40 Anni (E Oltre) Fa Succedeva In Italia, E Oggi Splendidamente Di Nuovo! Gang – Calibro 77

L’gang calibro 77

Gang – Calibro 77 – Rumbe Beat/Sony Bmg – 24-2-2017

Questa settimana, venerdì prossimo 24 febbraio per la precisione, esce attraverso i canali tradizionali il nuovo album dei Gang Calibro 77: chi ha partecipato alla operazione di crowdfunding (che la band dei fratelli Severini, ha utilizzato con successo, mi pare per la seconda volta, anche il precedente Sangue E Cenere era stato finanziato con la stessa formula), lo ha già ricevuto o lo sta ricevendo in questi giorni, con l’aggiunta di Scarti Di Lato, un ulteriore disco di outtakes riservato, come premio, a chi ha partecipato al finanziamento Per tutti gli altri che sono ancora indecisi, vediamo di cercare di convincerli all’acquisto: come cerco di spiegare nel titolo del Post il disco vuole essere una sorta di rivisitazione della musica e degli umori della società italiana negli anni ’70, attraverso la riproposta di una serie di canzoni che non vengono solo dal 1977, ma da tutta la decade in oggetto. Per fare tutto ciò si sono affidati ancora una volta, in fase di produzione, a Jono Manson, che ha rivestito, come è sua consuetudine, l’album con una patina di suoni tipicamente americani, utilizzando i soliti musicisti delle sue produzioni nei pressi di Santa Fè nel New Mexico, ai Kitchen Sink Studios di Chupadero, ovvero Michael Jude, John Michel (Hall And Oates / Brothers Keeper), Craig Dreyer, Clark Gayton (E Street Band/Levon Helm Midnight Ramble), John Popper (Blues Traveler), Jason Crosby, Jeff Kievit, Wally Ingram, Rob Eaton Jr, Ben Wright, Jeremy Bleich, John Egenes, Robby Rothschild, Char Rothschild, Jay Boy Adams, Scott Rednor, Jerry Weimer, Stefano Barotti Tutti nomi “locali” di grande abilità, come si vede, con una eccezione, a cui si aggiungono le chitarre di Sandro Severini e la voce di Marino Severini, per un tuffo nella canzone d’autore italiana degli anni ’70, rivista con affetto, ma anche, a tratti con lo spirito barricadero e punk che è sempre stato nel DNA della band rock marchigiana, senza dimenticare la maturità e la saggezza acquisita con lo scorrere del tempo.

Non voglio tuffarmi nell’esame complesso e specifico dei significati politici e sociali dei testi (c’è chi lo ho fatto o lo farà meglio di me), che essendo per una volta in italiano è di facile decifrazione e soggetto comunque all’interpretazione personale di chi ascolterà questo Calibro 77, ma preferisco soffermarmi sui contenuti delle singole canzoni, che in ogni caso riflettono anche in modo incidentale i significati di cui sopra. L’album si apre con Sulla Strada, un pezzo di Eugenio Finardi che era su Sugo, il disco del 1976 che conteneva anche Musica Ribelle (presente in Scarti Di Lato), il brano del cantautore milanese subisce un trattamento che non ne snatura lo spirito tipicamente rock all’italiana, anzi, forse lo accentua, aggiungendo un drive insistente che sta tra Bo Diddley e gli Stones, con le chitarre di Severini, Manson e Wright, che allargano ulteriormente lo spettro sonoro che ai tempi era fornito da Camerini e Tofani, senza dimenticare l’eccellente lavoro all’organo di Jason Crosby, vero maestro dell’Hammond. Nel testo c’è anche una licenza poetica, il ” vada a ranare” lombardo viene sostituito da un sonoro  “vada a cagare”, ma il significato rimane lo stesso. Il secondo brano è Io Ti Racconto, canzone che si trovava sul secondo album di Claudio Lolli, quel Un Uomo In Crisi del 1974, che come sottotitolo riportava Canzoni di Morte, Canzoni Di Vita, un  pezzo molto pessimista e triste, quasi lugubre nella versione di Lolli, che non era certo un allegrone, nella versione dei Gang il brano diventa una sorta di valzerone rock, splendido, con mandolino e piano che si uniscono all’organo per confermare questo sound da grande canzone americana, tra Dylan e il miglior rock a stelle e strisce, pur mantenendo una specificità da cantautore all’italiana.

