Come Il Diavolo E L’Acquasanta! Parte Prima: Revamp – Reimagining The Songs Of Elton John & Bernie Taupin

elton john revamp

VV.AA – Revamp: Reimagining The Songs Of Elton John & Bernie Taupin – Island/Universal CD

Non è la prima volta che viene dedicato un tributo alle canzoni di Elton John: il più famoso di essi è stato sicuramente il doppio Two Rooms, uscito nel 1991, che vedeva partecipare superstar più o meno valide, tra le quali ricordo Eric Clapton, Sting, Beach Boys, The Who, Sinead O’Connor, Tina Turner, Phil Collins e Jon Bon Jovi. Oggi però, in occasione dell’ultima tournée del cantante e pianista inglese (che si protrarrà per diversi anni), vengono pubblicati ben due tributi, intitolati rispettivamente Revamp e Restoration, dove artisti famosi si cimentano con i brani del nostro. La particolarità dei due dischi è che sono stati curati separatamente da Elton (Revamp) e dal suo storico paroliere Bernie Taupin (Restoration), coinvolgendo musicisti a loro scelta e con due direzioni musicali completamente differenti. Così Elton, che è sempre stata l’anima pop del duo, ha optato per musicisti contemporanei e “alla moda”, tra cui più di una scelta scellerata come vedremo, mentre Taupin, che ha sempre avuto una grande passione per l’America, ha supervisionato un omaggio di matrice country-rock, certamente più vicino ai nostri gusti. Oggi vi parlo di Revamp, il tributo di Elton, mentre Restoration occuperà la seconda parte in un post separato. Come ho appena accennato, Revamp è un disco al quale probabilmente non mi sarei dedicato se non facesse parte di un’operazione a due facce (operazione comunque dedicata ad un grande artista), in quanto la maggior parte dei personaggi coinvolti difficilmente troveranno posto anche in futuro nella mia collezione di dischi.

Ma Elton, si sa, forse anche per sentirsi giovane, ha sempre prediletto collaborare con artisti contemporanei fin dagli anni ottanta e novanta (nei settanta non ne aveva bisogno, era lui ad essere “cool”), e devo ammettere che qualche performance contenuta in questo disco si salva, ed alcune sono addirittura sorprendenti, forse non al punto di consigliarvi l’acquisto, per questo vedete voi. L’inizio fa veramente vomitare: Bennie & The Jets è accreditata ad Elton John con Pink ed il rapper Logic, peccato che la voce di Elton sia quella originale del 1973 ed orribilmente campionata, sonorità finte e zero feeling (e poi il rap che c’entra?). I Coldplay rifanno We All Fall In Love Sometimes, cover rispettosa anche se il pathos dell’originale se lo sognano, Alessia Cara ha una discreta voce, e la versione lenta, tra soul e gospel, di I Guess That’s Why They Call It The Blues non è neanche male, l’idolo delle ragazzine Ed Sheeran non entusiasma più di tanto con la mitica Candle In The Wind, ma è già un successo che non la massacri https://www.youtube.com/watch?v=5SZl0HCKDvY , mentre Florence And The Machine alle prese con la splendida Tiny Dancer fanno inaspettatamente le cose come si deve: strumentazione scarna, leggera orchestrazione e buona voce (e poi la bellezza della canzone fa il resto). Il fatto che i Mumford & Sons facciano parte di questa compilation e non dell’altra è abbastanza triste, e fa capire la china discendente presa dalla band americana, che per fortuna si ricorda ancora come si fa buona musica, e quindi la loro cover di Someone Saved My Life Tonight è ok, anche se nulla per cui strapparsi i capelli (ed anche qui il brano è talmente bello che già da solo fa il 50% del lavoro).

Mary J. Blige è una “sofisticatona”, ha una bella voce ma la sua Sorry Seems To Be The Hardest Word in veste errebi moderno e commerciale non mi piace per niente, ed è un mezzo delitto in quanto stiamo parlando di una delle ballate più belle di Elton; ancora peggio però fa Q-Tip, star (?) dell’hip-hop, con Demi Lovato, con una rilettura terrificante di Don’t Go Breaking My Heart, che già nella versione originale di Elton con Kiki Dee non è che fosse un capolavoro. Per contro i Killers, band di rock alternativo di Las Vegas, offre una buona prestazione con Mona Lisas And Mad Hatters, un brano non tra i più noti di Reginald ma bellissimo, ed il gruppo non deve far altro che riprenderlo, senza stravolgerlo più di tanto https://www.youtube.com/watch?v=x8mGSvhhHEY . Sam Smith non mi piace, ma ha una bella voce, e la sua Daniel, lenta e malinconica, è ben fatta e toccante al punto giusto https://www.youtube.com/watch?v=NXpuFetBcoE , ed anche Miley Cyrus sorprendentemente rilascia una Don’t Let The Sun Go Down On Me di buon livello, tra l’altro con i suoni giusti ed una voce mica da ridere. Brava. Ma il premio della migliore del disco se lo merita secondo me Lady Gaga (non credevo che un giorno le mie dita avrebbero potuto scrivere una frase simile): la sua Your Song, ancorché un tantino calligrafica, è molto piacevole, decisamente rispettosa e suonata in maniera seria. Chiudono i Queens Of The Stone Age, discreti, con una versione power ballad della splendida Goodbye Yellow Brick Road. Un disco a fasi alterne, con però la predominanza di performance di livello medio-basso, e che si riscatta solo nel finale. Con Restoration, pur non essendo un album imperdibile, sarà una storia diversa.

Marco Verdi

Se La Sono Presa Comoda, Ma Sono Decisamente Migliorati! The Lumineers – Cleopatra

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The Lumineers – Cleopatra – Dualtone CD USA – Decca/Universal Europa

Uno dei singoli più gettonati del 2012 è stato sicuramente Ho Hey, un brano folk-rock dal ritornello molto orecchiabile ad opera di un terzetto originario di Denver, The Lumineers, un successo che ha trascinato nelle classifiche di vendita anche il loro album omonimo di debutto, un buon disco che però dava la sensazione di essere inferiore a prodotti di altre band che si rivolgevano allo stesso bacino d’utenza, come Mumford & Sons, Low Anthem e Decemberists. Ora si rifanno vivi a ben quattro anni di distanza dall’esordio, un tempo molto lungo per una nuova band, ma devo dire che Cleopatra (da non confondersi con la famigerata etichetta californiana tanto amata da Bruno) è di gran lunga superiore al disco precedente: il loro percorso è quasi l’inverso degli Of Monsters And Men (altra band che si può equiparare ai nostri come stile), in quanto gli islandesi hanno esordito nel 2011 con un ottimo album (My Head Is An Animal) che conteneva un singolo, Little Talks, diventato poi un tormentone mondiale, mentre il loro secondo lavoro Beneath The Skin dell’anno scorso non era male ma non altrettanto esplosivo; al contrario, Cleopatra forse non conterrà una canzone spacca classifiche come Ho Hey ma si rivela un lavoro più unitario e riuscito (e le vendite danno ragione ai ragazzi di Denver, in quanto il disco sta già facendo molto bene ed è andato in testa sia in America che in Inghilterra).

