E’ Ora Di Rivalutare Uno Dei Grandi Gruppi Rock “Dimenticati”! Ten Years After – 1967-1974

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Ten Years After – 1967-1974 – Chrysalis/Warner 10CD Box Set

Già annunciato in precedenza da Bruno su questo blog (inizialmente doveva uscire lo scorso Novembre, poi il tutto è stato posticipato di un paio di mesi) è finalmente giunta l’ora di occuparsi di questo bel cofanetto intitolato 1967-1974 dedicato ai Ten Years After, storica band britannica inizialmente associata al British Blues, e guidata dal cantante e chitarrista Alvin Lee (insieme a Leo Lyons al basso, Ric Lee, nessuna parentela, alla batteria e Chick Churchill a piano ed organo), uno dei gruppi migliori del periodo, oggi purtroppo quasi dimenticato, anche se sono ancora attivi seppur con solo due membri originali (Alvin è passato a miglior vita nel 2013). Gruppo che iniziò come band di rock-blues, i TYA (così chiamati perché si formarono nel 1966, dieci anni dopo l’inizio della carriera di Elvis Presley) aggiunsero man mano elementi psichedelici ed anche pop, riuscendo a sfondare anche in America: non hanno mai fatto il classico album da cinque stelle, ma hanno lasciato comunque una serie di bei lavori, tutti con comune denominatore l’eccezionale abilità di Alvin Lee, definito il più veloce chitarrista del mondo (cosa forse non vera, ma all’epoca comunque gli stavano dietro in pochi): la sua performance della celebre I’m Going Home è uno degli episodi più leggendari del mitizzato Festival di Woodstock.

1967-1974 è un box a tiratura limitata (1.500 copie in tutto il mondo), che comprende nei suoi dieci CD quasi tutti gli album della band, in una bella confezione slipcase poco più grande di un 45 giri, e con le note scritte dal giornalista del Melody Maker Chris Welch. Qualcosa manca, come il live del 1973 Recorded Live (ed anche quelli postumi), la compilation di inediti Alvin Lee & Company e la reunion del 1989 dei membri originali About Time (che però uscì per un’altra etichetta), ma la cosa che soprattutto ha fatto discutere è che i dischi sono stati inclusi nella versione originale (seppur rimasterizzati alla grande), senza neanche le bonus tracks aggiunte nelle ristampe di qualche anno fa, anche se una lunga schiera di puristi gli album li ama così come erano in origine. Per giustificare l’alto costo del box però è stato incluso un CD completamente inedito, The Cap Ferrat Sessions, cinque brani mai sentiti prima per 27 minuti di durata incisi dal gruppo nel 1972 in Francia durante le sedute di Rock & Roll Music To The World, registrazioni ritrovate di recente dall’ex moglie di Lee (quando nomino Lee mi riferisco ad Alvin) nella loro villa in Spagna, e ripulite e rimixate dal produttore originale, Chris Kimsey.

E questi cinque brani, tutti molto rock, meritavano certamente di essere pubblicati, essendo alcuni di essi superiori anche al materiale poi finito su Rock & Roll Music To The World, a partire da Look At Yourself, potente rock song con un bel riff insistito, ripreso anche dalla linea melodica vocale, ed un basso molto pronunciato: forse non una perla di songwriting, ma un pezzo dal tiro notevole e con un paio di assoli come solo Lee sapeva fare. Stesso discorso per Running Around, grande rock-blues, vibrante e chitarristico, un brano che avrebbe sicuramente aumentato il valore dell’album poi pubblicato. Holy Shit, ancora bluesata e dal ritmo frenetico, è l’unica di livello inferiore, anche se suonata in maniera inappuntabile, la ficcante There’s A Feeling è un rock’n’roll decisamente bello e coinvolgente, mentre la conclusiva I Hear You Calling My Name è l’highlight assoluto del dischetto, una strepitosa rock song di grande intensità e con Lee che giganteggia con una prestazione mostruosa, undici minuti davvero formidabili che non capisco perché fossero rimasti in un cassetto.

