*NDB Torna il supplemento della domenica del Disco Club, la parola a Marco Verdi per la recensione dell’ultimo Neil Young. Se mi posso permettere, al solito, la somma dei 20 brani nei 2 CD dà un totale di 79:57 minuti, quindi ci stava in un dischetto singolo. Siamo al solito “marketting”!
Neil Young – Storytone – Reprise CD – 2CD Deluxe
Qualche mese fa su questo blog avevo stroncato di brutto il disco acustico di Neil Young, A Letter Home, composto solamente da covers e realizzato in collaborazione con Jack White, non tanto per la qualità sonora pessima, cosa peraltro voluta al fine di far somigliare il disco alle vecchie incisioni folk degli anni 30/40, ma soprattutto per lo scarso feeling interpretativo da parte del canadese http://discoclub.myblog.it/2014/05/09/grande-disco-o-solenne-ciofeca-mah-neil-young-letter-home/ . Quando ho letto che Young stava per pubblicare un altro disco, questa volta in collaborazione con un’orchestra di una novantina di elementi, ho avuto più di un tremolio, dato che anche in questi casi il rischio ciofeca è elevato, anche se il buon Neil non è nuovo ad esperimenti del genere (un paio di brani da Harvest, tra cui la splendida A Man Needs A Maid, con gli archi arrangiati da Jack Nitzsche, ed altrettanti da Comes A Time, con la Gone With The Wind Orchestra).
Quando poi ho visto che esisteva anche una versione doppia con gli stessi brani in versione acustica, ho temuto il peggio, in quanto questo poteva voler dire che Young stesso non fosse del tutto convinto del risultato finale, e che volesse in “riparare” in parte dando un contentino ai fans https://www.youtube.com/watch?v=sDQbJP0PxUM . Fortunatamente i miei dubbi si sono dissolti al primo ascolto: Neil ha avuto l’intelligenza di usare l’orchestra (e, in tre canzoni, una big band con tanto di sassofoni, trombe e tromboni) con mano leggera, mettendola al servizio delle canzoni e non il contrario, al punto che in alcuni momenti quasi non ci si accorge della sua presenza (a parte un episodio, ma è un peccato veniale). E poi, cosa più importante, le canzoni: il nostro non scriveva brani di questo livello da una vita (anche il magnifico Psychedelic Pill di due anni fa doveva gran parte della sua fortuna alla magica alchimia tra Neil ed i Crazy Horse, più che alla bellezza delle canzoni stesse http://discoclub.myblog.it/2012/11/16/giu-il-cappello-davanti-al-bisonte-neil-young-psychedelic-pi/ ), regalandoci almeno cinque pezzi di altissimo livello. Non vorrei esagerare, ma a tratti sembra di sentire il bisonte di inizio anni settanta, e scusate se è poco; anche a livello di feeling poi, siamo su un altro pianeta rispetto al pallore di A Letter Home.
L’album si apre con la pianistica Plastic Flowers: melodia toccante, direi bellissima, con un incedere quasi epico, e con l’accompagnamento orchestrale che fornisce dei perfetti fillers tra una strofa e l’altra. Who’s Gonna Stand Up è un brano a sfondo ecologista già proposto nel corso dell’ultimo tour: qui l’orchestra assume un tono “marziale”, il brano non è così malaccio come qualcuno aveva detto sentendolo dal vivo, ed il connubio funziona bene https://www.youtube.com/watch?v=NkiRR3T_3NY , I Want To Drive My Car è un ritmato boogie con tanto di chitarra elettrica solista (non la suona Neil, ma Waddy Wachtel), non c’è l’orchestra ma una big band degna di Louis Prima (o Brian Setzer, in anni più recenti): pensavo che la voce del nostro non si adattasse bene ad un accompagnamento simile ma mi devo ricredere, il brano è persino trascinante. Glimmer ha di nuovo l’orchestra, ed un inizio un po’ da cartone animato disneyano, poi entra la voce ed il brano prende una piega migliore, anche se rimane un filo di melassa in eccesso (per fortuna sarà l’unico caso); Say Hello To Chicago (big band) è swingata alla maniera di Frank Sinatra, e qui Neil vocalmente mostra un po’ la corda, anche se è sempre meglio di quel bamboccione senza talento di Michael Bublé.
Molto bella Tumbleweed, con l’orchestra usata nuovamente con leggerezza, anche se il brano, e lo confermerà il disco da solo, viene meglio in veste acustica. Like You Used To Do è l’ultimo pezzo con la big band, un cadenzato bluesaccio con tanto di armonica, davvero godibile; splendida poi I’m Glad I Found You, pianistica ed emozionante, con Young che sembra tornato ai tempi di After The Gold Rush: l’orchestra c’è ma quasi non me ne accorgo. Magnifica anche When I Watch You Sleeping: voce, chitarra acustica e steel per una ballad di stampo country-folk, con l’ensemble alle spalle che ricama in punta di piedi, un brano che più va avanti e più diventa bello, forse il migliore del CD. Chiude All Those Dreams, ancora voce, chitarra e leggere percussioni, con l’orchestra utilizzata nel migliore dei modi: un brano tipicamente younghiano, al quale l’accompagnamento particolare dona ulteriore colore.
Per chi vuole, come già detto c’è anche la versione acustica: è chiaro che i brani già belli con l’orchestra restano belli, i due così così (Glimmer e Say Hello To Chicago) migliorano, ma in qualche caso (I Want To Drive My Car) preferisco la versione presente nel disco principale. Come ho scritto nel titolo, e difficile che Neil Young sbagli due dischi di fila: non solo con Storytone non delude, ma ci regala uno dei dischi più belli dell’anno.
Marco Verdi