Con O Senza Rumour Continua Il Suo “Magico” Ritorno. Graham Parker – Cloud Symbols

graham parker cloud symbols 21-9

Graham Parker – Cloud Symbols – 100% Records

Da quando nel 2012, sempre sotto la spinta del regista americano Judd Apatow, Graham Parker ha deciso di riunire i Rumour, il musicista londinese (anche se lo si può quasi considerare naturalizzato americano, vista la lunga residenza negli States) sta vivendo una sorta di seconda o terza giovinezza a livello artistico. Il musicista “incazzato” degli anni ’70 è forse un lontano ricordo (benché anche nei dischi americani degli anni ’80 e ’90 non le mandava certo a dire, e qualche sprazzo “cattivo” pure nei noughties), ma Parker ora è un signore di 68 anni, compiuti a novembre, che sembra avere trovato una sorta di serenità e saggezza che forse non pareggia la grinta e la forza travolgente dei suoi anni migliori a livello musicale, ma ne evidenzia altri aspetti meno dirompenti, pur confermando la classe e l’abilità di un musicista che non è mai sceso a compromessi con l’industria discografica, ma ha saputo insinuarsi nelle sue pieghe per evidenziarne le magagne: un brano come Mercury Poisoning, dedicato alla sua etichetta discografica dell’epoca, è sintomatico in questo senso https://www.youtube.com/watch?v=YGWK_hvGgkU . Forse i dischi di Graham Parker non dicono più niente di nuovo da molto tempo (ma se il “nuovo” è il 99% di quello che impera al momento, preferisco il vecchio), però il nostro amico non ha perso quel suo tocco “magico”, l’abilità sopraffina di scrivere una canzone, partendo magari da un riff sentito mille volte, che ogni volta però rinnova la gioia del vero appassionato, anche nostalgico, verso una musica che profuma da sempre di soul, di rock classico ( i paragoni con Van Morrison, con gli Stones, con il suo quasi contemporaneo Elvis Costello, non erano fatti a caso), di belle melodie, di una voce che forse non è memorabile, ma è unica ed immediatamente riconoscibile nella sua vena ironica e sardonica, mai dimenticata, anche nei momenti più bui, in cui l’ispirazione sembrava averlo in parte lasciato, o forse non era più fervida come un tempo.

Si diceva di Judd Apatow, il regista, produttore e sceneggiatore, autore soprattutto di commedie, probabilmente non memorabili, ma provvisto dei giusti agganci nell’industria cinematografica, anche con le nuove frontiere di Netflix e delle televisioni via cavo tipo HBO, i cui film hanno comunque avuto sempre buoni riscontri economici e che sembra avere preso a cuore le sorti della carriera di Parker, coinvolgendolo nei suoi film, a partire da This Is 40 https://www.youtube.com/watch?v=1Ob24VlDhMQche incorporava nella propria trama anche la storia della reunion di Parker con i Rumour per registrare Three Chords Good https://discoclub.myblog.it/2012/12/03/di-nuovo-insieme-graham-parker-the-rumour-three-chords-good/ . Ora, dopo l’uscita dell’ancora eccellente Mystery Glue del 2015 https://discoclub.myblog.it/2015/05/19/il-disco-del-giorno-forse-del-mese-graham-parker-the-rumour-mystery-glue/ , Graham ha di fatto concluso l’avventura con la sua vecchia band (mantenendo però Martin Belmont come chitarrista) e contattato nuovamente da Apatow che gli chiedeva nuovi brani da usare nella sua serie Love su Netflix, ha messo mano alla penna e ha firmato, un po’ riluttante all’inizio ma poi convinto, undici nuovi gioiellini per questo Cloud Symbols. Una sorta di concept album che è la storia di un uomo virtuale, diciamo diversamente giovane (lo stesso Graham, che è protagonista, con altri “giovanotti”, dei video del disco), che cerca di districarsi con le nuove tecnologie, e attraverso una serie di deliziosi quadretti sonori ne racconta le vicende: uno che guarda le previsioni del tempo sul suo smartphone, per sapere che tempo fa a Roma o Los Angeles e ne ricava sensazioni divertite e divertenti in Is The Sun Out Anywhere, o si dedica al sesso orale nei doppi sensi di Brushes, oppure ancora glorifica le gioie dell’ubriacarsi in Bathtub Gin.