Il trio è sempre composto da Wesley Schultz alla voce e chitarra, Jeremiah Fraites alla batteria e piano e Neyla Pekarek al basso e violoncello, ed in questo album si fanno aiutare da pochi ma selezionati amici, a partire da Simone Felice dei Felice Brothers,, che si occupa anche della produzione (*NDB. E anche dei The Duke And The King, tre splendidi dischi, che fine hanno fatto?), ed inoltre Byron Isaacs, Lauren Jacobson e David Baron: il suono non è cambiato molto dal loro esordio, i brani hanno sempre un forte impianto folk-rock con un retrogusto pop, con influenze che vanno da Bob Dylan (soprattutto) a Tom Petty, passando per Leonard Cohen e Bruce Springsteen (questi ultimi due non li ritrovo molto, ma mi inchino in quanto sono gli stessi membri del gruppo a citarli, anche se poi aggiungono anche Guns’n’Roses, Cars e Talking Heads…), canzoni elettroacustiche ma con la sezione ritmica sempre in grande evidenza, voci spesso cariche di eco e melodie dirette ed immediate. Il suono c’è, dunque, e se aggiungiamo che la qualità media delle canzoni è nettamente migliorata si può dire che Cleopatra contribuisce a mettere i Lumineers sullo stesso piano dei gruppi che ho citato all’inizio (anzi, mi sa che i Mumford & Sons ce li siamo giocati, *NDB 2. A giugno è in uscita un EP Johannesburg, con musicisti sudafricani, dove hanno cambiato ancora genere https://www.youtube.com/watch?v=eCIHPdx1OAs!); undici brani, ma quindici nella versione deluxe (che non ho. *NDB 3. E’ quella in MP3, per il download, che entrambi non amiamo molto) e quattordici in un’altra edizione in esclusiva per la catena americana Target, ma con tre canzoni che non sono le stesse della deluxe “normale” (adoro queste cose: ma non potevano fare una edizione sola, dato che quella regolare dura solo 33 minuti?).

Sleep On The Floor inizia con un drumming secco, un riff di chitarra elettrica e la voce di Schultz che canta un motivo suggestivo ma attendista nel primo minuto e mezzo, poi la ritmica sale ed il pezzo si trasforma in una rock song con tutti i crismi, potente e profondamente evocativa: un avvio migliore non poteva esserci. Ophelia (è il primo singolo, ma non è la stessa di The Band) ha un inizio sospeso, con piano, percussioni e voce, poi prende vivacità, la ritmica si fa saltellante ed arriva il classico ritornello orecchiabile, anche se è il pianoforte a mantenere il ruolo di protagonista: non è immediata come Ho Hey (anche se lo stile non è lontanissimo), ma cresce alla distanza. Cleopatra è un folk-rock elettrico dalla splendida melodia dylaniana, un mood trascinante ad ancora gran lavoro di piano, un brano di grande valore; Gun Song, ancora con Dylan in mente, è più acustica anche se la ritmica è sempre molto sostenuta, una costante nel suono del trio, mentre Angela (è il terzo brano su cinque con un nome di donna come titolo) è più tranquilla, inizia solo voce e chitarra (ma l’eco sulla voce non manca mai), poi entra il resto ed il pezzo cresce in pathos, grazie anche ad uno splendido break strumentale dove è ancora il piano a dettare legge. In The Light è una tenue ballata dalla melodia vincente e dall’arrangiamento semplice ma di grande impatto, con un finale maestoso che la catapulta tra le migliori del CD; ancora Dylan, quello dei primi anni, ad ispirare la limpida Long Way From Home, altro brano di notevole potenza emotiva, mentre Sick In The Head è l’unico pezzo un gradino sotto, a causa di uno sviluppo melodico un po’ incartato su sé stesso. L’album però si chiude molto bene con My Eyes, sempre a metà tra folk e rock, di grande forza nonostante il tempo lento, e con Patience, un breve ma suggestivo strumentale per piano solo.

Hanno avuto bisogno di tempo i Lumineers per dare un seguito al loro esordio, ma con Cleopatra hanno decisamente centrato il bersaglio e dimostrato di essere non solo un gruppo con un singolo fortunato al loro attivo, ma una vera band con un suo stile ed una spiccata personalità.

Marco Verdi

Una “ Piccola Gemma” Indie-Folk ! Ballroom Thieves – A Wolf In The Doorway

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Ballroom Thieves – A Wolf In The Doorway – Blue Corn Music

Sotto l’impulso dei (primi) Mumford & Sons si sono formate valide formazioni musicali come i Lumineers, un trio di Denver, gli islandesi Of Monsters And Men, e  i sorprendenti Bear’s Den (trovati occasionalmente girando un po’ in rete), come è capitato anche per questi Ballroom Thieves (dal nome bello e furfantesco, Ladri Delle Sale Da Ballo), un trio di musicisti provenienti da Boston, composto da Martin Earley alle chitarre, Devin Mauch alle percussioni, e la graziosa Calin Peters al cello. Dopo due EP sfornati (e accolti favorevolmente dalla stampa specializzata) Devil & The Deep (12) e l’omonimo The Ballroom Thieves (13), vengono messi sotto contratto dalla label indie Blue Corn,  e riescono a farsi conoscere a livello nazionale con questo A Wolf In The Doorway. Li aiutano in questo progetto musicisti di area “bostoniana” tra i quali Ariel Bernstein al piano, Dan Cardinal e Kirsten Lamb al basso, Bret Dale e George Woods alle chitarre elettriche, Abigate Reisman al violino, Mike Irvin alla tromba, e il bravissimo polistrumentista Charlie Rose, per una serie di canzoni folk profonde e suggestive, eseguite con perfette armonie vocali.

Si sale sulla pista da ballo con la tambureggiante Archers, una canzone perfetta per aprire le danze (e muovere i piedini), seguita dal vibrante violoncello che accompagna Lantern, mentre Bullett è un brano tipicamente irlandese, che inizia lentamente e poi si trasforma in una “giga”tutta da ballare. Con Saint Monica arriva la prima splendida ballata del disco, cantata da Devin con sentimento ed emozione, sulle note struggenti di un violino https://www.youtube.com/watch?v=Hhr-8qkNfWo , per poi passare alle atmosfere semi-acustiche di Wild Woman, al blues-folk di una Oars To The Sea con il suono di una bella chitarra “slide”, e tornare alle romantiche note di Bury Me Smiling, cantata con trasporto dalla brava Calin https://www.youtube.com/watch?v=WcrMjYrj2oM , e ricordare i migliori Mumford & Sons con una meravigliosa The Loneliness Waltz. Here. I Stand fa scoprire la parte più rock del gruppo, mentre un delizioso giro armonico accompagna la voce della Peters nella rilassante Anchors, a cui fanno seguito le note acustiche e melodiche di una sussurrata Oak,  infine si spengono le luci in sala sulle note struggenti di un violoncello per una intrigante Wolf, sostenuta da banjo, tromba e clarinetto, brano in cui i Ballroom Thieves ci portano verso il Sud dell’America.

