Tra Folk, Rock E Country, Un Ottimo Duo O Mini Band Che Dir Si Voglia. Caamp – By And By

caamp by & by

Caamp – By And By – By And By Records/Mom + Pop

Attivi discograficamente dal 2016, con un CD acustico autogestito e un paio di EP, i Caamp sono un duo folk(rock) che viene da Columbus, Ohio, formato da due amici di infanzia, Taylor Meier, voce solista e chitarra, e Evan Westfall, banjo, che però si arrangiano anche con batteria, piano e chitarre elettriche, ai quali sì è aggiunto nel 2018 il bassista Matt Vinson. Diciamo che dal folk più minimale degli esordi, i due hanno aggiunto man mano una strumentazione più ricercata, elementi  di roots rock, qualche sentore blues e folk, creando un suono più robusto, dove confluiscono elementi che ricordano lo Springsteen di Nebraska o Ghost Of Tom Joad, ma anche le melodie più accattivanti di Lumineers, Fleet Foxes e Mumford and Sons, e grazie alla voce profonda ed espressiva di Meier, qualcuno ha fatto dei paragoni pure con il giovane Alex Chilton dei Box Tops. Tutte cose che ci potrebbero stare.

Feels Like Home parte con una acustica accarezzata, poi entra il banjo che è lo strumento più caratterizzante del suono, una ballata dai retrogusti gospel , con la voce rauca ed appassionata che intona una sorta di peana malinconico alla propria terra di origine, fino ad una accelerazione del ritmo nel finale che ricorda i primi brani, i migliori dei Mumford and Sons, anche con qualche coretto ad hoc. Keep The Blues Away, come da titolo, il blues non lo allontana, ma lo abbellisce di elementi country e folk, qualche vago rimando alla prima Nitty Gritty spensierata o a dei Lumineers in possesso di un cantante più dotato vocalmente (insomma), sempre con il banjo a menare le danze, poi a seguire arriva un pezzo più elettrico come No Sleep, che introduce elementi  di R&R gentile alla Buddy Holly o del primo Jonathan Richman, con la batteria che si fa aggressiva insieme alla chitarra, ma niente di “pericoloso”. Peach Fuzz ha un riff che ricorda, neanche tanto vagamente, quello di Sweet Jane, riteniamolo un omaggio più che un plagio, visto che poi il brano cambia, sempre con un piacevole afflato rock, comprensivo di marcato groove basso-batteria e di un bel assolo di chitarra elettrica.

Wolf Song è un deliziosa ballatona folk, all’inizio solo chitarra acustica, banjo e basso, una bella melodia e la voce struggente di Meier, su cui si innesta anche l’intervento della tromba di Lee Tucker, poi entra il resto della band , per un brano veramente bello. Penny Heads Up è nuovamente più allegra e disimpegnata, un ritornello che ti rimane in testa facilmente, come quello della successiva Wunderbar, più malinconica e con vaghe reminiscenze à la Nick Drake, grazie al contrabbasso di Vinson che fa il Danny Thompson, mentre il banjo ricama nella più animata parte finale. On & On &On ha nostalgici sentori pop targati sixties, miscelati al solito folk umorale della band, con tocchi deliziosi di una chitarra elettrica twangy, con la felpata Moonsmoke che mette in evidenza la voce roca e risonante di Meier, appoggiata su un arrangiamento scarno ma raffinato, Huckleberry Love è di nuovo portatrice sana di folk, intriso di armonie spigliate e sbarazzine, magari non perfettamente compiuta, anche se nel finale si anima in modo brillante, grazie al solito interscambio tra banjo e chitarra elettrica, mentre la title track è una classica canzone da provetto cantautore folk, colpito da una improvvisa botta di allegria, sempre immersa tra strimpellate di acustica e banjo, e il giusto tocco della elettrica.

A chiudere, le meditazioni di Of Love And Life la tipica Campfire Song da cantare in un circolo di amici, mentre qualcuno suona il banjo e tutti armonizzano piacevolmente, mentre qualcun altro mi spiega cosa diavolo significa Caamp! Al solito reperibilità alquanto scarsa.

Bruno Conti

Ecco Un Altro Che Migliora Disco Dopo Disco! Drew Holcomb & The Neighbors – Dragons

drew holcomb neighbors

Drew Holcomb & The Neighbors – Dragons – Magnolia/Thirty Tigers CD

A poco più di due anni dall’ottimo Souvenir https://discoclub.myblog.it/2017/03/30/saluti-da-nashville-il-meglio-nel-genere-americana-drew-holcomb-the-neighbors-souvenir/ , si rifà vivo con un lavoro nuovo di zecca Drew Holcomb, musicista originario di Memphis ma trapiantato a Nashville da diversi anni. Prolifico come pochi (Dragons è il suo tredicesimo album dal 2005 ad oggi, includendo però anche i live ed un paio di CD natalizi), Holcomb è un cantautore classico che fonde in maniera mirabile rock, country e Americana, ed è dotato di una facilità di scrittura che lo porta a costruire dischi pieni di canzoni belle e dirette, di quelle che piacciono al primo ascolto e che in maniera ciclica viene voglia di rimettere nel lettore (scusate se faccio riferimento a queste arcaiche azioni di fruizione della musica, è già tanto che non abbia detto “viene voglia di rimettere sul piatto del giradischi”).

