottimo chitarrista, considerato uno degli ultimi tradizionalisti del suo strumento nell’ambito del blues urbano, ma suona ottimamente anche Steve Bell, degno erede di Carey all’armonica. Come conferma nello scandito slow blues Hard Hearted Woman di Walter Horton, mentre in I Got To Go si rende omaggio, in un duetto con Charlie Musselwhite, all’altro Walter del blues, Jacobs, detto anche Little Walter, in un velocissimo shuffle preso a 300 all’ora. James Bell, che ha un gran voce, migliore del fratello, canta un suo brano Keep Your Eyes On The Prize, un altro blues  lento di grande intensità dove Lurrie si può dedicare solo alla solista, prima di rientrare nei ranghi in una pimpante  versione di Tomorrow Night di Amos Blakemore alias Junior Wells, a tutta armonica.

Eccellente poi la lunga So Hard To Leave You Alone, scritta da Billy Branch, che canta alla grande questo struggente slow, dove ad affiancarlo all’armonica c’è un notevole lavoro di Ariyoshi al piano, grande brano, forse il migliore dell’album, che prosegue comunque alla grande con un’altra traccia a firma Wells , What My Momma Told Me, cantata nuovamente da James, altro Chicago Blues di squisita fattura, prima che i quattro fratelli rendano omaggio a Carey con un brano scritto proprio dal padre, un altro lento, che è uno dei tempi privilegiati in questo album anche in Woman Get In Trouble. Billy Branch ha scritto per l’occasione Carey Bell Was A Friend Of Mine e oltre a cantarla, duetta all’armonica con il bravo Steve in una serie di assoli alternati, sempre ben sostenuti da Ariyoshi (che anche è il pianista di Branch) e Lurrie alla chitarra. Ancora James voce solista in un altro pezzo di Little Walter una funkeggiante Break It Up; rimangono ancora la versione della Bell Dynasty del brano più celebre del padre Heartaches And Pain, altro lento di quelli torridi e vissuti, molto alla Muddy Waters e la conclusiva When I Get Drunk, una canzone quasi swingata di Eddie Vinson che conclude degnamente uno dei rari dischi finalmente convincenti di blues elettrico tradizionale, non paludato e scontato, ma ricco e vissuto.

Bruno Conti

 

La “Strana” Coppia Ci Riprova…E Fa Centro! Ben Harper & Charlie Musselwhite – No Mercy In This Land

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Ben Harper & Charlie Musselwhite – No Mercy In This Land – Anti CD

Ho sempre ritenuto Ben Harper potenzialmente un ottimo artista, ma che non aveva mai espresso pienamente le sue qualità, a cominciare dalla mancata conferma di quanto di buono aveva lasciato intravedere con il suo esordio del 1994 Welcome To The Cruel World. Certo, Ben ha all’attivo diversi dischi di buon livello (i miei preferiti sono Lifeline, l’ottimo There Will Be A Light, inciso con i Blind Boys Of Alabama, e Live From Mars, inciso dal vivo), ma mi ha sempre dato la sensazione di non essere in grado di fare l’ultimo passo, il salto giusto che lo avrebbe fatto passare nella categoria degli artisti di cui fidarsi a scatola chiusa. Il talento c’è sempre stato, ma non è mai stato supportato dalla continuità nelle prestazioni, ed ultimamente si notava nei suoi dischi anche una certa stanchezza compositiva. Anche Get Up!, l’album inciso insieme al grande bluesman Charlie Musselwhite nel 2013, risentiva di questi problemi: un buon disco, ma non un grande disco, con il suono giusto ma non sempre con canzoni all’altezza. Oggi i due ci riprovano, e devo dire che, nella sua estrema sintesi (dura solo 35 minuti), No Mercy In This Land è un album nettamente più riuscito del suo predecessore, e concorre addirittura per essere eletto come uno dei più belli in assoluto di Harper.

