Indigenous – Acoustic Sessions

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Indigenous – The Acoustic Sessions – Vanguard

Se vi piace il blues elettrico, quello tosto e non conoscete gli Indigenous è una grave pecca. Ma forse non è questo il disco per colmare la lacuna. Se li conoscete, leggete attentamente prima di decidere.

Se vogliamo considerarlo come il primo capitolo della fase 3 della carriera degli Indigenous o come il primo album solista della carriera di Mato Nanji, il leader del gruppo oppure, come viene presentato, una sorta di summa, di best of dei primi dieci anni di carriera, rivisitati in una chiave acustica, direi unplugged, questo Acoustic Sessions non mi soddisfa appieno.

Non è per niente brutto, ma dopo dieci anni di selvagge cavalcate chitarristiche rock-blues ispirate dalla musica di Hendrix, Santana e Stevie Ray Vaughan ti ritrovi un po’ spiazzato: un lato più gentile quasi cantautorale è stato sempre presente nella musica di questo musicista nativo americano della tribù Nakota ma un album intero non sempre regge alla prova finestra.

A questo proposito ricordo sempre Endangered Species dei Lynyrd Skynyrd che alla sua uscita era stato salutato come una sorta di minicapolavoro e alla prova del tempo non ha retto molto, certo l’Unplugged di Clapton rimane un album notevole ma nell’ambito della sua discografia dove lo collochiamo? Al 15° o 20° posto a voler essere di manica larga!

Già perché questo album, come al solito, non è proprio un album acustico tradizionale, voce e chitarra, ti concedo un’armonica, ma ha una strumentazione, essenziale, ma ricca: il produttore Jamie Candiloro si occupa anche di batteria, percussioni, basso e tastiere (acustiche per l’amor di Dio), Mato Nanji si occupa di uno stuolo di chitarre acustiche, la moglie Leah delle armonie vocali e Lisa Germano appare come ospite al violino.

Quindi il suono vira verso tonalità latineggianti, l’iniziale Now That You’re Gone con l’organo alla Gregg Rolie e un tappeto di chitarre acustiche arpeggiate ricorda molto i Santana “senza spina” ma non entusiasma. Anche Things We Do utilizza la stessa formula, piccole percussioni, organo, un basso appena accennato, assoli all’acustica di Nanji, bravo anche in questo caso e la voce del leader da rocker intemerato trattenuta su sentieri meno combattivi. Al terzo brano, Little Time, cominci ad avvertire una sensazione, come dire, senza essere offensivo, di noia.  Rest Of my days, ricorda vagamente, ma molto vagamente, nel riff almeno, I shot the sheriff, qualcosina di più vivace ma niente di trascendentale.

Non dobbiamo dimenticarci che tutti questi brani apparivano in versioni elettriche e vibranti nei precedenti dischi di studio della band, quindi è difficile dimenticare gli originali e il confronto risulta impietoso, per il sottoscritto, giudizio personale.

Fool Me Again, che già era una ballata non soffre molto del trattamento acustico, anzi evidenzia l’andamento melodico del brano e anche Come on Home, dopo i cinque brani iniziali quasi in fotocopia, risulta una bel brano di impronta southern con la voce di Nanji che assume tonalità alla Greg Allman dei tempi d’oro, una bella accoppiata che evidenzia le qualità positive di Mato Nanji. ( questa è la versione elettrica watch?v=ECe5NJxqHh8) Anche Leaving gode di questo risveglio a metà CD e senza evidenziare straordinari voli pindarici di fantasia regge il confronto con la controparte che appariva in Chasing The Sun, sarà il violino strapazzato da Lisa Germano, sarà una maggiore convinzione nel reparto vocale, comunque piace.

Anche Should I Stay (dal penultimo Broken Lands, i brani sono in ordine cronologico) non è male, o forse mi sto abituando al sound del disco dopo qualche ascolto. E non mi dispiace neppure Eyes of a child dallo stesso disco, anche questa, come la precedente, firmata con la moglie Leah. L’unico brano “inedito” è una cover di You Got It il brano scritto da Tom Petty e Jeff Lynne con e per Roy Orbison, per l’album Mystery Girl, l’originale è un’altra cosa ma la canzone conclude su una nota di allegria il disco.

Ripeto, se siete dei fans prendetelo in considerazione, se no, alla larga, c’è di meglio in giro o si può pescare dai loro dischi vecchi, senti che roba.

Bruno Conti

Per Chi Ama La Pop Music Di Classe…Crowded House – Intriguer

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Crowded House – Intriguer – Mercury/Fantasy/Universal

In effetti il titolo completo del Post avrebbe dovuto essere “Per chi ama la musica pop di classe ma non è un modaiolo!”, ovvero “si può sentire anche se non è il disco del giorno, della settimana e del mese e loro, lui, i Crowded House, sono in giro da quasi venticinque anni”

Venticinque anni e questo è solo il settimo album (antologie e live escluse): ma la storia si fa molto più lunga se risaliamo agli Split Enz che sono già in circolazione dalla prima età degli anni ’70 ma erano più una creatura di Tim Finn, il fratello maggiore di Neil Finn, più orientati verso un rock progressivo sempre percorso da grandi aperture melodiche, ma questa è un’altra storia.