Dragons vede il barbuto songwriter all’opera in dieci nuovi brani per una durata complessiva di 34 minuti, accompagnato come sempre dai fedeli Neighbors (Nathan Dugger, chitarre, piano, steel, tastiere ed quant’altro, Rich Brinsfield, basso, e Will Sayles, batteria, mentre Cason Cooley produce il disco e funge da membro aggiunto suonando il piano ed altre cosucce) e con l’aggiunta di qualche ospite perlopiù femminile che vedremo illustrando le canzoni. E l’album è davvero bellissimo, piacevole e ben fatto, un lavoro che conferma il talento compositivo di Drew e si pone sin dal primo ascolto come il suo lavoro più riuscito (almeno secondo il mio parere), a partire dall’iniziale Family, un pezzo allegro, gioioso e profondamente coinvolgente, uno sorta di folk-rock elettrificato e corale dal train sonoro irresistibile. End Of The World è una rock ballad ad ampio respiro, arrangiata in modo arioso e potente, cantata benissimo e caratterizzata da un motivo fluido e diretto, ancora influenzato dal folk (lo stile è simile a quello dei Lumineers, ma a livello compositivo siamo su un altro pianeta); But I’ll Never Forget The Way You Make Me Feel è il primo di cinque brani consecutivi con ospiti, nella fattispecie la moglie di Drew, Ellie Holcomb, per una deliziosa canzone dal tempo cadenzato e con un luccicante pianoforte alle spalle, il tutto suonato e cantato con estrema finezza: splendida.

La title track è un sontuoso slow di chiara matrice country, una melodia bellissima (ricorda un po’ Paradise di John Prine) ed un arrangiamento semplice basato su chitarra, piano e sulla partecipazione vocale dei Lone Bellow al completo (ed il pezzo è scritto insieme al leader del trio di Brooklyn Zach Williams): una delle più belle canzoni da me sentite ultimamente, e non esagero. See The World vede il ritorno di Ellie per un altro brano dallo sviluppo disteso e rilassato, con un songwriting classico che si rifà direttamente agli anni settanta ed un bell’assolo chitarristico, mentre You Want What You Can’t Have, in cui la partecipazione vocale è di Lori McKenna, è l’ennesima canzone splendida, una ballatona country-rock vibrante e dal ritmo acceso. In Maybe Drew viene raggiunto dalla brava Natalie Hemby (che con Brandi Carlile, Amanda Shires e Maren Morris ha appena pubblicato l’album d’esordio delle Highwomen, altro gran disco tra l’altro), la quale è anche co-autrice del brano, una rock song lenta ma dall’emozionante crescendo elettrico, mentre Make It Look So Easy ripresenta di nuovo Holcomb in compagnia esclusiva dei suoi “Vicini Di Casa”, per un pezzo dal ritmo sostenuto e contraddistinto dalla solita melodia vincente, puro rock chitarristico con ottimo assolo di Dugger.

Il CD termina con You Never Leave My Heart, toccante ballata pianistica dal pathos notevole, e con Bittersweet, unico pezzo del disco con sonorità moderne e leggermente “sintetizzate”, che però non va ad inficiare la qualità complessiva di un album che potremmo anche ritrovare nelle classifiche di fine anno.

Marco Verdi

Una Coppia Affiatata, Non Solo Nella Vita. Shovels & Rope – By Blood

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Shovels & Rope – By Blood – Dualtone CD

Settimo album in dodici anni (quinto di materiale originale, più due di covers) per gli Shovels & Rope, un duo formato dai coniugi Michael Trent e Cary Ann Hearst, che hanno iniziato ad incidere insieme nel 2008 dopo qualche anno di carriere soliste separate. Inizialmente si sarebbe dovuto trattare di un progetto estemporaneo, ma un po’ il rafforzarsi del loro legame sentimentale un po’ il fatto che i loro primi album hanno subito riscosso un buon successo di critica e pubblico, eccoci ancora qui a commentare una incisione a loro nome. By Blood prosegue il discorso musicale intrapreso più di una decade fa da Mike e Cary Ann, una musica in bilico tra folk, country e rock con brani dalla struttura perlopiù classica ma arrangiati con sonorità moderne, ed una buona predisposizione dei due a scrivere melodie fruibili ed immediate, I nostri sono poi un’autentica “two-men band” (anzi, sarebbe meglio dire “one couple band”), in quanto si occupano in prima persona di tutte le parti vocali e strumentali, facendosi aiutare da musicisti esterni solo nelle esibizioni dal vivo: anche in By Blood si conferma la tendenza polistrumentistica del duo originario della Carolina del Sud, con l’unico contributo di Daniel Coolik al violino in un brano e di una piccola sezione fiati in un altro.

Mike si occupa anche della produzione, e By Blood si rivela essere un dischetto molto gradevole e ben eseguito, che non deluderà chi già conosce lo stile dei nostri, mentre potrebbe anche contribuire ad allargare nuovamente i loro orizzonti dopo che il precedente album Little Seeds (2016) non aveva bissato il successo di Swimmin’ Time del 2014, ad oggi il lavoro più popolare degli S&R. I’m Comin’ Out è un inizio molto particolare, un folk-rock corale e gradevole dal punto di vista melodico ma con il contrasto di un accompagnamento sghembo e modernista, una chitarra elettrica distorta sullo sfondo, ritmo cadenzato e suono potente, una miscela strana ma che tutto sommato funziona. Mississippi Nuthin’ va più sul tradizionale con una chitarra acustica strimpellata con forza, un motivo a due voci decisamente immediato e piacevole ed un ritmo sostenuto: una buona canzone, che potrebbe ricordare lo stile dei Lumineers, ma Mike e Cary Ann sono meno eterei e più concreti https://www.youtube.com/watch?v=mMKxTjo21bI . The Wire inizia con chitarra elettrica e batteria che sembra che vadano ognuna per conto suo, poi i nostri cominciano a cantare e tutto va a posto, con notevole aumento dell’energia rock nel refrain https://www.youtube.com/watch?v=7jpgvPwC7RA , C’Mon Utah! è invece una folk ballad limpida e dal sapore classico, ottima melodia ed un evocativo assolo di armonica, una bella canzone con un retrogusto anni settanta.