Cercando Un Altro Egitto era sul terzo album omonimo del 1974 di Francesco De Gregori, quello “con la pecora”, e al Principe l’amore per la musica d’Oltreoceano non è certo mai mancato, quindi il pezzo si adatta perfettamente al trattamento rigoglioso cucitogli addosso da Jono Manson, che per l’occasione abbonda in trombe, sax, flauto e trombone, oltre all’immancabile organo, percussioni latineggianti che alleggeriscono il testo ermetico del brano, ma nella parte centrale non manca un breve assolo di chitarra tagliente e ficcante, poi ribadito da quello del sax, mentre Marino Severini lo canta con una “leggerezza” deliziosa, quasi noncurante. E niente male pure la lunga coda strumentale dove chitarre e fiati si scatenano in una bella jam. Questa Casa Non La Mollerò era già a sua volta una cover di Six Days On The Road dei Flying Burrito Brothers (che a loro volta l’avevano ripresa dalla tradizione country), fatta da Ricky Gianco su un 45 giri del 1978, e nella versione della Gang viene accentuato lo spirito R&R e country-rock del brano , con il piano scintillante di Crosby e chitarre (anche la pedal steel di John Egenes) in bella evidenza, mentre la voce di Marino mi ricorda quella del primo Giorgio Gaber, il periodo Due Corsari con Jannacci. Poteva mancare un brano di Fabrizio De André in un excursus sulla canzone italiana degli anni ’70? Ovviamente no, e il prescelto è Canzone Di Maggio, tratto da Storia di Un Impiegato del 1973, resa come una ballata quasi soul, con il sax di Craig Dreyer a duettare con l’organo, mentre la ritmica prende un pigro Groove che accompagna la canzone. Poi è la volta di Sebastiano, di nuovo a tempo di country’n’roll , un brano di Ivan Della Mea, tratto da Sudadio Giudabestia del 1979 (quindi coe Gianco, oltre il fatidico 1977), e che in questa veste sonora si faticherebbe immaginarla, ma funziona alla grande, con il testo intenso che viene reso più leggero dallo spirito dylaniano della musica, che a chi scrive ricorda anche Edoardo Bennato, di cui tra un attimo. ottimo John Popper all’armonica e il solito lavoro di fino delle chitarre

Ma prima troviamo Uguaglianza di Paolo Pietrangeli, l’unico brano non concepito negli anni ’70, visto che è del 1969, ma lo spirito della canzone è comunque già quello, pur se l’esecuzione vira su un folk conciso e laconico, due chitarre acustiche, una batteria spazzolata e poco altro, che più che a Dylan si ispirano allo Springsteen più crudo di Nebraska o Tom Joad, anche per gli argomenti trattati, visti però da un’ottica italiana. Si diceva di Bennato, del suo songbook viene affrontata Venderò, che era su La Torre Di Babele del 1976, un pezzo lontano dagli episodi più rock del cantautore napoletano (70 anni portati bene), e il cui testo portava la firma del fratello Eugenio Bennato: con fisarmonica, mandolino, violino e banjo, diventa un brano dal taglio bluegrass-country, sempre comunque con il piano delizioso di Crosby a guidare le danze, e un’aria spensierata che cerca di cancellare la malinconia del testo, riuscendoci in pieno.