In questi ultimi anni i ladri” si sono trovati ad aprire i concerti di gruppi affermati come i Railroad Earth, e di band abbastanza simili a loro quali Lone Bellow e Houndmouth, proponendo un suono molto distintivo che si basa primariamente sulle radici della musica popolare americana. A Wolf In The Doorway non sarà certamente il “disco dell’anno” (e neppure del mese), ma personalmente faccio fatica a trovare alcun difetto a questo lavoro, in quanto il suono è di prima qualità, le voci sono belle e armoniose, e le canzoni si fanno ascoltare piacevolmente. Consigliato a chi ama il genere, e in modo particolare a tutti quelli che sono rimasti delusi dai Mumford & Sons di Wilder Mind. Da tenere d’occhio !

Tino Montanari

Folk-Rock Per Il Nuovo Millennio: Una Delle Migliori Interpreti! Brandi Carlile – The Firewatcher’s Daughter

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Brandi Carlile – The Firewatcher’s Daughter – Ato Records

Come certo saprete se leggete il Blog abitualmente (e comunque, nel caso, lo ribadisco ora) al sottoscritto Brandi Carlile piace parecchio, anche gli ultimi due album che a livello critico diciamo che hanno avuto una reazione controversa, http://discoclub.myblog.it/2011/05/23/from-seattle-with-love-brandi-carlile-live-at-benaroya-hall/ e http://discoclub.myblog.it/2012/06/03/comunque-si-brandi-carlile-bear-creek/, a chi scrive non erano dispiaciuti per niente. Certo i due migliori rimangono The Story e Give Up The Ghost, due dischi che avevano seguito l’ottimo esordio omonimo del 2005, ora giunge questo The Firewatcher’s Daughter, quinto album di studio, che la riporta ai suoi massimi livelli qualitativi: nuova casa discografica (ora incide per la “indipendente” ATO di Dave Matthews, dopo un decennio con la potente Sony), ma sempre vecchi collaboratori, i Twins, Tim e Phil Hanseroth, altrettanto importanti nella composizione e nell’arrangiamento dei brani, anzi, a ben vedere, leggendo i credits del CD, la presenza dei gemelli, come autori delle canzoni, è addirittura superiore a quella della stessa Brandi.

Insomma, come dice il titolo del Post, Brandi Carlile è sicuramente uno dei migliori nuovi talenti della canzone americana, in perenne bilico tra folk, country, canzone d’autore e, in questo album, anche una forte componente di brani rock più energici, influenza venuta alla luce grazie ad un ascolto continuo e prolungato, da parte di Brandi e dei gemelli Hanseroth, della musica dei Fleewood Mac anni ’70, così hanno confidato loro stessi in alcune interviste per la promozione del nuovo album. Disco creato nei Bear Creek Studios, in una serie di veloci sessioni di registrazione realizzate dopo un lungo lavoro di preparazione e studio dei nuovi brani, effettuato nell’arco dei quasi tre anni che sono intercorsi dalla pubblicazione del precedente CD. Ci sono vari produttori in azione, dagli stessi Brandi e i gemelli, passando per Ryan Hadlock, Trina Shoemaker e Jerry Streeter, che hanno curato più la parte tecnica, ma il risultato non è confuso e pasticciato, al contrario regala alle canzoni una ampia gamma di temi, anche sonori, pur mantenendo una certa unformità di fondo. Tra i musicisti presenti si segnalano Josh Neumann al cello e agli archi, Jay Kardong alla pedal steel, Brian Griffin alla batteria, mentre i due Hanseroth suonano tutto il resto, con Brandi Carlile anche lei molto presente a chitarre e tastiere. L’unico ospite esterno è Mike McCready dei Pearl Jam, alla chitarra in Blood Muscle Skin And Bone, un brano che oscilla tra pop e rock da arena, forse non ai massimi livelli, pur essendo tra i più orecchiabili del disco.

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Già, le canzoni: Wherever Is Your Heart, è un esempio tipico dello stile compositivo della Carlile, una delle poche in grado di coniugare con successo folk, canzone d’autore e pop https://www.youtube.com/watch?v=d004yhBFmHI , grazie ad una voce sincera e partecipe, ricca di fuoco e passione, ma anche di tenerezza e delicati intrecci vocali folk nella bellissima The Eye, dove Brandi e i gemelli armonizzano con una leggiadria e una grazia difficilmente riscontrabili nella musica di oggi https://www.youtube.com/watch?v=gL5Qxj37huw (comunque tratti non assenti anche in molti altri musicisti), e che un tempo erano marchio di fabbrica degli artisti più interessanti. Per The Things I Regret sono stati scomodati i Mumford And Sons, perché il brano ha quella struttura a marcetta, con coretti ricorrenti, tipica della band inglese https://www.youtube.com/watch?v=bem32zF_w48 , ma la nostra giovane amica di Ravensdale, faceva questo tipo di canzoni fin dagli esordi, quando i Mumford non esistevano neppure. Mainstream Kid è un brano rock molto tirato https://www.youtube.com/watch?v=i4Y_ZHw10Vw, non diverso da quelli che facevano  ad inizio carriera i Lone Justice di Maria McKee, e la Carlile per l’occasione sfoggia una pimpante voce con toni quasi punk, mentre la chitarra di Tim Hanseroth inanella riff ed assoli con grande voluttà; Beginning To feel the years è una dolce nenia di stampo folk, dalla scarna strumentazione, una chitarra acustica acustica arpeggiata, un piano, sullo sfondo il cello di Neumann e una elettrica appena accenata.