Carry Me Home inizia pianistica e lenta, le voci sono sempre all’unisono ed il motivo di fondo è toccante, con una leggera ed apprezzabile aura pop. Twisted Sisters è dotata di un’atmosfera anni sessanta, anche se i nostri cantano in maniera grintosa (soprattutto Mike), ma il motivo di fondo è bello e ad un certo punto spunta persino una sezione fiati mariachi, mentre Good Old Days è davvero un’ottima canzone, una distesa ballata tra folk e cantautorato puro, intensa, struggente e guidata da piano, organo ed una splendida chitarra acustica. https://www.youtube.com/watch?v=LjQomuXEnf8  Pretty Polly non è il traditional dallo stesso titolo ma un brano nuovo di zecca, una rock song elettroacustica dal ritmo e melodia coinvolgenti ed un suono vigoroso, Hammer, aperta da un violino, è una country song decisamente (e volutamente) sgangherata, ma anche creativa e particolare, mentre il CD si chiude con la title track, una ballata acustica molto bella e profonda, una delle più toccanti e riuscite dell’album https://www.youtube.com/watch?v=bRcm2HFKZsU . Non sono mai stato un acceso fan degli Shovels & Rope, ma non li ho mai neppure osteggiati, e devo dire che un disco come By Blood è gradevole, ben fatto e meritevole di attenzione.

Marco Verdi

Ottimo Cantautorato Dai Confini Del Mondo. Graeme James – The Long Way Home

graeme james the long way home

Graeme James – The Long Way Home – Nettwerk CD

La Nuova Zelanda, oltre che lontana geograficamente, è una terra abbastanza ai margini anche per quanto riguarda la musica, a differenza della vicina Australia che negli anni ha prodotto diversi artisti di qualità. Graeme James è un cantautore che proviene proprio dall’isola a sud-est della terra dei canguri, e ha esordito nel 2016 con News From Nowhere, titolo che ironizzava proprio sulla posizione ai confini del mondo del suo luogo d’origine. Da allora ha pubblicato altri due dischi, entrambi piuttosto difficili da trovare, mentre a Gennaio di quest’anno si è rifatto vivo con The Long Way Home, che non è il suo esordio come molti hanno scritto ma di certo il suo lavoro finora con una distribuzione più diffusa. Graeme è un songwriter classico, con uno stile molto folk, che ha la particolarità di suonare tutti gli strumenti e cantare tutte le parti vocali, oltre ad occuparsi della produzione. Un vero one-man band, anche se il risultato finale non suona per nulla approssimativo o artigianale, ma anzi il disco risulta piacevole e ben costruito, con una serie di canzoni scritte con uno stile diretto e spesso con un buon senso del ritmo, al punto che sembra essere frutto del lavoro di una band di più elementi.

Le undici canzoni di The Long Way Home sono tutte estremamente gradevoli, e fanno venire in mente spazi aperti ed orizzonti a perdita d’occhio, un paesaggio che in Nuova Zelanda non è certo estraneo. Come nell’apertura di Night Train, un brano saltellante e decisamente godibile, guidato da un mandolino che tiene il ritmo, un basso pulsante ed una melodia fresca ed immediata: Graeme ha una bella voce, profonda e molto musicale, e si dimostra da subito un autore preparato ed un valido polistrumentista (c’è anche un ottimo intervento di violino). Anche The Times Are Changing è introdotta dal mandolino, ed è contraddistinta da un motivo più complesso e non prevedibile, ma pur sempre orecchiabile: lo stile è una via di mezzo tra folk e pop, e Jones non è di certo di quei cantautori che fanno dormire. La title track è più pacata, con un mood molto disteso ed un arrangiamento arioso ed avvolgente, pochi strumenti ma neanche una nota fuori posto; il mandolino è lo strumento principale in quasi tutti i brani, ed apre anche la bellissima To Be Found By Love, una vivace folk tune dal deciso sapore irlandese, con uno strepitoso violino ed una melodia coinvolgente.

Western Lakes è una ballatona ancora dal sapore folk, fluida e rilassata, con il nostro che riesce ad emozionare anche con pochi accordi; in Here And Now al consueto mandolino si affianca una chitarra elettrica, per un pezzo sempre dal passo lento ma dall’approccio più rock: c’è qualche vaga somiglianza con gli U2 degli anni ottanta, cioè quelli buoni. Per contro Reverie è la più acustica finora, un delicato bozzetto per voce, chitarra, mandolino ed uno struggente violoncello; Always è uno slow pianistico (con il piano suonato da Jonathan Crehan, unico musicista esterno del disco), e si impone da subito come una delle canzoni più profonde ed intense del CD. Con The Difference si torna su territori decisamente folk-rock, un brano terso e cadenzato che piace al primo ascolto, Way Up High prosegue sulla medesima falsariga, ma con un feeling ancora più folk (una via di mezzo tra i Lumineers e gli Of Monsters And Men), mentre By & By chiude l’album con una vivace e pura canzone dal sapore tradizionale, incisa in maniera volutamente low-fi (su un registratore portatile).

Un singolo artista è poco per parlare di una scena musicale neozelandese, ma di certo Graeme James non è un songwriter da bypassare senza prima averlo ascoltato.

Marco Verdi

Recensioni Cofanetti Autunno-Inverno 7. Gli Inizi Di Uno Dei Gruppi Più Originali Degli Ultimi Anni. Fleet Foxes – First Collection 2006 – 2009

fleet foxe first collection 2006-2009

Fleet Foxes – First Collection 2006 – 2009 – Nonesuch/Warner 4CD – 4LP (1×12” + 3×10”)