Il suono è ancora migliore che in Get Up!, la produzione, nelle mani di Ben stesso insieme ai musicisti che lo accompagnano (Jason Mozersky alla chitarra, Jesse Ingalls al basso, piano ed organo, e Jimmy Paxson alla batteria), è perfetta, ma quello che marca la netta differenza è la qualità delle canzoni (tutte originali). No Mercy In This Land è un disco serio e fatto con cognizione di causa, decisamente blues, molto di più di qualunque cosa Ben avesse fatto finora: Harper ha sempre avuto il blues nel sangue, ma nemmeno Get Up! era così spostato verso la musica del diavolo, e se ci mettiamo il netto miglioramento della qualità dei brani capirete il perché del mio giudizio. Ho lasciato volutamente per ultima la figura di Musselwhite, che non interviene né in veste di songwriter né in quella di cantante (tranne che in un caso), e si “limita” a suonare l’armonica, ma sbagliate se pensate ad un ruolo marginale: infatti la sua presenza è di grande ispirazione per Harper, e poi stiamo parlando di uno dei re assoluti dell’armonica blues, uno che è capace di trasformare una canzone solo soffiando nel suo strumento, diventando una colonna portante nell’economia sonora di qualsiasi disco lo veda protagonista. Dieci canzoni all’insegna del blues più profondo, con Ben e Charlie che si divertono con i rispettivi strumenti (Harper è anche un valido chitarrista), a partire dall’iniziale When I Go, che in avvio sembra una messa cantata, ma poi entra la chitarra di Harper, con l’armonica di Musselwhite che dona poche ma significative pennellate ed una sezione ritmica decisamente pressante, per un bluesaccio cadenzato e ad alto tasso di intensità.

Bad Habits è puro blues Chicago-style, nella tradizione dei grandi: ritmo saltellante, bella voce e chitarra ancora meglio, con la ciliegina di Charlie che riffa alla grande col suo strumento. Love And Trust, dedicata a Mavis Staples, è un blues acustico ruspante e diretto, con Charlie indispensabile nell’economia del suono ed un tocco soul che non guasta; The Bottle Wins Again è uno splendido e sanguigno boogie dal riff di armonica insistito ed un’ottima prestazione da parte della band, con Ben ovviamente in testa, ed è tra le più coinvolgenti del CD, mentre Found The One è un vivace pezzo dal ritmo spezzettato ed un grandissimo Musselwhite. When Love Is Not Enough alza momentaneamente il piede dal blues per offrirci uno slow dal sapore soul, davvero intenso (ed è in brani come questo che si nota la crescita di Harper come autore); Trust You To Dig My Grave è un folk-blues acustico d’altri tempi, alla Mississippi John Hurt, mentre la title track è un blues purissimo ridotto all’osso, con le due voci (qui infatti canta anche Charlie) che si intendono alla grande ed anche l’intreccio tra chitarre ed armonica è perfetto. Chiudono un disco eccellente la tonica e trascinante Movin’ On, altro boogie ad alta temperatura, e Nothing At All, evocativa ballata soul che profuma di bei tempi andati.

Finalmente un gran bel disco da parte di Ben Harper, anche se c’è da dire che senza la presenza di Charlie Musselwhite il risultato non sarebbe stato lo stesso.

Marco Verdi

Voci E Dischi Così Non Se Ne Fanno Quasi Più! Janiva Magness – Love Is An Army

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Janiva Magness – Love Is An Army – Blue Elan Records/Ird

Anno dopo anno, disco dopo disco, Janiva Magness si conferma una delle voci più belle del panorama musicale americano: vogliamo definire il suo genere blues, soul, rock, country, R&B, tutti elementi presenti, ma quello che spicca sempre nei suoi album è  comunque la voce, un timbro, un fraseggio ed una espressività che non hanno nulla da invidiare alle più grandi, da Mavis Staples a Ann Peebles, tra quelle ancora in attività, ma anche le grandi del passato, soprattutto le “voci nere” con cui la nostra amica condivide quel tocco magico che divide le prime della classe dalle scartine. In questo Love Is An Army, il suo 14° album, la bravissima Janiva fonde ancora una volta in maniera magistrale (grazie anche al suo collaboratore storico Dave Darling), le due anime di Nashville e Memphis, il cuore della migliore musica americana, e lo fa senza sforzo apparente, con una classe e una forza espressiva che per certi versi richiama quella di Delbert McClinton, una sorta di controparte maschile della Magness, o viceversa, presente a duettare con lei in un brano e da tantissimi anni anche lui portatore sano di buona musica, quella più genuina e non adulterata, arricchita da infinite perle sonore che parlano di amore, speranza, protesta, con una resilienza acquisita in lunghi anni on the road, non dimenticando mai gli anni bui degli abusi, degli abbandoni, dell’alcolismo e delle droghe, una vita poi riscattata in modo splendido con una carriera ricca di soddisfazioni che le ha portato sette Blues Music Awards e una nomination ai Grammy nel 2016.