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Ancora una chitarra con un leggero fingerpicking in Wilder (We’re Chained), un piccolo gioiellino folk scritto dal solo Tim Hanseroth, mentre la precedente era firmata dal gemello Phil, anche in questo caso i soliti deliziosi coretti dei tre protagonisti e piccole coloriture di cello a rendere più intima la canzone. Di Blood Muscle Skin And Bone si è detto, uno dei pezzi più radiofonici e rock dell’album https://www.youtube.com/watch?v=E75lFSq8enc , al contrario della successiva I Belong To You, viceversa uno dei brani più dolci, già nel suo repertorio live da qualche anno, con la classica weeping pedal steel di Kardong che gli dona un imprimatur quasi country-folk, per poi aprirsi in una ariosa parte melodica nel finale in leggero crescendo, quando entra il resto della strumentazione https://www.youtube.com/watch?v=h8g7qdOA1o8 . Ma in questo disco la nostra Brandi ha voglia di R&R, Alibi, in bilico tra echi degli anni sessanta e i Fleetwood Mac più sghembi di Lindsey Buckingham https://www.youtube.com/watch?v=Xz46LUc0Ze8 , viaggia ancora sulle ali di una grinta inconsueta https://www.youtube.com/watch?v=9-1xyUBgNo4 , ribadita anche in Stranger At My Door, quella che cita la “figlia del Firewatcher” del titolo dell’album, di nuovo a tempo di marcia, più elettrica e con citazioni celtiche nel finale, quando le chitarre vibrano di feedback. Sentimenti in libertà anche in Heroes And Songs, altro brano tipico del songbook della Carlile, solo voce, chitarre elettriche in fingerpicking e in leggera distorsione e, puf, siamo al finale, Murder In the city, l’unica cover del disco, un vecchio brano degli Avett Brothers che era su Gleam ma anche nel Live, Vol. 3 della definitiva consacrazione, con il cello di Josh Newman, compagno di viaggio di Brandi dal 1° album che rieccheggia quello di Joe Kwon, nel raccolto e conciso arrangiamento che lo contraddistingue. Il talento e la classe non mancano https://www.youtube.com/watch?v=VSZjEN3W7mk  e il disco è entrato addirittura al nono posto della classifica americana, a conferma che tra tante Taylor Swift, Kelly Clarkson, Drake e compagnia cantante anche facendo buona musica si può andare nei Top 10 delle vendite, per fortuna. E a fine anno l’hanno invitata a cantare al Radio City Music Hall, uno dei miti di New York!

Bruno Conti

P.s Nel 2008 era già bravissima come testimonia questo concerto al Newport Folk Festival

che è anche l’occasione per ricordarvi, visto che non l’avevo ancora fatto, che la MV (Music Vault) ossia la vecchia organizzazione del leggendario Bill Graham, da alcuni mesi sta inserendo gratuitamente filmati vecchi e nuovi tratti dal fantastico archivio che prima era disponibile solo a pagamento. Basta che clicchiate su https://www.youtube.com/channel/UCLmGm_X2L5Dt3W_8187gtmg  e vi si apre un mondo intero!

Come Un Buon Whisky Irlandese ! Foy Vance – Live At Bangor Abbey

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Foy Vance – Live At Bangor Abbey – Glassnote/Caroline Records

Foy Vance non è proprio uno di primo pelo (viaggia sui quaranta), ma è balzato alla mia attenzione (e di pochi altri) con il lavoro precedente Joy Of Nothing (13), passato purtroppo quasi inosservato. Foy è nato nella città di Bangor, Irlanda Del Nord, figlio di un predicatore, e subito dopo la nascita si è trasferito con la famiglia in America (Oklahoma e stati limitrofi), assimilando fin da piccolo le ricche tradizioni musicali del posto (soul, blues, gospel, in pratica tutta la musica nera) e, al suo ritorno in Irlanda alcuni anni più tardi, ha cominciato a creare la sua musica modellandola sui suoni acquisiti nella sua gioventù.

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Dopo anni di gavetta suonando in piccoli e fumosi locali e pub, Vance percorre molta strada in tour vari, aprendo i concerti di artisti del calibro di Bonnie Raitt, Michael Kiwanuka, Snow Patrol e David Gray (forse il suo punto di riferimento), arrivando all’esordio discografico con Hope (07) che getta le basi per il citato Joy Of Nothing (distribuito dalla stessa etichetta dei Mumford & Sons), dove  nei solchi virtuali del disco troviamo come ospiti la grande Bonnie Raitt e il giovanissimo emergente del pop-folk Ed Sheeran https://www.youtube.com/watch?v=2nnw4STQMSc . Inevitabilmente il passo successivo per Foy, raggiunto un certo successo, è stato registrare un disco dal vivo nella sua città natale, nella leggendaria Abbazia di Bangor,in due serate “old-out” nel mese di Agosto dello scorso anno.

Salgono sull’inconsueto palco, oltre a Vance chitarra e voce, Colm McClean alle chitarre e pedal steel, Conor McCreanor al basso, Michael Keeney al piano, Paul Hamilton alla batteria, e una sezione completa d’archi composta da Clare Hadwen e Kathleen Gillespie al violino, Richard Hadwen alla viola, e Kerry Brady al cello, che danno alle canzoni una melodia che cattura gli ascoltatori presenti.

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Il concerto parte con le candele accese e l’Abbazia zeppa di “fedeli” con una trascinante At Least My Heart Was Open (sembra uscita da un disco dei Mumford & Sons), a cui fanno seguito la nota Joy Of Nothing https://www.youtube.com/watch?v=9eYJRkhLTqg , l’elettroacustica dolcezza di Be The Song, la pianistica Closed Hand, Full Of Friends (dove entrano in scena gli archi) https://www.youtube.com/watch?v=l20m8xtzAPI , mentre con la ballata Regarding Your Lover https://www.youtube.com/watch?v=A8RBezOoFJ0 , Foy viaggia dalle parti del miglior David Gray. Dopo un sentito applauso, si prosegue con l’accattivante Janey, un altro brano pianistico come Paper Prince, passando poi alle delicatezze acustiche di Homebird, all’evocativa Two Shades Of Hope, e (tirate fuori i fazzoletti) alla splendida ballata strappacuore Feel For Me, cantata con anima e sentimento da Vance https://www.youtube.com/watch?v=8Hv83MGSFC0&list=PLWv-5ZeL4p5EovbkrBL_A2jfh-AY8rxwe&index=10 . Dopo un altro “singhiozzante” applauso e un breve discorso di ringraziamento da parte di Foy, il concerto riparte con la tambureggiante e acustica Be My Daughter, mentre la bella You And I viene eseguita senza il controcanto (nel disco duettava con la Raitt), mentre un bel lavoro della “slide” apre la struggente Concerning The Horizon, per poi chiudere con la melodia “bluesy” di Shed A Little Light e il lamento emozionale (tipico della natia Irlanda) di una accorata Guiding Light, cantata in coro con i “fedeli” presenti in chiesa. Hallelujah https://www.youtube.com/watch?v=yoX7bMKaKjw ! *NDB E c’è anche Make It Rain, la bonus su iTunes https://www.youtube.com/watch?v=wRnkFeywfBE

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Foy Vance possiede una bella voce, una buona scrittura, è un personaggio dalla faccia simpatica (con l’immancabile “coppola irlandese”), con dei baffetti da “sparviero”, che sotto l’imponente soffitto a volta dell’Abbazia di Bangor è tornato a suonare per la sua gente, con canzoni che non disdegnano la musica di buona qualità, e, per chi scrive, Vance è sicuramente il miglior nuovo cantautore che l’Irlanda del Nord ha prodotto in questi ultimi anni, e per scoprirlo è sufficiente acquistare questo CD, sedersi sulla poltrona di casa sorseggiando un buon whisky irlandese, e ascoltare con attenzione.