I Fleet Foxes, band di Seattle capitanata dal vulcanico e geniale Robin Pecknold, sono indubbiamente tra i gruppi più originali e particolari degli ultimi quindici anni: la loro miscela di folk, rock, pop e sonorità californiane tipiche degli anni settanta, un suono elaborato ed accattivante nello stesso tempo, è quanto di più innovativo si possa trovare oggi in circolazione. Il loro secondo album, Helplessness Blues (2011), aveva ottenuto consensi ed ottime vendite ovunque https://discoclub.myblog.it/2011/05/03/una-attesa-conferma-fleet-foxes-helplessness-blues/ , ed il suo seguito uscito lo scorso anno, Crack-Up, pur essendo leggermente inferiore https://discoclub.myblog.it/2017/06/02/fortunatamente-non-si-sono-persi-per-strada-anteprima-fleet-foxes-crack-up/ , era comunque un lavoro più che buono. Ora, per quanti (sottoscritto incluso) hanno conosciuto la band solo con Helplessness Blues, Pecknold e compagni pubblicano questo box quadruplo (consiglio la versione in CD, che ha un prezzo contenuto) intitolato First Collection 2006 – 2009, che raccoglie i due rari EP d’esordio del gruppo, il loro primo album Fleet Foxes del 2008, ed un altro EP esclusivo intitolato B-Sides And Rarities.

fleet foxe first collection 2006-2009 vinile

Il cofanettino, almeno quello in CD, è piccolo e maneggevole, ma in ogni caso è molto curato e dotato di un bel libretto ricco di foto, informazioni e testi di tutte le canzoni, ed il suono è stato rimasterizzato alla grande: vediamo dunque il contenuto musicale disco per disco (il box presenta l’album come CD1 ed i due EP come CD2 e 3, ma io andrò in ordine cronologico, che è anche il modo in cui consiglio di ascoltare i vari dischetti). The Fleet Foxes EP (2006): mini album di sei pezzi venduto dalla band ai concerti, pare ne esistano solo 50 copie “fisiche”, mentre in download è più facile da reperire. Nonostante il gruppo fosse all’epoca già un quintetto, nel disco suona tutto Pecknold, tranne la batteria che è nelle mani di Garret Croxon; il suono è più rock e diretto che in seguito, ma qua e là ci sono già i germogli dello stile che verrà. She Got Dressed è una rock song potente ed elettrica, piuttosto rigorosa anche nella struttura melodica; anche meglio In The Hot Hot Rays, una deliziosa e solare canzone pop, dal ritmo sostenuto e con una chitarra decisamente “californiana”. Anyone Who’s Anyone è contraddistinta da una splendida chitarra twang e da una performance forte e vitale, con un uso delle voci molto creativo, mentre Textbook Love è ancora pop deluxe, con Robin che mostra già di avere una personalità debordante. Il mini album termina con la vigorosa ed elettrica So Long To The Headstrong, tra pop e rock e melodicamente complessa, e con Icicle Tusk, folk, cantautorale e più vicina ai Fleet Foxes di oggi.

Sun Giant (2008): secondo EP del gruppo, uscito appena due mesi prima del loro debut album (ma con il quale non ha pezzi in comune). Ed ecco i Fleet Foxes che conosciamo (a proposito, qua ci sono anche gli altri: Skyler Skjelset, chitarra, Casey Wescott, tastiere, Craig Curran, basso e Nicholas Peterson, batteria), con melodie quasi eteree, di stampo folk, ma con qualche elemento di psichedelia ed un vulcano di idee. La title track apre in modo suggestivo, con un canto corale a cappella, quasi ecclesiastico, seguito a ruota dall’intrigante Drops In The River, brano cadenzato, decisamente folk-rock nella struttura ed un motivo diretto, sempre giocato sull’uso particolare delle voci. Restiamo in territori folk con la saltellante English House, che ricorda un po’ lo stile dei Lumineers, ed anche con la splendida Mykonos, una canzone intensa, fluida e dalla melodia davvero suggestiva, con armonie vocali degne di CSN; chiusura con la lenta Innocent Son, solo per voce e chitarra. Fleet Foxes (2008): ed è la volta del primo album, che ha compiuto una decade esatta proprio quest’anno: inizio con la sognante e folkie Sun It Rises, ancora più vicina al suono odierno, un brano elettroacustico dal crescendo strumentale coinvolgente ed una melodia sospesa alla David Crosby; la corale White Winter Hymnal è davvero bellissima, ha un motivo circolare ed un sottofondo musicale di grande respiro, mentre Ragged Wood è sostenuta da un ritmo acceso e da uno sviluppo disteso e forte al tempo stesso, con decisi cambi di tempo e melodia tipici di Pecknold.

Sentite poi Tiger Mountain Peasant Song, folk ballad splendida, pura e cristallina, o la mossa Quiet Houses, sempre con un uso molto interessante delle voci e soluzioni melodiche mai banali, o ancora He Doesn’t Know Why, altra deliziosa canzone tra folk d’autore e pop adulto. Tra i pezzi rimanenti, non posso non segnalare lo strumentale (ma le voci non mancano) Heard Them Stirring, puro Laurel Canyon Sound, l’acustica ed intensissima Meadowlarks o la conclusiva Oliver James, in cui la voce di Robin è praticamente lo strumento solista. B- Sides And Rarities: EP di otto canzoni che contiene quattro brani usciti solo su singolo e quattro versioni inedite. False Knight On The Road è un folk etereo ancora caratterizzato da un motivo squisito e di facile assimilazione (canzone un po’ sprecata come lato B), mentre la rilettura del noto traditional Silver Dagger è semplicemente stupenda, solo voce e chitarra ma emozioni a profusione (e Pecknold canta in maniera sublime). La gentile White Lace Regretfully è più normale, ma Isles è ancora un delizioso bozzetto acustico di grande presa emotiva. Chiudono il dischetto tre interessanti demo inediti di brani presenti sul primo album e sul secondo EP (Ragged Wood, He Doesn’t Know Why, English House), che sembrano canzoni fatte e finite, ed un frammento strumentale di appena 52 secondi intitolato Hot Air.

Se vi piacciono i Fleet Foxes ma non conoscevate le loro origini (e poi sfido chiunque a possedere i primi due EP), questo cofanetto fa al caso vostro, anche perché una volta tanto non costa una cifra esagerata (in CD).