Comunque i Crowded House nascono dalle ceneri degli Split Enz, con Tim Finn e il batterista Paul Hester (morto suicida nel 2005) membri fondatori a cui si sarebbero poi aggiunti il bassista Nick Seymour e il secondo chitarrista e tastierista Mark Hart. Sembrano dettagli ma i nomi sono importanti, se nei Beatles al posto di Lennon & McCartney ci fossero stati, che so, gli italo-americani Calogero Stropparelli e Peppino Lomedico non sarebbe stata la stessa cosa, siamo d’accordo.

Perchè mi tiri fuori i Beatles proprio adesso? Non sarà mica perché i Crowded House sono stati spesso definiti i Beatles Down Under e il loro leader è considerato una sorta di gemello di Paul McCartney tenuto in embrione criogenico alla nascita e gettato una decina di anni dopo in Nuova Zelanda? Sì, è proprio per quello!

Questo nuovo album li riporta, quasi, ai fasti del passato dopo l’album di transizione Time On Earth che doveva essere un album solo di Tim Finn e poi è uscito con il marchio Crowded House. Nel frattempo Finn ha pubblicato quello stupendo doppio album intitolato Seven Worlds Collide dove ha collaborato con moltissimi musicisti ma, soprattutto, credo con Jeff Tweedy e i suoi Wilco.

Mi stupisce che nessuna recensione abbiamo colto questa analogia, considerando che il produttore dell’album è quel Jim Scott che ha prodotto il progetto 7 Worlds Collide e l’ultimo omonimo album dei Wilco, inserendo nel sound della band quelle sonorità più moderne e ricercate, quasi futuribili che hanno arricchito le ultime produzioni della band di Tweedy senza snaturare troppo l’anima melodica, Beatlesiana (lato Mccartney) di Finn.

Non solo, al disco collaborano anche Lisa Germano, al violino e alle armonie nella delicata e complessa al tempo stesso Archer’s Arrow, ma anche il chitarrista, compositore e a lungo collaboratore di Aimee Mann, Jon Brion che appare nella bellissima Twice if You’re Lucky un luminoso esempio di perfezione pop, da sempre uno dei neppure troppo reconditi desideri di Neil Finn, un instancabile cesellatore di melodie al contempo dense e stratificate e leggere e godibilissime, il pop perfetto che tanto si ricerca dai tempi di Beatles e Beach Boys.

Si diceva di questa patina di sound più “contemporaneo” che fa capolino qui e là nei brani di questo Intriguer: l’iniziale Saturday Sun, il singolo (se si può usare ancora come definizione) con sintetizzatori, bassi trattati, vocoder! e altre moderne diavolerie si fonde con il gusto innato per la melodia di Finn e le improvvise impennate vocali alla McCartney condite da un muro di chitarre acustiche e elettriche che si fondono con le tastiere.

Amsterdam è una malinconica ballata dove la voce di Finn è doppiata da una voce femminile (la moglie Sharon?)e impreziosita da un breve assolo di chitarra che richiama le sonorità dei Wilco, mentre Either Side Of This World è un altro delizioso esempio di quella ricerca della perfetta pop song (che nel passato ha prodotto Weather With You e Don’t Dream It’s Over, in Italia più nota come Alta marea del buon Venditti), qui, su un tempo vagamente di samba ma che ricorda anche Love Is in The Air dell’australiano John Paul Young, Neil Finn ricrea ( e cita) le atmosfere di quei vecchi successi, Antonello prendi nota.

Falling Dove ha degli agganci iniziali con il Paul Simon solista ma poi prendono il sopravvento quegli omaggi stilistici inconfondibili a Paul McCartney ma quello più ispirato e ricercatore di sonorità complesse stemperati nella grande classe del nostro amico Kiwi.

Isolation fluttua tra le atmosfere sognanti degli australiani Church con richiami alla Via Lattea e la solita voce femminile che rende il tutto etereo e delicato, fino all’ingresso di una chitarra elettrica che si fa sempre più aggressiva fino alla coda psichedelica del duetto di soliste con il figlio Liam che di nuovo ricorda i già citati Wilco. Anche Inside Out avrebbe fatto la sua bella figura nella seconda facciata di Abbey Road! (ma sempre con Tweedy e soci nei dintorni (musicali).

Per i più attenti c’è anche una versione Deluxe con DVD aggiunto con otto brani dal vivo in studio (simpaticamente chiamati Upstairs At Home, visto che sono stati registrati negli studi contenuti nella casa di Neil Finn), due dal vivo alla Auckland Town Hall e il video per Saturday Sun, che vedete qua sotto, o se preferite dal vivo da Jools Holland watch?v=esP6uVVwQ-c

Bruno Conti