Non Che Ci Volesse Molto, Ma Sono Meglio Adesso Di Prima! Brooks & Dunn – Reboot

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Brooks & Dunn – Reboot – Arista Nashville/Sony CD

Kix Brooks e Ronnie Dunn, provenienti rispettivamente da Louisiana e Texas ma da tempo trapiantati a Nashville, sono stati probabilmente il duo country più popolare di sempre, vendite alla mano almeno. Dal 1991 hanno infatti venduto svariati milioni di dischi, piazzando venti singoli e cinque album al numero uno, oltre ad essere stati protagonisti di una miriade di concerti sold out in tutta America, almeno fino alla separazione pacifica avvenuta nel 2010. Ora i due ci hanno ripensato e si sono rimessi insieme per un nuovo disco con tour al seguito, complice forse il fatto che le rispettive carriere soliste non sono mai veramente decollate (con Dunn comunque più attivo di Brooks, anche se il suo ultimo lavoro, Tattoed Heart, era una mezza porcheria): Reboot è dunque l’appropriato titolo del CD che fa ricominciare la carriera del duo, e che comprende dodici brani già pubblicati in passato come singoli, scelti senza una logica apparente, presentati in versioni nuove di zecca e con altrettanti ospiti a cantare con loro. Una via di mezzo quindi tra un greatest hits 2.0 e un disco di duetti, un’operazione commerciale tesa a raggiungere il massimo risultato con il minimo sforzo: l’album venderà tanto solo per il fatto che i nostri sono tornati insieme ed in più servirà come pretesto per lanciare la tournée, che poi è quello che a B&D interessa veramente dato che con i dischi oggi non si arricchisce più nessuno.

Devo ammettere che non sono mai stato un fan dei due countrymen, essendo la loro tipologia di musica troppo compromessa con il suono di Nashville e quindi troppo spesso tendente al pop, ma devo anche riconoscere che in Reboot (prodotto dall’esperto Dann Huff) le cose sono state fatte con criterio, dando alle canzoni un suono sì rotondo e radio-friendly, ma con gli strumenti giusti, le chitarre che si sentono e la batteria che è autentica e non programmata. Un ulteriore punto a favore è dato dal fatto che i due hanno limitato al minimo le ballate, privilegiando i pezzi più mossi del loro repertorio: gli ospiti non è che incidano più di tanto sul risultato finale (non c’è per esempio un Willie Nelson a fare la differenza), ma Reboot resta comunque un disco gradevole, pur non cambiando la storia della musica country (ma io in realtà temevo la ciofeca). L’album inizia con la pimpante Brand New Man, che è stato anche il loro primo singolo nel 1991, un rockin’ country potente e dal refrain contagioso, oltre ad un buon impatto chitarristico e la terza voce di Luke Combs. Brett Young si unisce ai nostri per Ain’t Nothing ‘bout You, un brano dal tempo cadenzato ed un motivo forse ruffiano ma piacevole, non molto country a dire il vero ma non disprezzabile (e poi il suono vigoroso fa la differenza). Anche My Next Broken Heart, con Jon Pardi, è decisamente riuscita, un honky-tonk elettrico e divertente, dall’approccio energico e quasi rock; Kacey Musgraves è brava e raffinata, ma nonostante faccia del suo meglio Neon Moon non è un granché, anche per un arrangiamento discutibile e un po’ finto,.

Molto meglio Lost And Found, una country ballad tersa e limpida, impreziosita dall’intervento di Tyler Booth: vero country, orecchiabile e ben fatto. Hard Workin’ Man è puro rockin’ country (non li ricordavo così grintosi): chitarre in tiro ed i Brothers Osborne che portano un sapore southern nonostante vengano dal Maryland, mentre la languida You’re Gonna Miss Me When I’m Gone è perfetta per la voce gentile di Ashley McBride, e non è neppure troppo mielosa. My Maria, con Thomas Rhett, ha una buona melodia di fondo ed un suono robusto che le dona una spinta in più, Red Dirt Road vede la partecipazione del bravo Cody Johnson, ma è un lento piuttosto nella norma, a differenza di Boot Scootin’ Boogie, tra honky-tonk e rockabilly, tosta e coinvolgente quanto basta grazie anche al trio texano Midland (e c’è una bella slide). Chiusura con Mama Don’t Get Dressed Up For Nothing, con la giovane band LANCO, che è un altro country-rock dal ritmo accattivante, e con lo slow Believe (con Kane Brown), non indispensabile. Reboot non mi farà certo cambiare idea sul passato discografico di Brooks & Dunn, ma si tratta comunque di un lavoro piacevole ed in grado di soddisfare anche i palati più esigenti.