Marco Verdi

Musica Esuberante E Contagiosa…Nel Nome Del Signore! Rend Collective – Good News

rend collective good news

Rend Collective – Good News – Rend Family Records/Capitol CD

I Rend Collective sono un quintetto proveniente da Bangor, Irlanda del Nord, specializzato nel sottogenere denominato “worship music”, musica di culto, caratterizzata quindi da testi tendenti a celebrare la grandezza di Dio e di Gesù, attraverso dischi e canzoni pieni di messaggi positivi, che inneggiano alla bellezza della vita ed alla gioia di celebrare tutti insieme il culto religioso: temi forse ingenui, ma al giorno d’oggi è bello avere anche chi cerca ancora il bello della vita, circondati come siamo da problemi e negatività. Quello della worship music è un filone molto popolare, specie in America dove i Rend Collective sono abbastanza famosi (il loro album del 2014, The Art Of Celebration, è entrato addirittura nella Top 20), e questo nuovo album, anch’esso dal titolo positivo di Good News, pare destinato a consolidare la loro fama (è già primo nella speciale classifica dedicata alla musica di culto). I RC, che hanno iniziato ad incidere nel 2010 e hanno già quasi una decina di album alle spalle, sono costruiti intorno ad un nucleo di cinque elementi (Gareth ed Ali Gilkeson, che sono anche marito e moglie, Chris Llewellyn, Patrick Thompson e Stephen Mitchell, cantano tutti e suonano una lunga serie di strumenti), che sono quelli che vanno in tour, ma su disco sono aiutati da una lunghissima schiera di amici e collaboratori, fino a formare un vero e proprio collettivo musicale, più che una band.

Ed il suono nel risente: nonostante i temi trattati i RC non fanno gospel, bensì una sorta di folk-rock potenziato, dove vicino ai classici strumenti della tradizione irlandese se ne aggiungono altri più propriamente rock, ed in grande quantità, tanto da formare un vero e proprio muro del suono, un cocktail esuberante e dal ritmo quasi sempre elevato. In alcuni momenti le sonorità sono talmente cariche che sfiorano quasi il pacchiano, ma le melodie sono talmente coinvolgenti (tutti i brani sono originali) da poter perdonare loro qualche eccesso, anche perché canzoni con questo tipo di messaggi positivi si prestano ad essere suonate con forza e partecipazione. Good News è un disco abbastanza lungo (quasi un’ora), ma è pieno di idee e di soluzioni melodiche, ed alla fine si ascolta tutto con piacere, anche nei momenti più di grana grossa. L’apertura di Life Is Beautiful è festosa come suggerisce il titolo, all’inizio sembra quasi un brano natalizio, il ritmo è alto ed il muro del suono strumentale è notevole, anche se il ritornello corale ad alcuni potrà sembrare un po’ kitsch. Anche I Will Be Undignified ha un mood gioioso, una giga elettrica indubbiamente coinvolgente, con un motivo che colpisce subito: il ritmo alto e l’uso corale delle voci potrebbero far pensare ai Lumineers, anche se il genere è completamente diverso; Rescuer (Good News) è il primo singolo, e sposta il suono verso territori gospel, sia per il suono “sudista” del pianoforte che per l’uso del coro, ed il ritornello è orecchiabile anche se aleggia ancora quel sentore di nazionalpopolare.

Counting Every Blessing inizia ancora per voce e piano, poi il ritmo prende piede e la strumentazione cresce: ottime come al solito le voci, con il suono che qui riesce ad essere bello pieno senza risultare eccessivo; Nailed To The Cross ha una melodia molto fluida e gradevole, ed un arrangiamento giusto a metà tra Irlanda e rock, ed alla fine risulterà una delle più riuscite, mentre Hymn Of The Ages è una rock ballad fatta e finita, maestosa e toccante, alla quale sono disposto a perdonare un suono leggermente sopra le righe dato che la linea melodica è decisamente bella. Stesso discorso per la vivace e contagiosa True North, forse ruffiana nel ritornello ma di sicuro impatto: è proprio questo continuo equilibrio tra bello e pacchiano la carta vincente dei nostri, in quanto riescono a colpire dritto al cuore di chiunque. Resurrection Day è forse troppo radiofonica, No Outsiders per contro è vigorosa e di grande respiro, ricorda un po’ gli U2 dei bei tempi, Weep With Me è uno slow ben costruito ed ottimamente cantato a due voci, mentre la potente Marching On è eccessivamente commerciale, con un ritmo praticamente da discoteca, ed è l’unico pezzo davvero da pollice verso. Il CD si chiude con la tenue ed intensa Yahweh, tra le più emozionanti, una saltellante ripresa di Counting Every Blessing più acustica, in cui l’ukulele assume un ruolo centrale, ed il finale di Christ Lives In Me, altra limpida ed ariosa ballata, diretta e senza sbavature.

I Rend Collective non saranno forse un gruppo per tutti, ma se gli darete un ascolto la loro forza e la loro gioia di vivere potrebbero anche contagiarvi.

Marco Verdi

Nuove Conferme Dal Paese Delle Giubbe Rosse. Elliott Brood – Ghost Gardens

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Elliott Brood – Ghost Gardens – Paper Bag Records

Per i tanti (presumo) che non li conoscono, gli Elliott Brood sono un trio canadese originario dell’Ontario, e si sono fatti conoscere al mondo musicale con l’ottimo Work And Love (15) http://discoclub.myblog.it/2015/01/21/il-canada-ci-tradisce-mai-elliott-brood-work-and-love/ , che era già il loro quarto lavoro, EP esclusi, un album che mischiava “roots-rock” con le radici alternative del gruppo, ottenendo incondizionati e positivi riscontri da tutte le più importanti riviste musicali del settore. A due anni di distanza (confesso che colpevolmente me li ero scordati), tornano con un nuovo lavoro Ghost Gardens, che non è altro che una manciata di canzoni “demo”, riscoperte dopo un decennio (vengono da inizio carriera) a cui sono state date una nuova vita, con nuovi testi aggiornati e idee melodiche ampliate, e quindi il bellissimo titolo “Giardini fantasma” risulta più che appropriato. Il trio è sempre composto da Mark Basso alle chitarre, banjo e voce, Casey Laforet alle tastiere, basso, mandolino e voce, Stephen Pitkin alla batteria e percussioni, con il contributo di musicisti e amici tra i quali Aaron Goldstein alla pedal steel e John Dinamore al basso, che dopo lo spartiacque del disco precedente, propongono una perfetta fusione di bluegrass, folk e rock e ottime armonie vocali, che vanno a formare una “tappezzeria” musicale che si aggiunge al loro già eccellente catalogo di apparati sonori.