Lo stesso anno in cui ha pubblicato l’ottimo Love Wins Again https://discoclub.myblog.it/2016/05/11/piu-che-lamore-la-voce-che-vince-volta-janiva-magness-love-wins-again/ , poi raddoppiato nel 2017 con il mini album Blue Again, altrettanto bello. In passato Janiva ha cantato spesso e volentieri anche canzoni di altri, interpretandole in modo sublime, ma in questo nuovo Love Is An Army, forse il suo disco più bello in assoluto, ha deciso di rivolgersi ad un repertorio originale, pezzi scritti da lei, da Dave Darling e da altri collaboratori che hanno saputo pescare nei sentimenti più genuini e veraci, poi il resto ancora una volta lo ha fatto lei con la sua voce splendida, e anche tutti i musicisti incredibili che suonano nel disco: da Darling alla chitarra, passando per le sezione ritmica impeccabile di Stephen Hodges, batteria e Davey Faragher, basso, Arlan Schierbaum, tastiere (per lunghi anni con Bonamassa, Beth Hart e anche John Hiatt), Doug Livingston al dobro e alla pedal steel (ma in un brano, splendido, c’è anche Rusty Young dei Poco), e ancora Phil Parlapiano al piano e in alcuni brani. una sezione fiati con Darrell Leonard, Joe Sublet e Alfredo Ballesteros, oltre a svariati backing vocalists che illuminano con la loro presenza le sfumature delle canzoni.

Oltre a Young ci sono vari altri ospiti che duettano con la nostra amica: dall’iniziale Back To Blue, che stabilisce subito i confini musicali, tra Stax e Hi Records, più la prima nel caso specifico, con echi del profondo southern soul che usciva dai solchi dei dischi degli Staples Singers, ma anche da quelli di Ann Peebles, con la voce che galleggia su un mare di voci, fiati, tastiere, l’organo magnifico, la chitarra malandrina, con risultati speciali. Hammer aggiunge al menu anche tocchi più blues, grazie alla presenza di Charlie Musselwhite all’armonica, per un brano ritmato e scandito, quasi funky, che fonde mirabilmente le 12 battute e il R&B più genuino, per poi sfociare in un country got soul magnifico, dove la pedal steel di Rusty Young disegna traiettorie adorabili che ci spediscono diritti negli anni magici delle più riuscite e nobili fusioni tra la musica nera e quella bianca, On And On è una di quelle canzoni perfette, cantata in modo mirabile dalla Magness, che sfodera per l’occasione una delle sue interpretazioni più memorabili, semplicemente magnifica, sentire per credere. Tell Me è un “soul psichedelico” tra Heard It Through The Grapevine e i Temptations, con la chitarra “sporca e cattiva” di Darling in bella evidenza, Love Is An Army è un’altra bellissima ballata dal retrogusto country, a tutta steel, cantata divinamente in coppia con il compagno di etichetta, il texano Bryan Stephens, un altro brano delizioso e sognante.

Notevole pure Down Below, un pezzo dove appare il virtuoso del banjo e della chitarra Courtney Hartman, dalla band Della Mae, altro brano incalzante dal gusto rootsy che illustra il sound complesso di questo album; What’s That Say About You è un altro pezzo “nero”, potente e ritmato degno della gesta degli Staple Singers. What I Could Do, l’unica cover, un pezzo scritto dal bravissimo Paul Thorn, è l’occasione per il duetto citato con Delbert McClinton, una ballata melliflua e delicata cantata in modo radioso dai due che si integrano alla perfezione, teneri e vissuti come solo i grandi sanno essere. Un pizzico di blues del Delta per il quasi gospel di Home dove la chitarra di Cedric Burnside è elemento portante, mentre Love To A Gunfight, ancora con la pedal steel di Doug Livingston in grande spolvero, è un altro esempio del miglior country got soul che si possa immaginare, elevato alla quasi perfezione, e poi ripetuto nella fragile e cristallina When It Rains, dove sembra di ascoltare la migliore Joan Armatrading degli anni ’70, vulnerabile e delicata nel mettere a nudo il proprio animo. Janiva Magness ci regala un’ultima perla del suo perfetto phrasing nella emozionante Some Kind Of Love, una ballata gospel solo voce e piano di una bellezza disarmante, cantata in modo sontuoso. Voci così non se ne fanno più.

