Fleet Foxes – Crack-Up – Nonesuch/Warner CD
A ben sei anni dal loro secondo album Helplessness Blues, uno dei dischi più sorprendenti e creativi del 2011, si rifanno vivi i Fleet Foxes, band di Seattle guidata da Robin Pecknold, carismatico musicista dalla personalità debordante, con un lavoro nuovo di zecca, intitolato Crack-Up (esce il 16 Giugno, questa recensione è in anteprima assoluta). Helplessness Blues aveva positivamente stupito per il suo contenuto, una serie di brani di ispirazione folk, ma con copiose dosi di rock, progressive ed un tocco di psichedelia, caratterizzati da complesse armonie vocali che rimandavano allo stile classico di Crosby, Stills & Nash: Pecknold è un leader vulcanico, una sorta di hippy fuori tempo (un po’ come Alex Ebert degli Edward Sharpe & The Magnetic Zeros o, se ve lo ricordate, Michael Glabicki dei Rusted Root), ed i suoi compagni di viaggio, tutti validi polistrumentisti (Skyler Skjelset, Carey Wescott, Morgan Henderson e Christian Wargo) sono il gruppo perfetto per la sua musica sognante, eterea, di chiara derivazione californiana, ma la California dei primi anni settanta, quando si credeva ancora che con la musica si potesse cambiare il mondo ed il Laurel Canyon era il centro nevralgico e cool di quei tempi. Dopo sei anni di silenzio assoluto temevo però una delusione, oppure un cambio netto di direzione verso sonorità più commerciali, un po’ la fine che hanno fatto di recente gruppi come Mumford & Sons, Arcade Fire, Needtobreathe e Low Anthem: fortunatamente Crack-Up continua il discorso intrapreso con il disco precedente, con le medesime atmosfere, lo stesso tipo di canzoni molto creative e personali caratterizzate da un gusto spiccato per la melodia e con ripetuti cambi di ritmo anche all’interno dello stesso brano, e lo stesso suono evocativo di un’epoca irripetibile della storia della nostra musica.
Se proprio vogliamo, rispetto a Helplessness Blues qui manca l’effetto sorpresa, i brani sono strutturati allo stesso modo, quasi Crack-Up fosse il secondo volume del medesimo progetto, anche se nel disco di sei anni fa mi sembra che le sonorità fossero più solari, mentre qui il mood è più intimo, riflessivo, quasi cupo in certi momenti: ma la cosa importante è che il livello delle composizioni e del suono sia sempre alto, e che i nostri non abbiano perso la via maestra. Quando poc’anzi ho detto che Crack-Up continua il discorso del disco precedente, intendevo proprio alla lettera, in quanto le prime note del brano iniziale, I Am All That I Need/Arroyo Seco/Thumbprint Scar, sono le stesse con le quali si chiudeva Grown Ocean, l’ultimo pezzo di Helplessness Blues (i ragazzi un po’ bizzarri lo sono…): il pezzo comincia in maniera straniante, con Pecknold che canta come se si fosse appena svegliato (o si fosse appena fatto una canna, più probabile…), poi entra una chitarra strimpellata con grande forza, il ritmo cresce e le voci intonano un motivo molto CSN (più dalle parti di David Crosby), ma con elementi quasi psichedelici, un brano un tantino ostico ed un po’ ripetitivo nonostante i cambi di ritmo e melodia, ma di certo non banale. Cassius parte ancora piano, ma qui le tipiche armonie della band entrano subito ed il brano si trasforma in una folk song bucolica, ma senza rinunciare alle atmosfere oniriche che collocano il pezzo proprio nel bel mezzo della California post-Summer of Love: bello il finale strumentale che confluisce nella gradevole Naiads, Cassidies, una ballata senza stranezze di sorta, nobilitata dalle solite ottime voci ed un mood evocativo e rilassato, uno stile quasi cinematografico; Kept Woman inizia come un lento alla Crosby, dagli accordi pianistici, al timbro di voce alla melodia, un brano affascinante e di grande intensità, un pezzo che potrebbe benissimo essere una outtake del mitico If I Could Only Remember My Name.
Molto bella la lunga, quasi nove minuti, Third Of May/Odaigahara, un folk-rock energico anche se con strumentazione acustica al 90%, un motivo godibile e lineare dove non mancano i soliti cambi di ritmo e melodia che sono un po’ il trademark del gruppo. Con If You Need To, Keep Time On Me siamo invece dalle parti di Neil Young, una ballad acustica e con un bell’uso del piano, con una certa malinconia di fondo ma anche feeling a profusione; Mearcstapa (titoli normali pochi) ricicla un po’ le stesse sonorità, con qualche rimando ai Pink Floyd bucolici di dischi come More e Obscured By Clouds: il disco si conferma in generale più cupo ed un po’ meno immediato del suo predecessore, ma non per questo meno interessante. La pianistica On Another Ocean è ancora sospesa e sognante (ma a metà diventa una rock song pura, ed anche bella), Fool’s Errand è folk-prog al 100%, ritmo alto, tappeto strumentale suggestivo e voci perfette, I Should See Memphis è interiore ed un pochino più involuta delle precedenti; il CD si chiude con la title track, anch’essa lunga, fluida, leggermente psichedelica ed impreziosita da un corno in sottofondo. Crack-Up è quindi un buon disco, che si lega a doppio filo con il lavoro che lo ha preceduto, anche se dopo sei anni forse le aspettative erano più alte (ma, come ho già detto, c’era anche il rischio-ciofeca): diciamo che il prossimo album sarà forse il più difficile per i Fleet Foxes, in quanto questa formula probabilmente non potrà reggere in eterno.
Marco Verdi