I primi nove CD del box, come ho già detto, comprendono il resto della discografia dei TYA, a partire dal buon esordio di Ten Years After (1967), dal suono ancora molto blues, con higlights come la bella I Can’t Keep From Crying Sometimes (di Al Kooper), tipicamente anni sessanta con i suoi caldi interplay tra chitarra ed organo (ci sono similitudini coi Doors), l’ottima cover di Spoonful di Willie Dixon, anche se non al livello di quella dei Cream, e lo strepitoso slow blues di Sonny Boy Williamson Help Me, con Alvin devastante (all’inizio la band si rivolgeva spesso a brani di altri, ma presto Lee prese in mano il pallino della scrittura). Undead (1968) è dal vivo anche se con brani inediti (e almeno qui, dato che ci sono solo cinque canzoni, qualche bonus track si poteva mettere): è il disco di I’m Going Home, che qui è più swingata di quella di Woodstock, ma anche della lunga I May Be Wrong, But I Won’t Be Wrong Always, tra blues e jazz e con Alvin superlativo, lo strumentale Woodchopper’s Ball e la fluida Spider In My Web, puro blues. In Stonedhenge (1969) c’è un maggior approccio alla psichedelia, con pezzi come l’affascinante Going To Try o la potente e complessa No Title, anche se non mancano blues e derivati, come la swingata Woman Trouble ed il boogie Hear Me Calling, ed anche qualche stranezza o brano minore.

Ssssh (1969) e Cricklewood Green (1970) sono probabilmente i due album migliori del quartetto, roccati e diretti, con perle come il trascinante rock’n’roll Bad Scene (con Lee formidabile), una roboante Good Morning Little Schoolgirl ancora di Williamson e la limpida rock ballad If You Should Love Me nel primo, e la splendida cavalcata elettrica Working On The Road, la magnifica 50.000 Miles Beneath My Brain, grandissimo pezzo rock, tra i più belli del gruppo, e la diretta Love Like A Man, primo loro singolo da Top 10, nel secondo. Watt (1970), considerato dai più un passo falso, non è in realtà così male, soprattutto la fluida I’m Coming On, la solida My Baby Left Me, decisamente trascinante, la diretta e pianistica I Say Yeah e lo splendido intermezzo western The Band With No Name, purtroppo brevissimo. A Space In Time (1971) è il disco con cui i nostri hanno sfondato in America, un album più pop e con la preponderanza di ballate elettroacustiche che riflettono le atmosfere bucoliche della copertina, come I’d Love To Change The World, il loro più grande successo in classifica; ma il rock non è assente, come confermano la potente One Of These Days, la travolgente Once There Was A Time e l’ottima I’ve Been There Too.

I due ultimi lavori prima dello scioglimento, Rock & Roll Music To The World (1972) e Positive Vibrations (1974), sono due buoni album di rock anni settanta, con diversi episodi degni di nota (You Give Me Loving, Religion, l’irresistibile Choo Choo Mama, Positive Vibrations, Going Back To Birmingham e Look Me Straight Into The Eyes), ma anche con qualche sintetizzatore di troppo, che fa sfiorare ai nostri addirittura territori prog. Se siete già fans dei Ten Years After non sono sicuro che questo box faccia per voi, nonostante la bellezza del CD inedito, ma se del gruppo possedete poco o nulla (come il sottoscritto, che aveva appena un paio di album in vinile) allora vale la pena di fare un sacrificio economico.