Bruno Conti  

Grande Disco, “Con Un Piccolo Aiuto Dagli Amici”, E Che Amici! Mitch Woods – Friends Along The Way

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Mitch Woods – Friends Along The Way – Entertainment On

Mitch Woods, pianista e cantante di blues e boogie-woogie, da oltre trent’anni ci delizia con i suoi Rocket 88, band con cui rivisita classici della musica americana e composizioni proprie, con uno stile che lui stesso ha definito con felice espressione “rock-a-boogie”, e la cui summa è forse il CD uscito alla fine del 2015 Jammin’ On The High Cs Live, dove il nostro, nel corso della Legendary Blues Cruise, indulgeva nell’arte della collaborazione con altri artisti, diciamo della jam per brevità, che è una delle sue principali peculiarità http://discoclub.myblog.it/2016/01/06/nuovo-musicisti-crociera-mitch-woods-jammin-on-the-high-cs-live/ . In quella occasione Woods era affiancato da fior di musicisti, Billy Branch, Tommy Castro, Popa Chubby, Coco Montoya, Lucky Peterson, Victor Wainwright, membri sparsi dei Roomful Of Blues e Dwayne Dopsie, ma per questo nuovo album Friends Along The Way l’asticella viene ulteriormente alzata e alcuni degli “amici” coinvolti in questa nuova fatica sono veramente nomi altisonanti: c’è solo una piccola precisazione da fare, il disco, inciso in diversi studi e lungo gli anni, è principalmente acustico, non c’è il suo gruppo e neppure una sezione ritmica, a parte la batteria in tre brani, e un paio dei friends che appaiono nel CD nel frattempo ci hanno lasciato da tempo.

Certo i nomi coinvolti sono veramente notevoli: Van Morrison e Taj Mahal, impegnati in terzetto con Woods in ben tre brani, prima in una splendida Take This Hammer di Leadbelly, con Van The Man voce solista e Mitch e Taj che lo accompagnano a piano e chitarra acustica, mentre lo stesso Morrison agita un tamburello, comunque veramente versione intensa e di gran classe. Pure la successiva C.C Rider, con i rotolanti tasti del piano di Woods che sono il collante della musica, non scherza, Taj Mahal e Van Morrison si dividono gli spazi vocali equamente e la musica fluisce maestosa. Più avanti nel disco troviamo la terza collaborazione, Midnight Hour Blues, altro tuffo nelle 12 battute per un classico di Leroy Carr, dove Morrison è ancora la voce solista e suona pure l’armonica, mentre Mahal è alla National steel, con il consueto egregio lavoro di Woods al piano (stranamente alla fine del CD c’è una versione “radio” del primo brano, che tradotto significa semplicemente che è più corta). Già questi tre brani basterebbero, ma pure il resto dell’album non scherza: Keep A Dollar In Your Pocket, è un divertente boogie blues con Elvin Bishop, anche alla solista, e Woods che si dividono la parte vocale, mentre Larry Vann siede dietro la batteria; notevole Singin’ The Blues, una deliziosa ballata cantata splendidamente da Ruthie Foster, che ne è anche l’autrice, come pure la classica Mother in Law Blues, cantata in modo intenso da John Hammond, che si produce anche da par suo alla national steel con bottleneck.

Cryin For My Baby è un brano scritto dallo stesso Woods, che la canta ed è l’occasione per gustarsi l’armonica di Charlie Musselwhite, un blues lento dove anche il lavoro pianistico di Mitch è di prima categoria; Nasty Boogie, un vecchio pezzo scatenato di Champion Jack Dupree, vede il buon Mitch duettare con Joe Louis Walker, impegnato anche alla chitarra, mentre in Empty Bed offre il suo piano come sottofondo per la voce ancora affascinante e vissuta di Maria Muldaur. Blues Mobile è un pimpante brano scritto dallo stesso Kenny Neal, che ne è anche l’interprete, oltre a suonare l’armonica e la chitarra, in uno dei rari brani elettrici con Vann alla batteria, The Blues è un pezzo scritto da Taj Mahal, che però lo cede ad una delle leggende di New Orleans, il grande Cyril Neville, che la declama da par suo, sui florilegi del piano di Woods, che si ripete anche nella vorticosa Saturday Night Boogie Woogie Man, di nuovo con Bishop alla slide, prima del ritorno ancora di Musselwhite con la sua Blues Gave Me A Ride, lenta e maestosa. Chicago Express è una delle registrazioni più vecchie, con James Cotton all’armonica, per una train song splendida, prima di lasciare il proscenio ad un altro dei “maestri, John Lee Hooker, con la sua super classica Never Get Out Of These Blues Alive, al solito intensa e quasi ieratica nel suo dipanarsi. In chiusura, oltre all’altro pezzo con Morrison e Mahal, troviamo un duello di pianoforti, insieme a Marcia Ball, in una ondeggiante In the Night, un pezzo di Professor Longhair che chiude in gloria questa bella avventura musicale. Sono solo tre parole, ma sentite; no, non sole, cuore e amore, direi più “gran bel disco”!