Diciamo subito che le canzoni che compongono questi “giardini fantasma” sono più che altro undici bozzetti brevi (da un minimo di un minuto ad un massimo di tre), che iniziano con il gioioso “bleugrass” di  ‘Til The Sun Comes Up Again, dove fa la sua bella figura il banjo di Mark Grasso, a cui fanno seguito il country-rockabilly di Dig A Little Hole (entrambe ricordano a tratti il suono dei Lumineers), la pulizia degli strumenti che caratterizza una dolcissima Gentle Temper, mentre 2 4 6 8 è la traccia più “ibrida” e più lunga del disco (quasi 5 minuti), con la chitarra distorta di Laforet che accompagna il banjo di Grasso, prima di esplodere nel finale in un “sound” quasi garage-punk. Si ritorna ai momenti più intimi per poter apprezzare la chitarra riverberata e seducente di The Fall, a cui segue una meravigliosa ninna nanna come Adeline (dedicata alla figlia di Grasso), eseguita solo con il banjo ed un pianoforte “minimale”, per poi passare ad un “valzerone” quasi country tradizionale come The Widower (la storia di una vedova suicida per alcolismo), e allo strumentale Thin Air con il suono “vintage” di un grammofono in stile anni venti. La parte finale è affidata al banjo di Mark che accompagna la pianistica e seducente T.S. Armstrong, il tintinnio rumoroso (e forse anche inutile) grazie agli effetti statici dei nastri di una Searching un po’ arruffona,, per poi chiudere con la melodica e tenera For The Girl, con il mandolino di Casey in evidenza e cantata da Mark quasi “scimmiottando” il McCartney più minimale.

Ormai sono passati diversi anni da quando Sasso, Pitkin e Laforet ( Elliott Brood) hanno esordito, partendo come una band di country “alternativo”, per poi passare al più generico stile “americana”, fino ad arrivare a vincere i Juno Awards (gli Oscar Canadesi della musica) con il roots-rock variegato di Days Into Years, e farsi conoscere anche nel resto del mondo con Work And Love, per arrivare infine a questo Ghost Gardens forse il loro lavoro più eclettico, con le consuete belle armonie vocali (che fanno venir voglia di ascoltare gli album di Simon & Garfunkel), e  per chi non conosce gli Elliott Brood direi che questi “giardini fantasma” meritano tutta la vostra attenzione.

Tino Montanari

Quasi quasi è meglio la moglie del marito! Ellie Holcomb – Red Sea Road

ellie holcomb red sea rod

Ellie Holcomb – Red Sea Road – Full Heart CD

Ellie Holcomb, nata Elizabeth Bannister, è la moglie di Drew Holcomb, cantautore rock già autore di diversi album a capo dei suoi Neighbors, l’ultimo dei quali, Medicine (2015), è senza dubbio il più bello. (*NDB Ora ne è uscito un altro nuovo http://discoclub.myblog.it/2017/03/30/saluti-da-nashville-il-meglio-nel-genere-americana-drew-holcomb-the-neighbors-souvenir/ ). Ma Ellie non vive nell’ombra del marito, né ha bisogno del suo aiuto per fare dischi, in quanto è un’ottima cantautrice in her own right come direbbero in America, e aveva già dimostrato di valere con i due EP pubblicati ad inizio carriera e soprattutto con il debut album As Sure As The Sun, uscito tre anni orsono. Quelle come la Holcomb negli States sono definite Contemporary Christian Artists, cioè per le quali la religione e le tematiche cristiane rivestono un’importanza fondamentale, sia a livello testuale che musicale: nel caso di Ellie l’argomento religioso viene trattato più che altro nelle liriche, in quanto le sue canzoni non recano alcuna traccia di musica gospel, ma sono bensì caratterizzate da un uso prominente di chitarre e pianoforte, che costruiscono intorno alla voce bella e sensuale della bionda cantante il perfetto alveo per valorizzarle al meglio. Se As Sure As The Sun aveva fatto rizzare le orecchie a più di un critico, questo nuovo Red Sea Road è ancora meglio, in quanto ci presenta tredici brani decisamente belli, profondi, ispirati, con una strumentazione classica ed un uso molto parco ed intelligente di suoni più moderni, il tutto prodotto con mano sicura da Brown Bannister, che oltre ad essere il padre della ragazza è anche un esperto ed acclamato producer (ha lavorato, tra gli altri, con Amy Grant e CeCe Winans).

Tra i musicisti meritano una segnalazione senz’altro Ben Shive e Nathan Dugger, rispettivamente alle tastiere e chitarre, che si sobbarcano buona parte del merito della riuscita del disco, grazie al loro accompagnamento fluido e classico, che rende le ballate di Ellie, già belle ed intense per conto loro, quasi perfette (il marito Drew invece compare poco, solo nei backing vocalist in un paio di pezzi ed alla chitarra acustica nel brano finale). Una vera sorpresa dunque, un CD senza un solo momento sottotono e con diverse canzoni splendide, raffinate, ma anche decisamente coinvolgenti ed emozionanti. Già il brano d’apertura, Find You Here, fa vedere di che pasta è fatta Ellie: una bella ballad, distesa e rilassata, caratterizzata da un ottimo motivo e da un sapiente impasto di chitarre e piano, un fulgido esempio di come si possano costruire belle canzoni con semplicità. He Will è ancora meglio dal punto di vista melodico, con un notevole refrain ed un’affascinante atmosfera eterea, oltre ad un uso per nulla invasivo dell’elettronica: splendido poi il crescendo finale; la title track è limpida, scorrevole, di nuovo con una melodia di prim’ordine ed una strumentazione perfettamente cucita intorno alla voce espressiva della Holcomb: un bell’inizio, anche sorprendente, e non è che il resto sia meno valido, a partire dalla piacevolissima You Are Loved, il classico brano che se ascoltato di prima mattina mette di buon umore per tutto il resto della giornata.