Un Altro Giorno E’ Andato è di un altro “pezzo grosso” degli anni ’70, Francesco Guccini, il disco originale era L’Isola Non Trovata, proprio del 1970: un brano che ai tempi era una sorta di talkin’ blues all’italiana, e all’inizio, con una chitarra acustica arpeggiata, piano, una chitarra elettrica slide, lo spirito viene rispettato, ma poi il brano prende un bel crescendo, entra la ritmica, l’organo, il ritmo accelera e sembra di ascoltare un pezzo del Jackson Browne anni ’70, con David Lindley alla chitarra, bellissima (e qui sospetto lo zampino di Jay Boy Adams, citato nei credits, grande epigono browniano). Più distaccata e ironica la divertente Ma Non E’ Una Malattia, targata 1976, e che ci porta tra le strade di New Orleans, con ritmi soul e dixie, tra fiati che impazzano e l’immancabile pianino che si insinua ovunque. Per terminare l’Opera (con la O maiuscola, perché il CD è veramente bello) non si poteva scegliere meglio de i I Reduci di Giorgio Gaber, canzone simbolo di quegli anni ’70. tratta da Libertà Obbligatoria, uscito nel 1976, e con Marino Severini che in questo brano (ma a me personalmente pare in tutto l’album) ricorda in modo impressionante, per la voce e l’impeto l’inventore del genere “teatro canzone”. La versione di questa canzone è splendida, con l’uso magnifico della doppia tastiera e delle chitarre, e un arrangiamento che ancora una volta fonde l’italianità dei testi e lo spirito Americano della musica.

Tanto di cappello, grande disco.

Bruno Conti

Non Volevamo Una Giornata Ancora Più Buia! Si E’ “Spento” A Sorpresa Anche Leonard Cohen1934-2016

leonard cohen death

Il titolo del post paragrafa quello dell’ultimo disco del grande cantautore, poeta e scrittore canadese, uscito da meno di un mese, You Want It Darker, e mi è sembrato il modo migliore per commentare la morte di Leonard Cohen all’età di 82 anni, avvenuta il 7 Novembre (l’annuncio è stato dato solo oggi), e che va ad appesantire ulteriormente il bollettino di questo pesantissimo 2016.

La sorpresa del titolo riguarda però noi che non lo conoscevamo personalmente, secondo me lui se lo sentiva (o, forse, lo sapeva), visti i riferimenti neanche troppo velati ad una sua prossima dipartita nella missiva indirizzata alla sua ex musa ed amante Marianne Ihlen, scomparsa lo scorso Luglio ed alla quale aveva dedicato nel 1967 la bellissima So Long, Marianne, e soprattutto notando i testi cupi del suo album appena uscito, con un’aria di morte che aleggiava un po’ dappertutto, insieme a musiche altrettanto scure. Ma la notizia è comunque di quelle sconvolgenti, in quanto Cohen era uno dei maggiori songwriters mondiali, per il quale la parola “poeta” non era spesa invano: i suoi testi sono infatti sempre stati fra i più belli in circolazione, anzi secondo me nessuno scriveva canzoni d’amore come sapeva fare lui (ed il fatto che avesse sempre avuto un grande ascendente sulle donne non è un caso, secondo me sapeva parlare al sesso femminile come nessun altro), al punto che più di uno, quando hanno assegnato il premio Nobel per la letteratura a Bob Dylan, ha asserito che anche Leonard lo avrebbe meritato.

Cohen era anche in possesso di una voce calda, profonda e suadente, migliorata tra l’altro col passare degli anni, e di un gusto melodico non comune, il tutto legato da una classe e raffinatezza senza eguali, che gli permetteva di affrontare qualsiasi tema con una leggerezza incredibile (anche la sua ironia era proverbiale, pari quasi al suo tocco poetico): non vedo, per esempio, chi altri se non lui avrebbero potuto parlare in una canzone di sesso orale (Chelsea Hotel) o anale (The Future) con una tale leggiadria, oppure porgere un testo agghiacciante come quello di First We Take Manhattan o apocalittico come quello della stessa The Future con un distacco simile, quasi avesse sempre un mezzo sorriso ironico pronto all’uso. I suoi dischi e la sua musica sono stati d’ispirazione per una serie interminabile di cantautori (anche in Italia, De Gregori e De André su tutti), fin dai primi album, la famosa trilogia Songs Of Leonard Cohen, Songs From A Room e Songs Of Love And Hate, che contenevano capolavori assoluti come Suzanne, Sisters Of Mercy, la già citata So Long, Marianne, Bird On The Wire (la cui prima frase è stata scelta da Kris Kristofferson come suo futuro epitaffio), la meravigliosa The Partisan, canto della resistenza francese riadattato da Leonard ed interpretato in maniera mirabile, Famous Blue Raincoat, Joan Of Arc.