Bruno Conti

Delaney & Bonnie (E Pure Eric Clapton) Avrebbero Approvato. Tommy Castro & The Painkillers – Stompin’ Ground

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Tommy Castro & The Painkilles – Stompin’ Ground – Alligator Records/Ird

Il motto della Alligator è “Genuine Houserockin’ Music”, e mi sembra si attagli perfettamente alla musica di Tommy Castro, 62 anni di età, 25 anni di onorata carriera discografica ed una ventina di album alle spalle.. Da sempre innamorato del blues, del soul e del R&R, ne ha fatto una sorta di filosofia di vita applicata ai suoi dischi: ormai da parecchi anni la qualità delle sue uscite è sempre elevata http://discoclub.myblog.it/2011/06/15/ma-allora-e-un-vizio-quelle-delle-crociere-tommy-castro-pres/  e difficilmente uno termina l’ascolto di uno dei suoi lavori senza un bel sospiro di soddisfazione. Al sottoscritto è successo, dopo avere ascoltato questo Stompin’ Ground, che ancora una volta centra l’obiettivo di divertire, con classe, grinta e belle canzoni. Il primo paragone che mi sarei sentito di fare dopo il suddetto ascolto è stato “ma ca…spiterina, sembra un disco di Delaney & Bonnie”, e pure di quelli buoni, o anche di qualche blues&soul revue alla Ike & Tina Turner, comunque la si giri sempre buona musica. Il nativo di San Jose, California, per l’occasione si fa aiutare dal compagno di etichetta Kid Andersen (nonché chitarrista dei Nightcats di Rick Estrin), che proprio nella “cittadina” californiana (si fa per dire, con 1 milione di abitanti) della Silicon Valley ha aperto i suoi studi di registrazione Greaseland, dove l’album, co-prodotto dai due, è stato registrato.

Oltre a Kid Andersen, che suona anche la chitarra rimica, nel disco troviamo i fedeli Painkillers, Randy McDonald al basso, Bowen Brown alla batteria e Michael Emerson alle tastiere, che sono una band formidabile, ma anche le “truppe di riserva” non scherzano, con la moglie di Andersen Lisa Leuschner, alle armonie vocali, la brava Nancy Wright al sax, John Halbleib alla tromba, a rendere ancora più corposo il suono vibrante del disco, e un quartetto di ospiti che fanno sentire la loro presenza in modo cospicuo. Partiamo proprio dai pezzi con gli ospiti, che si trovano nella seconda parte del CD, la vecchia facciata B dei vinili: Rock Bottom, un pezzo di Elvin Bishop, che era sul suo primo disco solista del 1972, Rock My Soul, un titolo, un programma, è una scarica di southern-rock, con chitarre all’unisono e Castro che si misura con Mike Zito per decidere chi è il più bravo e tosto, il match è alla pari, con le chitarre e le voci, e tutta la band che tirano come delle “cippe lippe”, un brano formidabile.

E pure Danielle Nicole (ex Schnebelen e Trampled Under Foot) ci mette del suo in una vibrante ripresa di Soul Shake, un vecchio pezzo di Peggy Scott & JoJo Benson, che però tutti ricordano proprio nella versione di Delaney & Bonnie su Motel Shot, in quel caso c’era Duane Allman alla chitarra, ma la Danielle e Castro ci danno dentro come due forsennati, Emerson va di tastiere alla grande e il resto della band ribadisce quel soul-rock che all’epoca frequentava anche Clapton nel suo primo disco omonimo.Terzo ospite del disco David Hidalgo dei Los Lobos per una tiratissima Them Changes, il pezzo di Buddy Miles (e Hendrix) di recente apparso anche nel fantastico doppio dal vivo di Steve Winwood, grande versione con le chitarre “fumanti” dei due protagonisti, come pure una Live Every Day scritta da Castro, ma veicolo ideale per Charlie Musselwhite, voce solista (insieme a Tommy) ed armonica in un blues lento che sembra qualche gemma perduta del repertorio di John Lee Hooker.