Tino Montanari

Più Che Terribile, Bellissimo, Il Disco ! Decemberists – What A Terrible World, What A Beautiful World

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Decemberists – What A Terrible World, What A Beautiful World – Rough Trade/Self

La storia dei Decemberists inizia nel 2000 in quel di Portland, quando un ragazzo nativo del Montana Colin Meloy, insieme al bassista Nate Query e alla organista Jenny Conlee, con la collaborazione del chitarrista Chris Funk e del batterista Ezra Holbrook, pubblicano in maniera artigianale il primo EP 5 Songs (01), dischetto che li lancerà verso la produzione musicale professionale, poi avviata con il primo album ufficiale Castaways And Cutouts (02), dove la band svaria tra dolci melodie, arrangiamenti ariosi e anche una lieve forma di psichedelia. Il secondo lavoro dei Decemberists vede l’entrata in formazione di Rachel Blumberg (alla batteria e seconda voce), Her Majestic (03) è  un disco che coniuga sonorità rurali con l’aggiunta di archi e fiati, una sorta di “concept-album” dedicato ad un tema specifico, formula che si ripropone con Picaresque (05), un lavoro più folk con sprazzi pure di sonorità vicine al pop più “raffinato”, a cui fanno seguire The Crane Wife (06), una “miscellanea” di suoni che vanno da richiami seventies, alla psichedelia, e persino intriganti danze gitane.

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Il grande salto arriva con The Hazard Of Love (09), una vera e propria opera-rock dove danno il loro contributo una serie di ospiti (tra i quali Robyn Hitchcock), con una prima parte composta da ballate e madrigali, e una seconda che si affida ad un rock classico, caratterizzato da un suono progressivo e psichedelico e che prende in parte le distanze dal folk degli esordi, per poi arrivare alla maturità con lo splendido The King Is Dead (11), con una fisionomia quasi “indie-rock” (certificata in tre brani del disco) con la presenza del chitarrista dei R.E.M. Peter Buck e di Gillian Welch, seguito da un EP di inediti Love Live The King (11) http://discoclub.myblog.it/2011/11/06/la-band-dell-anno-the-decemberists-long-live-the-king/ , arrivando poi al primo live ufficiale del gruppo, We All Raise Our Voices To The Air (12), dove si evidenzia ancora una volta la bravura della formazione (che nel corso degli anni, ha annoverato tra i suoi componenti anche Petra Haden, e turnisti di valore come la brava Lisa Molinaro, Jesse Emerson e David Langenes), sempre capitanata dal quarantenne Colin Meloy.

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Questo nuovo lavoro prodotto come di consueto da Tucker Martine (My Morning Jaket, Neko Case e la moglie Laura Veirs tra i suoi clienti ), vede la line-up del gruppo composta oltre che dal cantante, chitarrista  e compositore Meloy, da Jenny Conlee alle tastiere, piano e fisarmonica, Nate Query al basso e contrabbasso, il “nuovo” John Moen alla batteria e percussioni e il multi strumentista Chris Funk ,(che nel frattempo hanno avviato anche una carriera parallela con i Black Prairie) per quattordici brani pervasi da un senso cristallino della melodia, su un consueto impianto folk-rock. Si parte con The Singer Addresses His Audience una ballata acustica, dove spicca la coralità delle voci, seguita dalla baldanzosa Cavalry Captain, una gioiosa sinfonia come Philomena, che ricorda i favolosi anni ’60,  passando per il pomposo pop del singolo apripista Make You Better https://www.youtube.com/watch?v=Xq76aQRmbQA ,  e la trama sonora pianistica e chitarristica di Lake Song https://www.youtube.com/watch?v=_cErckfwG_8 . Con Till The Water’s All Long Gone si ritorna alla ballata elettroacustica, mentre The Wrong Year è ariosa e frizzante, di tutt’altro tenore la sofferta The Wrong Year con arpeggi di chitarra alla Bruce Cockburn https://www.youtube.com/watch?v=98XFrVREkm8 , per poi volare in Irlanda con Carolina Low e Anti-Summersong  in compagnia di violini, bouzouki e fisarmoniche. Ci si avvia al finale con la western-song Easy Come, Easy Go, un altro brano di spessore come Mistral, andando a chiudere con una ballata romantica come 12/17/12 (con una bella armonica che accompagna la melodia), e una meravigliosa A Beginning Song che inizia dentro una cornice acustica, per poi svilupparsi attraverso un crescendo alla Mumford & Sons https://www.youtube.com/watch?v=Cm6xtkX_Dvs .

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Passano gli anni, ma Colin Meloy non perde occasione di confermarsi un grandissimo cantastorie (dentro e fuori dai Decemberists), con un gruppo che rimane sempre fedele a sé stesso, e che negli anni, con merito e coerenza, ha consolidato la propria posizione di riferimento nel grande panorama della musica indipendente americana, e non solo. Le illustrazioni del CD, sono curate, com’è consuetudine, dalla moglie di Meloy, Carson Ellis!

Tino Montanari

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*NDB Per i più “ricchi” tra voi esistono anche delle versioni Deluxe dell’album, che trovate qui http://www.myplaydirect.com/the-decemberists/features/33948334

Piccoli “Mumford & Sons” Crescono…! Bear’s Den – Islands

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Bear’s Den – Islands – Communion Records/Universal

Preparate il portafoglio, perché tra un po’ vi sentirete più leggeri, in tutti i sensi, anche più felici volendo. Il sottobosco musicale inglese è talmente fertile e ricco di talenti che da solo basterebbe a riempire il sempre più asfittico attuale panorama musicale. A questa categoria (quella dei talenti) appartengono i Bear’s Den, il segreto “meglio custodito” dell’attuale scena folk londinese, che, dopo avere ottenuto un buon successo di critica con i due primi EP, Agape e Without/Within, fanno il loro esordio ufficiale con questo Islands https://www.youtube.com/watch?v=9TZh_md7DOI , distribuito dalla lodevole Communion Records tramite la major Universal, con un tipo di“sound” di matrice anglo-americana che non può non ricondurre ai più famosi Mumford & Sons (peratro al momento nella fase in cui la luna di miele con la critica sembra quasi finita, ingiustificatamente).