Con il suo quarto album, il magnifico New Skin For The Old Cerimony del 1974, Leonard abbandona le sonorità spoglie dei primi tre lavori per una strumentazione più articolata (rock sarebbe un termine inadatto al nostro), ed al suo interno troviamo altri capolavori come la già citata Chelsea Hotel (che contiene una frase secondo me memorabile: We Are Ugly, But We Have The Music), Lover Lover Lover, la splendida Who By Fire (Leonard affrontava l’argomento della morte anche in gioventù), Take This Longing, ecc. Dopo un disco criticatissimo non per le canzoni ma per le pesanti orchestrazioni del produttore Phil Spector (Death Of A Ladies’ Man, un titolo che andrebbe bene per la giornata odierna), ecco il ritorno alle “sue” atmosfere con l’ottimo Recent Songs (1979), che non contiene superclassici ma è decisamente unitario e si apre con The Guests, uno dei suoi più bei testi in assoluto.

Negli anni ottanta solo due dischi, ma straordinari: Various Positions del 1984 e I’m Your Man del 1988, che ospitano futuri classici come Hallelujah, che oggi è diventato il suo brano più popolare grazie anche alle numerose cover versions, Jeff Buckley su tutte https://www.youtube.com/watch?v=y8AWFf7EAc4 , Dance Me To The End Of Love, futura apertura dei suoi concerti, If It Be Your Will, Everybody Knows, Ain’t No Cure For Love, Tower Of Song; tra l’altro nel secondo dei due album Leonard comincia ad utilizzare sintetizzatori e programmazioni, ma ancora una volta con grande gusto e misura, e senza mai risultare pomposo od invasivo. L’eccellente The Future del 1992 sarà il suo ultimo disco per anni, in quanto il nostro si ritirerà in meditazione zen e si prenderà cinque anni sabbatici (che poi diventeranno nove), ritornando nel 2001 con il discreto (e un po’ soporifero) Ten New Songs.

Gli ultimi anni di carriera diventano quasi frenetici, almeno per uno della sua età e che sempre stato tendenzialmente pigro, a causa di un grave problema con la sua ex manager, Kelley Lynch, che in sua assenza gli ha “mangiato” quasi tutti i risparmi, riducendolo praticamente sul lastrico: tre nuovi album di studio tra il 2004 ed il 2014 (Dear Heather, discreto, Old Ideas, molto bello, Popular Problems, splendido) e ben quattro dal vivo, tratti dalle sue lunghe tournée e con concerti di tre ore l’uno, tra i più belli degli ultimi anni (ancora mi ricordo la grandissima serata di qualche anno fa agli Arcimboldi di Milano): almeno Live In London e Live In Dublin, pur con le molte ripetizioni, sono imperdibili, grazie anche al gruppo strepitoso che accompagna il nostro sul palco, ma anche per gli esilaranti monologhi tra una canzone e l’altra, dove veniva fuori la sua geniale ironia.

You Want It Darker è storia recentissima (devo dire che il disco non mi ha convinto più di tanto, l’ho trovato un po’ “statico”, ma credo che necessiti di ulteriori ascolti): come d’abitudine, un po’ troppo frequente un questo 2016, voglio ricordare Cohen con una scelta personale, un brano che forse non è il suo più bello, di certo non è famosissimo, ma anche alla milionesima volta che lo ascolto mi fa venire la pelle d’oca.

Addio Lenny, ora potrai davvero cantare Hallelujah con gli angeli.

E salutaci Marianne…e anche Jeff.

Marco Verdi