“Sembra” Lo Stesso, Bello In Ogni Caso! The Last Bison – Inheritance

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The Last Bison – Inheritance – Universal Republic

Se inserendo il dischetto nel lettore vi sembra di ascoltare una jam session tra i Mumford and Sons e i primi Decemberists o gli Avett Brothers più tradizionali, diciamo che, in linea di massima, non vi state sbagliando. La prima impressione è quella di una band folk vecchio stile, pur essendo in metà di mille, ok facciamo sette, come da foto, gatto escluso: due famiglie, gli Hardesty, Ben, il leader, voce solista, chitarra e batteria (tipo Marcus Mumford) ed autore dei brani, la sorella Hannah, alle percussioni, orchestra bells, diavolerie varie e armonie vocali e il babbo Dan, banjo, chitarra, mandolino e armonie vocali. Un’altra coppia di fratelli, amici di famiglia, Andrew & Jay Benfante, anche loro percussioni varie (ma ascoltando il disco non si direbbe che ci sia quest profusione di elementi ritimici) e il vecchio pump organ, aggiungete il cello di Amos Housworth e il violino di Teresa Totheroh, che sono altri elementi portanti del sound della band e voilà, il gioco è fatto.

Perché quel titolo, che poteva anche essere “sempre lo stesso”? Presto detto, oltre al genere che li accomuna ad altre formazioni, magari non un movimento, ma quasi, anche la storia del disco è curiosa. Il gruppo nasce nel 2010 e nel 2011 pubblicano, a livello indipendente, il primo album, Quill. Però allora si chiamavano ancora Bison, nome poi cambiato perché c’era un’altra band in circolazione con lo stesso nome, potrebbero essere i Bison B.C.? Boh. Ma il fatto peculiare è che ben sei brani di quell’album sono confluiti, pari pari, senza remix o nuove versioni e diversi arrangiamenti, in questa versione diciamo da major di Inheritance. Altri 4 erano già apparsi nell’EP dallo stesso titolo pubblicato lo scorso anno. Quindi alla fine, l’unico brano nuovo, per chi già li conosceva, è la title-track dell’album, che purtroppo è uno strumentale di  solo1 minuto e 1 secondo. Ma per chi non lo conosce è tutta un’altra storia.

Diciamo subito che, a fronte di una serie quasi unanime di critiche e recensioni positive, i Bison si sono trovati già fronteggiare un piccolo plotone dei “nemici” dei Mumford and Sons e soci, nato da qualche tempo, che trova questa musica monotona e ripetiva e pure noiosa, peraltro opinione rispetabilissima, se non fosse per partito preso, ma siccome non voglio creare una polemica inutile, passiamo a parlare dell’album: dopo la breve introduzione di Inheritance, parte Quill, mandolino, banjo e grancassa a manetta, cello e violino sottotraccia, alcuni strani strumenti dalle sonorità arcaiche, ma che si rifanno a vibrafono e antichi organetti, ricordano a chi scrive anche quelle atmosfere da fiera paesana che si potevano ascoltare (con diverse sonorità ma stesso spirito) in Being For The Benefit of Mr.Kite su Sgt. Pepper. Poi parte la loro “grande hit”, quella Switzerland che renderà felici i nostri vicini di casa della confederazione elvetica, atmosfere accelerate, percussioni in evidenza, ma anche, almeno nella parte iniziale, una voce stentorea, da fratelli americani dei Mumford, armonie vocali meno intricate ma sempre coinvolgenti, un ritornello che ti entra in testa, intervallato a segmenti più complessi, vagamente bucolici, con folk e arie classicheggianti che vanno a braccetto, violino e cello che cesellano, la voce di Ben Hardesty potrebbe avere qualche similitudine con quella di un Robin Williamson dell’Incredible String Band dei giorni nostri. Dark Am I sembra avvicinarsi agli Avett Brothers più roots, spruzzate di archi sul mandolino che conduce le danze, musica che sale e scende e il cantato. che pare sincero e non costruito, dei due fratelli Hardesty, con un continuo vorticare ciclico della musica che coinvolge e attrae l’ascoltatore.

River Rhine è più intima e meno enfatica, ma gli interventi corali quasi gospel delle voci arricchiscono un impianto costruito solo sull’acustica e sulle percussioni, con brevi interventi del pump organ, mentre Tired Hands con la sua apertura tracciata da violino e violoncello e poi il resto del gruppo che segue ha nuovamente quell’aura dei Beatles classicheggianti, quando seguivano l’impulso del Paul McCartney melodico ma colto, vista però dall’altra sponda dell’Atlantico, tra Copland e la mountain music. Molto bella anche Take All The Time sempre in bilico tra classico e folk, con la voce di  Ben Hardesty, sostenuta dal babbo, che si avventura in qualche ardito falsetto mentre cello e violino al solito cesellano le note. Interessante anche il quasi minuetto di Watches and Chains, sempre danzato su queste atmosfere sospese e raramente troppo cariche, improvvisamente squarciato da accelerazioni strumentali e poi quieto di nuovo. Musica che in teoria non parrebbe destinata al successo ma che sulla scia di formazioni come i Mumford and Sons, gli Avett Brothers, gli Hem, i Decemberists, gli Old Crow Medicine Show, i Fleet Foxes, i Monsters and Men e molti altri, sotto forme musicali diversificate e con diverse gradazioni di “elettricità” rock, sta lentamente conquistando un pubblico fedele (?) in giro per il mondo. 

Forse non sono così sensazionali come vengono dipinti, ma sicuramente Inheritance ha un suo fascino e una sua peculiarità, per cui segnatevi questo nome, Last Bison, e se vi capita cercate di ascoltarlo, forse non vi salverà la vita ma sicuramente vi garantirà 45 minuti di buona musica, e non è poco.

Bruno Conti