E il resto dell’album non è da meno, anzi: l’iniziale Nonchalant, con fiati aggiunti guidati dalla Wright, viene sempre da quella scuola da blues and soul revue di ferina efficacia, con la Leuschner che fa da grintosa seconda voce femminile e un assolo di piano elettrico di Emerson che è pura libidine, prima dell’ingresso della solista di Castro, che ribadisce chi sia il Boss delle chitarre. Ancora Delaney & Bonnie sugli scudi per una saltellante Blues All Around Me, tutta ritmo e feeling sopraffino, tra sferzate della solista e fiati e tastiere impazzite, perfetta; Fear Is The Enemy è un rock-blues di rara potenza, alla J.Geils Band, con il gruppo che tira di brutto per tenere dietro alla Leuschner e a Castro, che strapazza di gusto la sua chitarra in una serie di soli impressionanti. Per non dire di My Old Neighborhood una lirica e languida soul ballad che sembra venire da qualche vecchio disco della Stax registrato nel profondo Sud, cantato divinamente, in modo felpato, come se Castro fosse un novello Eddie Hinton; Enough Is Enough alza i ritmi per una canzone a tutto boogie in stile ZZ Top, con Gibbons e soci che sono sicuro scuoterebbero le loro barbe in approvazione sul riff assassino della solista del buon Tommy che va di slide alla grande. Love Is, in un tripudio di percussioni, è un funky rotondo e sensuale che profuma di blaxploitation anni ’70.

Dei brani con gli ospiti abbiamo detto, mancano una splendida Further On Down The Road, il vecchio pezzo di Taj Mahal, sentito anche sul recente Old Sock di Eric Clapton, non so quale versione è la migliore, una bella lotta. Molto bella anche la conclusiva Sticks And Stones, un vecchio pezzo del repertorio di Ray Charles che illustra il lato R&B di un album complessivamente solido e di grande qualità. Consigliato vivamente!

Bruno Conti

Tutti Insieme Appassionatamente: Difficile Fare Meglio! Walter Trout And Friends – We’re All In This Together

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Walter Trout And Friends – We’re All In This Together – Mascot/Provogue

Quando, nella primavera del 2014, usciva The Blues Came Callin’, una sorta di testamento sonoro per Walter Trout costretto in un letto di ospedale, praticamente quasi in fin di vita, in attesa di un trapianto di fegato che non arrivava, con pochi che avrebbero scommesso sulla sua sopravvivenza http://discoclub.myblog.it/2014/05/19/disco-la-vita-walter-trout-the-blues-came-callin/ . E invece, all’ultimo momento, trovato il donatore, Trout è stato sottoposto all’intervento che lo ha salvato e oggi può raccontarlo. O meglio lo ha già raccontato; prima in Battle Scars, un disco che raccontava la sua lenta ripresa http://discoclub.myblog.it/2015/10/03/storia-lieto-fine-walter-trout-battle-scars/ , con canzoni malinconiche, ma ricche di speranza, che narravano degli anni bui, poi lo scorso anno è uscito il celebrativo doppio dal vivo Alive In Amsterdam http://discoclub.myblog.it/2016/06/05/supplemento-della-domenica-anteprima-walter-trout-alive-amsterdam/  ed ora esce questo nuovo We’re All In This Together, un disco veramente bello, una sorta di “With A Little Help From My Friendso The Sound Of Music, un film musicale che in Italia è stato chiamato “Tutti Insieme Appassionatamente”, un album di duetti, con canzoni scritte appositamente da Trout per l’occasione, e se gli album che lo hanno preceduto erano tutti ottimi, il disco di cui andiamo a parlare è veramente eccellente, probabilmente il migliore della sua carriera.