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I Bear’s Den sono un barbuto trio di musicisti, composto dal frontman Andrew Davie alla voce e chitarra, Joey Haynes voce e banjo e Kevin Jones voce e batteria, che dopo aver percorso nel giro di due anni una lunga strada di concerti e mini album indipendenti, escono dalla loro “nicchia” per concorrere (per chi scrive) al miglior debutto dell’anno. Le canzoni di Islands si animano subito con il banjo e i tamburi di una notevole Agape, seguita dalla delicata The Love We Stole, dalla struggente malinconia di Above The Clouds Of Pompei, con il banjo di Haynes che ti apre il cuore https://www.youtube.com/watch?v=pGXBR1wR-mo , come pure nelle successive Isaac, dalle splendide armonie vocali, e Think Of England un fiero e nostalgico omaggio alla loro patria. Si prosegue con Magdalene che potrebbe ricordare, almeno al sottoscritto, certe cose dei National,  per poi passare a quello che potrebbe essere il “clou” di tutto il lavoro, una splendida When You Break,  una sorta di moderno brano indie-folk caratterizzato da una intro straordinaria, che apre la strada anche ad una martellante e solida Stubborn Beast, prima di andare a chiudere con le raffinate note di Elysium https://www.youtube.com/watch?v=BH-wP2TDUBQ e le maestose armonie di Bad Blood, altro brano manifesto del gruppo, canzone che quando viene eseguita dal vivo, sprigiona tutta la sua bellezza https://www.youtube.com/watch?v=v5plSAtYiZE .

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I Bear’s Den sono “pionieri”, e seguaci al tempo stesso, di una nuova frontiera musicale, nelle loro mani canzoni di disperazione diventano momenti di gioia e di rara bellezza, e sarebbe veramente un delitto (musicale) che questi brani non trovino la giusta consacrazione: una band con un futuro luminoso all’orizzonte, e un presente, sempre per andare alla ricerca di paragoni, che li avvicina alla bellezza delle canzoni di Nathaniel Rateliff, altro musicista che si colloca in questa area musicale. Come al solito, la ricerca continua!

Tino Montanari

Di Padre In Figlio. Parte Seconda: Adam Cohen – We Go Home

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Adam Cohen – We Go Home – Cooking Vinyl

Domanda delle “cento pistole”: cosa fai quando sei il figlio di Leonard Cohen? Non deve essere stato certamente facile per Adam Cohen (figlio di un personaggio che insieme a Dylan, Springsteen, Cash, ecc. è una delle leggende della musica mondiale) confrontarsi costantemente con il mito paterno, fino a prendere coscienza della sua impossibilità https://www.youtube.com/watch?v=0DVYtpg8aSo . Eppure il buon Adam, dopo un più che discreto esordio con l’omonimo Adam Cohen (98) e un insignificante disco in francese edito solo in Canada dal titolo Melancolista (04), con grande tenacia è riuscito finalmente a liberarsi dalla pesante eredità di papà Leonard, prima con il notevole e acclamato Like A Man (11), e oggi tornando con questo nuovo lavoro, We Go Home, che taglia magnificamente il cordone ombelicale con il padre (o no? forse meglio accettarlo) https://www.youtube.com/watch?v=eN8NTw3XHO8

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Registrato nei luoghi dell’infanzia (la famosa sperduta isola greca di Hydra e la casa di Montreal), sotto la produzione del polistrumentista Don Miguel (alle chitarre, basso, piano e tastiere) e con l’apporto di “musicisti di famiglia” quali Pat Leonard, Bill Bottrell (appaiono entrambi anche in Popular Problems di Leonard che esce in questi giorni), e come ospite l’amica Serena Ryder https://www.youtube.com/watch?v=b9SqAjBQCKc che contribuisce, con la brava Mai Bloomfield (al cello e altri strumenti). alle armonie vocali.

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Il “fil rouge” di We Go Home è l’amore nelle varie forme (relazionato alla famiglia e alla religione) https://www.youtube.com/watch?v=f7Ot16ZOLpY  sin dal brano d’apertura, la delicata Song Of Me And You https://www.youtube.com/watch?v=zYa4T4V4I_o , passando per la profondità di suadenti ballate come Too Real (con la Ryder) e Fall Apart, alla title track, in perfetto stile Mumford & Sons https://www.youtube.com/watch?v=4o3UvJCvxAg , e ancora il folk-rock di Put Your Bags Down e So Much To Learn, ed emozionanti gospel songs dove sono più marcate certe sonorità paterne, come Uniform e Love Is, raggiungendo la perfezione con la meravigliosa What Kind Of Woman, andando infine a chiudere con la pianistica Swear I Was There con un notevole crescendo d’archi, e la dolce breve ninna-nanna Boats, che viene declamata da Adam sulle note del violino di Genevieve Clermont.

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Adam Cohen probabilmente non diventerà mai famoso come il padre, ma la musica di questo quarantaduenne “figlio d’arte” nato a Montreal, cittadino del mondo (ha vissuto in Grecia, Francia, Canada e America) con questo We Go Home, tra piano, chitarre, archi, cori e arrangiamenti garbati, si è meritata finalmente una propria dignità e identità artistica, e papà Leonard come tutti i genitori, ne sarà certamente fiero.

Tino Montanari

La “Cura” E’ Sempre Eccellente! Old Crow Medicine Show – Remedy

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Old Crow Medicine Show – Remedy – ATO Records

A meno di due anni da Carry Me Back di cui vi avevo puntualmente riferito sul Blog http://discoclub.myblog.it/2012/08/22/nostalgici-del-futuro-nel-passato-old-crow-medicine-show-car/, e da cui potete recuperare eventuali altre notizie sulla band, tornano gli Old Crow Medicine Show, con il nuovo album Remedy, che vede il ritorno in pianta stabile nel gruppo di Critter Fuqua, che peraltro aveva partecipato da “esterno” anche ai due precedenti, riportando la formazione al classico sestetto (o forse settetto?). In copertina la bandiera del Tennessee, quasi a significare un atto di amore per la loro nuova residenza (i sei/sette vengono un po’ da tutti gli Stati Uniti e si erano incontrati in quel di New York, dove grazie all’aiuto di Doc Watson era partita la loro carriera, a cavallo del nuovo secolo). Un altro personaggio importante si affaccia sulle loro traiettorie periodicamente: un certo Bob Dylan, che già sull’omonimo album di debutto aveva regalato alla band un brano inedito, Wagon Wheel, che li aveva fatti conoscere al grande pubblico e che, a tutt’oggi, è una delle canzoni migliori del repertorio degli OCMS.