Marco Verdi

E’ Meglio Da Solo O In Duo? Ehm…Domanda Di Riserva? Ovvero “Non Tutti I Texani Vengono Con Il Buco”! Ronnie Dunn – Tattoed Heart

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Ronnie Dunn – Tattoed Heart  – Nash Icon/Universal CD

Terzo album da solista per il texano Ronnie Dunn dopo l’interruzione del sodalizio con Kix Brooks, con il quale ha formato per 17 anni un duo tra i più popolari del country moderno, Brooks & Dunn appunto: dal momento della loro separazione, comunque pacifica, è stato Dunn il più impegnato, in quanto l’ex socio ha un solo album all’attivo, ma il problema non è la quantità di dischi pubblicati, ma la loro qualità, in quanto i lavori di B&D vendevano a carrettate, ma non brillavano di certo per il loro valore. E Tattoed Heart non si distacca di molto dalle sonorità del duo, in quanto ha al suo interno dodici pezzi di country molto annacquato, decisamente imparentato con il pop, con suoni levigati e smussati all’inverosimile per poter avere accesso libero alle radio di settore, due produttori adeguati alla bisogna (Tommy Lee James e Jay DeMarcus, già bassista dei Rascal Flatts), il solito stuolo di sessionmen di Nashville pagati a ore, professionali ma senz’anima, e canzoni scritte da autori su commissione, ma con alcuni nomi del tutto improponibili  (per esempio nella title track, tra i sette nomi coinvolti – ma come si fa a mettersi in sette a scrivere una canzone? – troviamo anche la teen idol Ariana Grande!).

Immagino quindi che anche Tattoed Heart volerà alto nelle classifiche di settore, ma si terrà anche piuttosto lontano dai nostri CD players. Ain’t No Trucks In Texas non è neanche da buttare, una ballata elettrica, molto strumentata e dalle sonorità “rotonde”, ma senza eccedere (e con un buon ritornello), anche se forse il titolo prometteva di più. Damn Drunk vede il nostro riunirsi assieme al suo ex compagno Brooks, per un midtempo dalla melodia tersa ma fin troppo radio-friendly (che poi è il suono che ha fatto vendere milionate di dischi ai due), mentre I Worship The Woman You Walked On è un altro slow, con tanto di archi in sottofondo, ben costruita ma eccessivamente finta e troppo poco spontanea (e poi il country dov’è?).

That’s Why They Make Jack Daniels (in questo album sono meglio i titoli rispetto ai brani stessi) è ancora una ballata, tra l’altro senza infamia e senza lode, ma il problema è (anche) un altro: quattro pezzi su quattro sono dei lenti, mentre sarebbe stato lecito, anzi auspicabile, pretendere anche un po’ di energia, una scintilla, del ritmo, ma probabilmente questo non è l’indirizzo giusto; qui non manca un bell’assolo di chitarra, ma sa lontano un miglio di posticcio, appiccicato alla bell’e meglio in mezzo alla canzone. I Put That There mostra finalmente un po’ di vita, ma non è country, al massimo è pop (e poi quel synth sullo sfondo..), ma poi con Young Buck l’atmosfera torna subito ad ammosciarsi, e non è che il resto sia molto meglio (in Still Feels Like Mexico c’è una delle regine assolute del country-pop più becero, ovvero Reba McEntire, mentre la title track è un tentativo di proporre un brano con un’atmosfera sixties tra errebi e doo-wop, ma l’arrangiamento è da mani nei capelli).Potrei anche proseguire con le restanti quattro canzoni, ma sarebbe uno spreco di energia digitale e mentale.

Pollice verso.

Marco Verdi