Prodotto dal fido Eric Come, con la band abituale di Walter, ovvero l’immancabile Sammy Avila alle tastiere, oltre a Mike Leasure alla batteria e Johnny Griparic al basso, il disco, sia per la qualità delle canzoni, tutte nuove e di ottimo livello (a parte una cover), sia per gli ospiti veramente formidabili che si alternano brano dopo brano, è veramente di grande spessore. Questa volta si è andati oltre perché Walter Trout ha pescato anche musicisti di altre etichette, e non ha ristretto il campo solo ai chitarristi (per quanto preponderanti), ma anche ad altri strumentisti e cantanti: si parte subito alla grande con un poderoso shuffle come Gonna Hurt Like Hell dove Kenny Wayne Shepherd e Trout si scambiano potenti sciabolate con le loro soliste e il nostro Walter è anche in grande spolvero vocale. Partenza eccellente che viene confermata in un duetto da incorniciare con il maestro della slide Sonny Landreth (secondo Trout il più grande a questa tecnica di sempre), Ain’t Goin’ Back è un voluttuoso brano dove si respirano profumi di Louisiana, su un ritmo acceso e brillante le chitarre scorrono rapide e sicure in un botta e risposta entusiasmante, quasi libidinoso, ragazzi se suonano; The Other Side Of The Pillow è un blues duro e puro che ci rimanda ai fasti della Chicago anni ’60 della Butterfield Blues Band o del gruppo di Charlie Musselwhite, qui come al solito magnifico all’armonica e alla seconda voce.

Poi arriva a sorpresa, o forse no, una She Listens To The Blackbird, in coppia con Mike Zito, che sembra un brano uscito da Brothers and Sisters degli Allman Brothers più country oriented, un incalzante mid-tempo di stampo southern dove anche i florilegi di Avila aggiungono fascino al lavoro dei due chitarristi; notevole poi l’accoppiata con un ispirato Robben Ford, che rende omaggio a tutte le anime del suo passato, in una strumentale Mr. Davis che unisce jazz, poco, e blues alla Freddie King, molto, con risultati di grande fascino. L’unica cover presente è una torrenziale The Sky Is Crying, un duetto devastante con Warren Haynes, qui credo alla slide, per oltre 7 minuti di slow blues che i due avevano già suonato dal vivo e qui ribadiscono in una magica versione di studio; dopo sei brani incredibili, il funky-blues hendrixiano a tutto wah-wah di Somebody Goin’ Down insieme a Eric Gales, che in un altro disco avrebbe spiccato, qui è solo “normale”, ma comunque niente male, come pure un piacevole She Steals My Heart Away, in coppia con il Winter meno noto, Edgar, impegnato a sax e tastiere, per una “leggera” ballatona di stampo R&B che stempera le atmosfere, mentre nella successiva Crash And Burn registrata insieme allo “spirito affine” Joe Louis Walker , i due ci danno dentro di brutto in un electric blues di grande intensità.

Nel brano Too Much To Carry avrebbe dovuto esserci Curtis Salgado, una delle voci più interessanti del blues’n’soul contemporaneo che però di recente ha avuto un infarto, comunque il sostituto è un altro cantante-armonicista con le contropalle come John Nemeth, che non lo fa rimpiangere http://discoclub.myblog.it/2017/06/27/blues-got-soul-da-una-voce-sopraffina-john-nemeth-feelin-freaky/ . Quando il nostro deciderà di ritirarsi, è già pronto il figlio Jon Trout per sostituirlo, e a giudicare da Do You See Me At All, sarà il più tardi possibile, ma l’imprinting e la classe ci sono. L’unica concessione ad un rock più classico la troviamo in Got Nothin’ Left, un pezzo molto adatto all’ospite Randy Bachman, e come dice lo stesso Trout se chiudete gli occhi può sembrare un pezzo dei vecchi BTO, boogie R&R a tutto riff; naturalmente non poteva mancare uno dei mentori di Walter, quel John Mayall di cui Trout è stato l’ultimo grande Bluesbreaker, i due se la giocano in veste acustica in un Blues For Jimmy T, solo chitarra, armonica e la voce del titolare. La conclusione è affidata ad un blues lento di quelli fantastici, la title-track We’re All In This Together, e sono quasi otto minuti dove Walter Trout e Joe Bonamassa distillano dalle rispettive chitarre una serie di solo di grande pregio e tecnica, e cantano pure alla grande, che poi riassume quello che è questo album, un disco veramente bello dove rock e blues vanno a braccetto con grande ardore e notevole brillantezza, difficile fare meglio. Esce venerdì 1° settembre.