Ma il buon Bob evidentemente ha sviluppato una passione irresitibile per il gruppo: infatti anche per il disco di quest’anno ha spedito il testo di una nuova canzone, Sweet Amarillo, completo di istruzioni su quali strumenti utilizzare, meno armonica e più violini, il ritornello dopo la 16a battuta, mi raccomando. Inutile dire che il brano, completato da Ketch Secor e Critter Fuqua, è uno dei migliori, probabilmente il migliore del disco, un pezzo che accoppia gli abituali bluegrass e otm dei “Crow” con sfumature cajun e la classifica andatura del miglior Bob Dylan campagnolo, i violini ci sono, quelli di Chance McCoy e Ketch Secor, un “friccico” di fisarmonica a cura di Fuqua, banjo, mandolino, chitarre, contrabbasso e anche una inconsueta batteria, raramente presente nella strumentazione, per segnare il tempo da valzerone della canzone, che più la ascolti più ti piace, magari meno orecchiabile di Wagon Wheel ma di piacevole impatto https://www.youtube.com/watch?v=PMNUCD9US5I . Un’altra caratteristica tipica di questa formazione è sempre stata quella dell’utilizzo di produttori di provata qualità: David Rawlings per i primi due, poi Don Was e, per gli ultimi due dischi, Ted Hutt. E anche se qualcuno sembra non gradire una certa patina, minima, di “contemporaneità” fornita da Hutt, al sottoscritto il sound, anche di questo nuovo album piace, un poco quello che è stato fatto, con le dovute differenze, da Rick Rubin con gli Avett Brothers.

Diciamo che il fatto che i componenti vadano e vengano, a compensare il rientro di Fuqua Willie Watson ha iniziato una carriera solista con Folk Singer Vol.1 https://www.youtube.com/watch?v=b5ukmBguMzYrende i lavori degli OCMS più vari e meno prevedibili. Anche Brushy Mountain Conjugal Trail, dal testo salace e divertente ha un approccio musicale ed un tipo di suono che sembra uscire dai solchi del Dylan nashvilliano di Blonde On Blonde, tra armonica e piano che si fanno largo nel consueto tappeto di mandolini,chitarre acustiche e dobro, tipico del gruppo, e pure il cantato è decisamente “ispirato” dal vecchio Bob https://www.youtube.com/watch?v=PiBXPWZnOyE . I vecchi fans non si preccupino, i frenetici breakdowns a ritmi frenetici, con violini, banjo e tutti gli ingredienti del bluegrass vecchio e nuovo che ti arrivano addosso come treni, non mancano, a partire da una 8 Dogs 8 Banjos che è un programma fin dal titolo. E non mancano neppure quelle ballate struggenti, tipiche del loro repertorio, come la meravigliosa e malinconica Dearly Departed Friend, una piccola meraviglia di strumentazioni parche e armonie vocali stupende (che sono presenti comunque in tutto il disco, un marchio di fabbrica), un esempio di country ballad perfetta, con pedal steel e batteria discreta che si integrano nel suono acustico tipico dei nostri amici. Mean Enough World,  viceversa, è un’altra sarabanda a tutta velocità, con armonica, voci, banjo e contrabbasso che si intrecciano in acrobatiche combinazioni.

Firewater è una ulteriore dimostrazione della loro dimestichezza con le canzoni country, anche quelle che prevedono una bella costruzione armonica, non solo velocità frenetiche e virtuosismi a pié sospinto, ma anche gusto per la melodia e delicate nuances sonore. Però li puoi tenere fermi giusto  per quei tre minuti, poi le mani riprendono a viaggiare sugli strumenti come se le loro vite e quelle degli ascoltatori dipendessero dal divertimento che riescono a generare, come nelle evoluzioni di Brave Boys. Doc’s Day è un sentito omaggio al loro vecchio mentore, Doc Watson, un brano che ha mille profumi, bluegrass, folk, old time, blues, hillbilly e tutti gli ingredienti di quella che viene comunemente definita country music, divertente e coinvolgente, suonata con gran classe, non puoi fare di muovere il piedino a tempo con la musica. O Cumberland ci porta dalle parti degli Appalachi e del folk old time, tra violini, banjo, dobro, l’immancabile armonica e sonorità acustiche che confermano la loro adesione alla tradizione della musica popolare americana. Ribadite in una Tennessee Bound che è un peana e un’ode allo stato che li ospita e da cui gran parte della musica che si ascolta in questo Remedy ha avuto le sue origini e la sua consacrazione.

Notevole anche Shit Creek, ancora un esempio della bravura degli Old Crow Medicine nel calarsi fino in fondo nei meandri della musica country ed uscirne sempre con qualcosa di originale e ricco di spunti, qui sono le derive folk del cantato corale e gli indiavolati interscambi tra i violini, il banjo e tutto il restanti elementi sonori della band. Anche un pizzico di western swing in Sweet Home per ulteriormente movimentare e differenziare i contenuti dell’album, prima di accomiatarsi con una intensa The Warden che li accomuna con i loro amici di oltreoceano, Mumford and Sons, con cui hanno condiviso un tour, in giro per l’America in treno, sul Big Express. quei brani maestosi ma semplici al tempo stesso, che si riappropriano della grande tradizione musicale, in questo caso americana, e, senza stravolgerla troppo, la fanno conoscere alle nuove generazioni, senza dimenticarsi delle “vecchie”, che approvano incondizionatamente (sto annuendo(. Niente di nuovo sotto il sole, però anche stare lì e prenderlo richiede quantomeno una certa classe! Esce domani, se volete fare un ascolto nel frattempo http://www.npr.org/2014/06/22/322596225/first-listen-old-crow-medicine-show-remedy

Bruno Conti

Los Angeles Was Alive That Night! A Musicares Tribute To Bruce Springsteen DVD

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A Musicares Tribute To Springsteen – Columbia/Sony Music DVD o Blu-ray

Vi ho annunciato qualche giorno fa l’uscita di questo bel DVD, dedicato alla serata della associazione Musicares che onora il personaggio musicale dell’anno che più si è distinto per le sue attività filantropiche, ed ora che l’ho visto vorrei parlarvene perché è veramente bello. Ultimamente sono stati pubblicati vari DVD musicali interessanti relativi a concerti (dei Dukes Of September avete letto un paio di giorni fa, del Live In Amsterdam di Beth Hart e Joe Bonamassa, una vera bomba, leggerete a giorni, prima sul Buscadero e più o meno contemporaneamente sul Blog, come preferite), peccato non sia stato pubblicato a livello ufficiale un altro ottimo concerto tributo andato in onda sulla televisione americana CBS, The Night That Changed America: A Grammy Salute To The Beatles, con Paul McCartney e Ringo Starr sul palco a godersi le proprie canzoni eseguite da altri e poi nel finale in concerto anche loro.

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Stesso tipo di concerto anche questo di Musicares: Bruce Springtsteen, Patti Scialfa, la mamma e la sorella di Bruce, cugini vari, la figlia con fidanzato, membri assortiti della E Street Band, celebrità musicali e non nella platea a farsi “massacrare” in modo divertente dall’host della serata, Jon Stewart, presentatore, stand-up comedian, attore e critico, nativo di New York (ma con agganci familiari nel New Jersey, che servono a creare un clima di allegra presa in giro con il boss), con interventi piacevoli e abbastanza comprensibili anche per non chi non mastica l’inglese perfettamente: non ci sono sottotitoli. Dopo la lunga introduzione di Stewart parte il concerto-tributo e quì non si “scherza” più. Chi c’è lo avrete letto, come si comporta ve lo dico subito.