La pimpante Fighting Words ha una base folk ed una ritmica pressante (la si può paragonare allo stile dei Lumineers), ed il ritornello è perfetto per il singalong, I Will Never Be The Same è più riflessiva, ma a poco a poco il motivo corale avvolge l’ascoltatore in una gradevole spirale sonora, mentre Wonderfully Made è lenta, profonda, meditata: l’inizio è per voce e chitarra, poi entra un violoncello e senza accorgercene ci ritroviamo coinvolti in un altro crescendo sonoro niente male. La fresca We’ve Got This Hope è quasi bucolica, vicina alle cose più intime di Suzanne Vega, You Love Me Best è pianistica e struggente, con una delle melodie più intense e toccanti del CD, un brano davvero splendido, mentre la breve God Of All Comfort è la più folk del lotto, solo voce, chitarra ed una leggera tastiera, ma non per questo è meno ricca di pathos. Notevole anche Rescue, che oltre ad un altro refrain bellissimo è costruita intorno ad un affascinante tappeto di chitarre (ben sei, di cui cinque acustiche); l’album si chiude con la vibrante Living Water, con un altro delizioso motivo, e con la tenue e delicata Man Of Sorrows. Gran disco: se non siamo ai livelli del marito ci manca veramente poco.

Marco Verdi

La Musica E’ Buona, Un Po’ Di Contenuti In Più Non Guasterebbero! Bears With Guns – Bears With Guns

bears with guns

Bears With Guns – Bears With Guns – Highway 125 CD/EP

Negli anni sessanta era pratica comune per le band, accanto a 45 giri e LP, pubblicare ogni tanto degli EP, cioè una sorta di maxi-singolo (o mini album), che solitamente conteneva non meno di quattro brani e non più di sei. Con gli anni questo supporto si è praticamente estinto, ma in periodi più recenti qualche gruppo (o solista) lo ha rivitalizzato, anche se sotto forma di mini CD; non avevo però mai visto una band pubblicare solo EP, almeno fino a quando non ho avuto per le mani questo dischetto omonimo dei Bears With Guns, un quintetto australiano dei dintorni di Sydney, che ho scoperto essere già al terzo EP della loro breve carriera (dopo Taken For A Fool e Only The Quick And The Hungry) https://www.youtube.com/watch?v=PoOS6LOHRBk , durante la quale non hanno ancora pubblicano alcun full-lenght. Scelta alquanto bizzarra dunque, come se i nostri volessero condividere con i fans le loro canzoni in maniera quasi istantanea, senza dover per forza aspettare di avere le canzoni per un CD intero: la cosa che però conta di più è che Bears With Guns è un bel dischetto, molto piacevole e diretto e, data la sua esigua durata (23 minuti, sei canzoni in tutto), non fa in tempo ad annoiare.

I BWG sono formati da Robert Saunders (leader e principale autore), Drew Farrant-Jayet, Ryan Unger, Lachlan Russell ed Angus Taylor, e la loro musica è una fusione decisamente piacevole di folk, rock e pop, con una strumentazione molto classica, nell’ambito della quale si intrecciano strumenti acustici ed elettrici, un buon senso del ritmo ed una serie di melodie immediate, fresche e piacevoli. I ragazzi partono sempre da una base folk, per costruire le loro canzoni in maniera diretta e creativa, ed usando anche le voci di conseguenza, sulla falsariga di gruppi come Of Monsters And Men e Lumineers: dulcis in fundo, il suono è professionale e curato, essendo il mini album passato per le mani di due produttori esperti come Wayne Connolly (The Vines, Boy And Bear) ed Al Clay (Pixies, Blur, Pink…non spaventatevi, qui non siamo da quelle parti).

Il CD si apre con quello che è anche il primo singolo, ovvero Let Go: un delicato arpeggio di chitarra acustica introduce il brano, poi entra la voce, dopodiché arrivano una ritmica vivace ed un bel pianoforte, il tutto per una canzone molto piacevole che si sviluppa fluida e fruibile. The Deep End è più elettrica ed il ritmo è ancora più sostenuto, ma c’è sempre questo modo un po’ etereo e leggero di porgere il brano, e la canzone stessa cresce man mano che si sviluppa; con Taken For A Fool (ripresa dal primo EP, quindi sono pure poco prolifici i ragazzi) torniamo in territori folk-pop, una bella chitarra, voci leggiadre ed una melodia gradevolissima, mentre Wandering Soldier è più strutturata, con la sua alternanza di sonorità acustiche ed elettriche (e la parte elettrica è la più rock del CD), unita a soluzioni ritmiche mai banali, il tutto senza mai perdere il filo conduttore: un brano molto creativo (ci sono anche dei fiati) che ricorda lo stile vulcanico di Edward Sharpe And The Magnetic Zeros. Il dischetto purtroppo si chiude quando  si cominciava a prenderci gusto, con Etheric Thief, fluida rock song con grande uso di piano ed un refrain corale di buon impatto, e con una cover di Backstreet Girl, un pezzo poco noto dei Rolling Stones (era su Between The Buttons), proposto in una rilettura tra il pop ed il bucolico di grande piacevolezza, e che ha il merito di farmi riscoprire una canzone che avevo un po’ dimenticato.

Hanno dei numeri questi Orsi Armati, anche se adesso però sarebbe tempo di pubblicare un vero CD.