Bruno Conti

Come Il Buon Vino, Invecchiando Migliora! Elvin Bishop – Elvin Bishop’s Big Fun Trio

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Elvin Bishop – Elvin Bishop’s Big Fun Trio – Alligator/Ird

L’idea di base di partenza è interessante e stimolante: fare un disco di blues in trio, con tre ospiti all’armonica. Ovviamente è la formazione che è “strana”: a fianco di Elvin Bishop, voce e chitarra, ci sono Bob Welsh, pianista, che si disbriga con abilità, quando serve, anche alla chitarra, e Willy Jordan al cajòn, voce solista e armonie vocali (il cajòn è quello strumento a percussione di origine Peruviana, a forma di cassetta, e che si suona sedendoci sopra). I tre armonicisti ospiti, ciascuno presente in un brano, sono Charlie Musselwhite, Rick Estrin e Kim Wilson. Devo dire che il disco, pur non essendo un capolavoro assoluto, ha un suo perché: Elvin Bishop ormai ha una voce da vecchio maestro del blues (quale è diventato), una specie di roco ghigno un po’ sfiatato, ma vissuto e divertito, al quale si accodano i suoi pard per l’occasione, in grado di regalarci un piccolo ripasso del blues, del soul e del R&R, oltre a sette brani a sua firma, tra i quali una ripresa di Ace In The Hole, la title track del suo terzo album per la Alligator, pubblicato nel 1995. Al solito, se volete il mio parere, che vi do comunque, preferisco il Bishop “elettrico” dell’ultimo Can’t Even Do Wrong Right, pubblicato sempre per l’etichetta di Chicago, e che era un ritorno in parte al sound dei suoi dischi targati anni ’70 http://discoclub.myblog.it/2014/08/23/siamo-sulla-stessa-barca-del-blues-elvin-bishop-cant-even-do-wrong-right/ , ma questo Elvin Bishop’s Big Fun Trio non è niente male.

Questa volta il sound è più intimo e raccolto, peraltro non privo di brillantezza e suonato con la giusta forza, insomma non si corre il rischio di appisolarsi. Fin dall’iniziale vorticoso boogie, per piano e chitarra, Keep On Rollin’, i tre si divertono, con la chitarra di Bishop che svolge anche un supporto ritmico al lavoro di Jordan (che ha pure una ottima voce, cosa che non guasta), oltre a ritagliarsi i suoi spazi solisti. A seguire una ripresa di Honey Babe, un vecchio brano di Lightnin’ Hopkins, sempre caratterizzato da questo suono elettroacustico ma vibrante; It’s You è il brano con Kim Wilson all’armonica, classico Chicago blues, con l’ottimo Welsh al piano e uno scatenato Jordan che oltre a tenere il tempo con brio, come detto poc’anzi, ha una voce da gran cantante. Ace In The Hole, più lenta e sorniona, è cantata da Elvin, mentre Let’s Go, con un bel groove R&R, è un brano mezzo strumentale e mezzo parlato, con retrogusti alla Bo Diddley prima maniera. Delta Lowdown, con Rick Estrin all’armonica, come da titolo, è di nuovo blues puro della più bell’acqua, uno strumentale brillante dove si apprezza l’interscambio dei vari solisti; It’s All Over Now è una ripresa del vecchio classico di Bobby Womack (e degli Stones), che nonostante l’approccio sonoro raccolto del trio, non perde nulla del vigore delle versioni più conosciute, con Jordan che canta alla grande e Bishop che si inventa un assolo di gran classe anche in questa dimensione semi-unplugged.

100 Years of Blues vede la presenza di Charlie Musselwhite all’armonica e voce solista, il classico blues lento e cadenzato che si suona da almeno 100 anni, a giudicare dal titolo, con Bishop che lancia l’assist vocale con un talkin’ blues e Musselwhite che raccoglie e rilancia; Let The Four Winds Blow non avrà 100 anni (solo 55) ma il classico di Fats Domino viaggia a tutto ritmo sulle ali del piano di Welsh e della slide di Bishop, per una versione di gran classe. Il trittico finale di brani firmati da Bishop forse (ma forse) non ha la forza di quanto ascoltato finora, però la divertente That’s What I’m Talkin’ About si lancia anche su derive R&B e gospel, senza dimenticare l’immancabile blues misto a R&R, con Jordan che si conferma non solo percussionista di pregio, ma anche vocalist di talento, forgiato da lunghi anni di militanza sui palchi di New Orleans e dintorni. E pure il blues sanguigno di Can’t Take No More, dove Jordan si lancia in un ardito falsetto, non manca di entusiasmare, più di quanto mi sarei aspettato da un disco così particolare. Il finale, manco a dirlo, è affidato a una Southside Slide, uno strumentale dove Elvin Bishop ci delizia con la sua abilità alla bottleneck guitar. Lo dico di nuovo? Meglio di quanto mi aspettassi, viste le premesse: ancora una volta, 74 anni e non sentirli! Esce ufficialmente il 10 febbraio.

Bruno Conti