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Aprono gli Alabama Shakes con una vibrante versione di Adam Raised A Cain, ma al di là della fantastica voce di Brittany Howard siamo nella media. Patti Smith Because The Night l’ha fatta miliardi di volte (anche Bruce), ma è sempre un piacere ascoltarla ed è anche l’occasione per scoprire l’house band della serata (non riportata nel libretto del DVD e citata fugacemente solo nei titoli di coda): comunque, senza nominarli tutti, tra i più noti ci sono Larry Campbell, chitarra, violino e mandolino, Shane Fontayne all’altra solista (“come è diventato vecchio!”) e il batterista Charley Drayton, già negli X-pensive Winos di Keith Richards, nei Divinyls, la band australiana della moglie Chrissy Amplett, in una nota di mestizia, scomparsa pochi mesi dopo questo concerto, soccombendo ad una lunga battaglia contro cancro e sclerosi multipla (il concerto è dell’8 febbraio 2013, lei morirà il 21 aprile). L’esecuzione dei brani si alterna tra il palco principale ed una piattaforma circolare in mezzo al pubblico per i brani acustici: proprio lì salgono Ben Harper, Natalie Maines e Charlie Musselwhite per una “discreta” versione di Atlantic City, un po’ fuori sincrono le voci di Harper, anche alla Weissenborn e Maines, che si riprendono nel finale e sempre gagliardo Musselwhite (Springsteen ricorderà a Charlie, nel discorso finale, che, anche se lui probabilmente non se ne accorse ai tempi, aprì per il grande armonicista all’inizio di carriera, quando era una sconosciuto). Ken Casey (dei Dropkick Murphys) regala ai presenti il momento irish-punk della serata, con una scatenata American Land. Uno dei momenti topici della serata è una fantastica versione di My City Of Ruins, fatta da Zac Brown e Mavis Staples, come se fosse un intreccio tra un brano della Band e un pezzo gospel, con un numeroso coro che dà un sapore “nero” ad un brano che rifiorisce in questo eccellente arrangiamento, Bruce e Patti tra il pubblico approvano.

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Di nuovo sul palco circolare per una ottima I’m On Fire nell’esecuzione dei Mumford and Sons: tutti e quattro attorno al microfono, con le voci che si intrecciano e l’accompagnamento, discreto ma efficace, di chitarra acustica, banjo, fisarmonica e contrabbasso. Possono dire quello che vogliono, ma sono bravi! Jackson Browne esegue da par suo una notevole American Skins (41 Shots), uno dei brani più politicizzati di Springtsteen, con la chitarra solista, sopra le righe, ma in questo caso efficacissima, di Tom Morello a sottolineare il pathos del brano, che nel finale diventa quasi una canzone alla Jackson Browne. Molto buona My Hometown nella rilettura appassionata di una sempre verde Emmylou Harris e bellissima e sorprendente, un altro degli highlights inattesi dell’evento, una One Step Up da brividi eseguita da Kenny Chesney (che ufficialmente rivaluto), solo chitarra acustica e piano, tenera e intensa, rivaluto anche la canzone. Eccellente anche Streets Of Philadelphia, un crescendo di emozioni, con Elton John che accarezza il suo piano e. ben coadiuvato da un quartetto notevole di accompagnatori, propone una versione corposa del brano della colonna sonora vincitrice, presumo in quel teatro, del Grammy nel 1995. Direi superiore all’originale, quantomeno “diversa”! Nella norma la divertente Hungry Heart cantata da Juanes con intro e finale in spagnolo, ma senza il classico call and response con il pubblico. E piacevole e onesto, ma nulla più, il duetto tra il “cappelluto” Tim McGraw e Faith Hill (poco utilizzata) per Tougher Than Rest, anche se la pattuglia country alla fine si è fatta onore.

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Tom Morello e Jim James dei My Morning Jacket si esaltano in un duello vocale e chitarristico nella “nuova versione” elettrica di The Ghost Of Tom Joad, che è sempre un bel sentire, anche se la sorpresa per i virtuosismi solistici di Morello è meno evidente rispetto alle prime volte, bella comunque. Notevolissimo, e anche questo sorprendente, il ribaltamento che subisce Dancing In The Dark da parte di John Legend, che come ricorda lo stesso Bruce nel discorso di accettazione del premio, diventa quasi un brano di George Gershwin, solo voce e piano e con una intensità ed una qualità veramente fuori dal comune.”Normale” ma ben fatta, per contro, Lonesome Day, ” Policizzata” (si può dire?) e molto ritmica, per quanto sempre coinvolgente. Chiude il concerto il “solito” Neil Young, più pazzarello del solito, con Crazy Horse al seguito, dove rientra Nils Lofgren per l’occasione, che esegue una violentissima Born In Usa, à la Young, con chitarre a manetta, ma pure con ironia, il tocco della majorettes non proprio di primo pelo che ballano sul palco ha i crismi della genialità, e il ripetuto urlo “Bruce” a fine canzone ha tutto l’affetto del personaggio per i colleghi musicisti che stima.

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Un altro Neil, Portnow, che è il presidente della NARAS (ma come ricorda lui stesso, più o meno allo stesso tempo degli esordi di Bruce, suonava il basso con la misconosciuta garage band dei Savages), consegna il premio a Springsteen che non può esimersi da uno dei suoi classici discorsi di ringraziamento, tra il serio e il faceto, che valgono quasi come una delle sue classiche introduzioni concertistiche https://www.youtube.com/watch?v=7jxS86fRNSQ . E ricorda lui stesso che in quegli stessi giorni si esibiva anche ai Grammy, in entrambe le occasioni, per fare della sana  promozione a Wrecking Ball, pubblicato da poco. E quindi via la giacca, maniche arrotolate e vai con We Take Care Of Our Own e Death Of My Hometown da quel disco (non la con la E Street Band, che arriva tra un attimo), ma con la house band della serata, aumentata da Patti Scialfa, Morello e Lofgren. Poi arrivano gli altri, Bittan, Tallent, Weinberg, Jake Clemons e partono a formazione allargata due versioni micidiali di Thunder Road e Born To Run, con il pubblico che su istigazione di Bruce ha abbandonato i tavolini da tempo e si accalca sotto il palco per il gran finale di rito, con tutti i partecipanti della serata ad intonare Glory Days, Neil Young e Patti Smith, come due “divinità benevole” sopra la batteria di Max Weinberg a dirigere i cori e gli altri che seguono generosamente il Boss, che stranamente sceglie Tim McGraw per cantare una strofa della canzone. Titoli di coda e tutti a casa: se siete già a casa e volete vederlo, uscite a comprarvi il DVD o il Blu-ray (filmati ufficiali su YouTube nulla), vale le 2 ore e 15 minuti che si passano davanti allo schermo! L’anno prossimo Carole King.

Bruno Conti