Marco Verdi

Se La Sono Presa Comoda, Ma Sono Decisamente Migliorati! The Lumineers – Cleopatra

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The Lumineers – Cleopatra – Dualtone CD USA – Decca/Universal Europa

Uno dei singoli più gettonati del 2012 è stato sicuramente Ho Hey, un brano folk-rock dal ritornello molto orecchiabile ad opera di un terzetto originario di Denver, The Lumineers, un successo che ha trascinato nelle classifiche di vendita anche il loro album omonimo di debutto, un buon disco che però dava la sensazione di essere inferiore a prodotti di altre band che si rivolgevano allo stesso bacino d’utenza, come Mumford & Sons, Low Anthem e Decemberists. Ora si rifanno vivi a ben quattro anni di distanza dall’esordio, un tempo molto lungo per una nuova band, ma devo dire che Cleopatra (da non confondersi con la famigerata etichetta californiana tanto amata da Bruno) è di gran lunga superiore al disco precedente: il loro percorso è quasi l’inverso degli Of Monsters And Men (altra band che si può equiparare ai nostri come stile), in quanto gli islandesi hanno esordito nel 2011 con un ottimo album (My Head Is An Animal) che conteneva un singolo, Little Talks, diventato poi un tormentone mondiale, mentre il loro secondo lavoro Beneath The Skin dell’anno scorso non era male ma non altrettanto esplosivo; al contrario, Cleopatra forse non conterrà una canzone spacca classifiche come Ho Hey ma si rivela un lavoro più unitario e riuscito (e le vendite danno ragione ai ragazzi di Denver, in quanto il disco sta già facendo molto bene ed è andato in testa sia in America che in Inghilterra).

Il trio è sempre composto da Wesley Schultz alla voce e chitarra, Jeremiah Fraites alla batteria e piano e Neyla Pekarek al basso e violoncello, ed in questo album si fanno aiutare da pochi ma selezionati amici, a partire da Simone Felice dei Felice Brothers,, che si occupa anche della produzione (*NDB. E anche dei The Duke And The King, tre splendidi dischi, che fine hanno fatto?), ed inoltre Byron Isaacs, Lauren Jacobson e David Baron: il suono non è cambiato molto dal loro esordio, i brani hanno sempre un forte impianto folk-rock con un retrogusto pop, con influenze che vanno da Bob Dylan (soprattutto) a Tom Petty, passando per Leonard Cohen e Bruce Springsteen (questi ultimi due non li ritrovo molto, ma mi inchino in quanto sono gli stessi membri del gruppo a citarli, anche se poi aggiungono anche Guns’n’Roses, Cars e Talking Heads…), canzoni elettroacustiche ma con la sezione ritmica sempre in grande evidenza, voci spesso cariche di eco e melodie dirette ed immediate. Il suono c’è, dunque, e se aggiungiamo che la qualità media delle canzoni è nettamente migliorata si può dire che Cleopatra contribuisce a mettere i Lumineers sullo stesso piano dei gruppi che ho citato all’inizio (anzi, mi sa che i Mumford & Sons ce li siamo giocati, *NDB 2. A giugno è in uscita un EP Johannesburg, con musicisti sudafricani, dove hanno cambiato ancora genere https://www.youtube.com/watch?v=eCIHPdx1OAs!); undici brani, ma quindici nella versione deluxe (che non ho. *NDB 3. E’ quella in MP3, per il download, che entrambi non amiamo molto) e quattordici in un’altra edizione in esclusiva per la catena americana Target, ma con tre canzoni che non sono le stesse della deluxe “normale” (adoro queste cose: ma non potevano fare una edizione sola, dato che quella regolare dura solo 33 minuti?).

Sleep On The Floor inizia con un drumming secco, un riff di chitarra elettrica e la voce di Schultz che canta un motivo suggestivo ma attendista nel primo minuto e mezzo, poi la ritmica sale ed il pezzo si trasforma in una rock song con tutti i crismi, potente e profondamente evocativa: un avvio migliore non poteva esserci. Ophelia (è il primo singolo, ma non è la stessa di The Band) ha un inizio sospeso, con piano, percussioni e voce, poi prende vivacità, la ritmica si fa saltellante ed arriva il classico ritornello orecchiabile, anche se è il pianoforte a mantenere il ruolo di protagonista: non è immediata come Ho Hey (anche se lo stile non è lontanissimo), ma cresce alla distanza. Cleopatra è un folk-rock elettrico dalla splendida melodia dylaniana, un mood trascinante ad ancora gran lavoro di piano, un brano di grande valore; Gun Song, ancora con Dylan in mente, è più acustica anche se la ritmica è sempre molto sostenuta, una costante nel suono del trio, mentre Angela (è il terzo brano su cinque con un nome di donna come titolo) è più tranquilla, inizia solo voce e chitarra (ma l’eco sulla voce non manca mai), poi entra il resto ed il pezzo cresce in pathos, grazie anche ad uno splendido break strumentale dove è ancora il piano a dettare legge. In The Light è una tenue ballata dalla melodia vincente e dall’arrangiamento semplice ma di grande impatto, con un finale maestoso che la catapulta tra le migliori del CD; ancora Dylan, quello dei primi anni, ad ispirare la limpida Long Way From Home, altro brano di notevole potenza emotiva, mentre Sick In The Head è l’unico pezzo un gradino sotto, a causa di uno sviluppo melodico un po’ incartato su sé stesso. L’album però si chiude molto bene con My Eyes, sempre a metà tra folk e rock, di grande forza nonostante il tempo lento, e con Patience, un breve ma suggestivo strumentale per piano solo.

Hanno avuto bisogno di tempo i Lumineers per dare un seguito al loro esordio, ma con Cleopatra hanno decisamente centrato il bersaglio e dimostrato di essere non solo un gruppo con un singolo fortunato al loro attivo, ma una vera band con un suo stile ed una spiccata personalità.

Marco Verdi