A livello musicale Parker si è affidato al “nuovo” gruppo dei Goldtops: oltre al citato Belmont, troviamo un altro veterano come Geraint Watkins, in pista come tastierista dagl ianni ’70, nel pub-rock dei Racing Cars, ma anche con Nick Lowe, Dave Edmunds, Willie & the Poor Boys, perfino Rory Gallagher, se c’era bisogno di una fisarmonica, nonché una sezione ritmica composta da Roy Dodds (Mary Coughlan, Eddie Reader, ed altre eroine del folk-rock britannico) alla batteria, e da Simon Edwards (Mary Coughlan, Talk Talk, Billy Bragg) al basso. Senza dimenticare il ritorno dei Rumour Brass, ovvero la sezione fiati che suonava in alcuni dei primi dischi a nome Graham Parker & The Rumour, a partire da Heat Treatment in avanti, non sempre gli stessi, questa volta ci sono Ray Beavis, Dick Hanson e Toby Glucklhorn; con la produzione affidata a Neil Brockbank, il gestore dei Goldtops Studios di Londra, a lungo collaboratore di Nick Lowe, scomparso poco dopo il completamento del disco, e che viene ringraziato nelle note del CD. Quindi un disco dal suono “transatlantico” come sempre: il sound mescola abilmente lo spirito del pop-rock britannico, con soul, r&b e folk americani, grazie alle melodie senza tempo delle canzoni del nostro amico. Dal soul-rock swingante e confortevole come un vecchio calzino dell’iniziale irresistibile Girl In Need, che divide con il grande Van The Man una passione (in)sana per la musica nera più classica americana, con il piedino che non può stare fermo, mentre i fiati all’unisono ci deliziano e organo e armonie vocali sono da goduria pura. L’abbiamo sentito mille volte, ma pochi lo sanno fare così bene. Ancient Past rallenta i tempi e richiama i fasti di vecchi e nuovi Dandy del pop inglese, da Ray Davies a Damon Albarn, con quel fare e pigro ed indolente tipico dei figli e nipoti del vecchio impero britannico, 2:12 ed è già finito, Ma tutti i brani sono particolarmente stringati, l’album dura in tutto 31 minuti. Anche la divertente Brushes ci riporta ai suoni gloriosi dei primi Rumour, altre facce ma stessa musica, per vecchi fan, ma anche i novizi possono goderla con piacere.

Anche Dreamin’, che fa rima con streamin’, ha quel drive tipico dei brani di Parker, con piano e trombone che gli danno quell’aria un po demodé, mentre Is The Sun Out Aniwhere è una di quelle ballate malinconiche e struggenti in cui il musicista britannico eccelle, un suo marchio di fabbrica, con versi e musica che tratteggiano in modo unico una storia d’amore senza tempo, e con i suoi musicisti che pennellano note con classe sopraffina. In Every Saturday Nite tornano i fiati per una riflessione sulle cose che ci piacciono (ma anche no) in una serata nel fine settimana, con quel suo suono abituale che se non ha più la verve e la grinta dei tempi che furono, lo sostituisce con una classe e una souplesse tipica dei (quasi) fuoriclasse. Maida Hill, altra ballatona dall’aria soffusa, è un ennesimo tuffo in quella Londra che sta scomparendo lentamente, ma non se ne vuole andare, fino a che ci sarà qualcuno che ne canterà la storia; Bathtub Gin, tra shuffle e swing jazz, ha sempre questa aria un po’ agée di una musica forse solo per vecchi nostalgici, ma non per questo priva di un proprio fascino, tipica di chi non vuole nascondere che le 70 primavere si avvicinano e non è il caso di fare i finti giovani. Anche se i ricordi del vecchio R&R e del pub rock dei tempi che furono sono ancora in grado di affiorare come nella mossa e brillante Nothin’ From You, ma d’altronde bisogna fare i conti con l’anagrafe e quindi What Happens When Her Beauty Fades?  Semplice: ce la cantiamo allegramente, con fiati, chitarre e ritmi errebì a manetta, come se non ci fosse futuro, ma dal cilindro qualche coniglio lo caviamo ancora. Anche se poi la malinconia ci attanaglia ancora, grazie allo struggente suono della melodica di Geraint Watkins che ci ricorda che le tenerezze di Love Comes, forse non sono solo sdolcinate, Finché qualcuno gli darà credito Graham Parker non deluderà le aspettative dei suoi ammiratori.

Bruno Conti