Marco Verdi

Un Brillante Ritorno A Sorpresa, Inatteso E Gradito. Peter Perrett – How The West Was Won

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Peter Perrett – How The West Was Won – Domino Records

Qualche mese fa, nella rubrica delle anticipazioni, verso fine maggio, avevo annunciato l’uscita di questo album di Peter Perrett How The West Was Won, poi regolarmente uscito al 30 giugno. Come ogni tanto capita, per svariati motivi, la recensione promessa non si è colpevolmente materializzata sulle pagine virtuali del Blog. Ma oggi rimediamo perché il disco merita veramente: ci sarà un motivo se è stato il disco del mese per Mojo e Uncut, ha avuto 5 stellette dalla rivista Record Collector, e in generale ottime recensioni anche sulle riviste e sui siti italiani dedicati alla musica rock (con l’eccezione, stranamente, del Buscadero, la rivista dove scrive anche il sottoscritto, in cui il disco è stato recensito sì in modo positivo, ma un po’ troppo tiepido). Non siamo di fronte, forse, ad un capolavoro assoluto, ma sicuramente ad un album di alto artigianato rock, da parte di un personaggio che secondo molti, anche per la vita che ha vissuto, è già un miracolo se oggi sia ancora vivo, senza essere stato spazzato via dai suoi eccessi di junkie (grazie a quella santa donna della moglie Zena che è sempre rimasta al suo fianco), quasi obbligato dal bisogno di interpretare per forza la figura dell’outsider e del ribelle del R&R che prevede, purtroppo, l’iconografia di certo rock “alternativo” (ma anche mainstream).

Di solito, se riescono a sopravvivere agli eccessi, questi artisti quando raggiungono una età matura si meravigliano di quello che hanno fatto nel loro passato, ma nel momento in cui succede è quasi un fatto compulsivo, se poi non è neppure accompagnato dal successo diventa ancora più frustrante. Peter Perrett è stato il leader degli Only Ones, una band che sul finire degli anni ’70 ha realizzato un trittico di album, The Only Ones, Even Serpent Shine Baby’s Got A Gun, usciti in piena era punk e New Wave, ma che erano tre perfetti esempi di rock classico, una fusione di Lou Reeddel glam rock britannico più “nobile”, quello dei Mott The The Hoople o del Bowie Ziggy, del rock newyorkese dei Television, di certe cose dei Replacements o dei Soft Boys, il tutto con la voce particolare, a tratti androgina, di Perrett, la chitarra sfavillante di John Perry e il drumming brillante di Mike Kellie, già con gli Spooky Tooth agli inizi anni ’70. Tra i tanti ottimi brani realizzati, uno in particolare, Another Girl, Another Planet, rimane il loro piccolo capolavoro e il motivo per cui si riunirono brevemente negli anni 2000 quando venne utilizzato per uno spot pubblicitario. E prima c’era stato un disco di Peter Perett + The One, non male, che però è passato come una meteora, apparso e scomparso.

Detto che vale la pena di investigare su quei dischi, il motivo principale di questo Post è comunque How The West Was Won, un album che riprende le traiettorie sonore proprio di quei dischi, mediate attraverso la maturità del suo autore, e l’aiuto anche delle giovani generazioni, rappresentate dai figli di Peter Jamie Perrett e Peter Perrett Jr., rispettivamente alla chitarra e al basso, già componenti degli Strangefruit, che il babbo cita tra i suoi gruppi preferiti (strano!), e dal batterista Jake Woodward, con l’aiuto di Jon Carin alle tastiere (dalla touring band di Roger Waters, David GilmourPink Floyd assortiti, oltre a Kate Bush), nonché di Jenny Maxwell alla viola elettrica e al violino. Produce il tutto Chris Kimsey, non il primo che passa per strada, ma uno che ha lavorato con Rolling Stones, Yes, Marillion, Peter Frampton e mille altri. Il risultato è un disco molto bello, che predilige la ballata rock, spesso umbratile e malinconica, con frequenti impennate chitarristiche, ma con un gusto per la melodia e per l’uso del riff, entrambi innati nella musica di Peter Perrett. Tutti i punti di riferimento indicati per gli Only Ones ovviamente valgono anche per questo disco: come è chiaro subito sin dall’iniziale title track, una metafora sulla conquista dell’Ovest e sulla società attuale, molto incentrata anche sul fondoschiena di Kim Kardashian che in fondo, al di fuori delle metafore, dice il nostro. è solo un “culo”, ma anche sulle vicende personali di Perrett, che musicalmente, in un caldo midtempo rock, “cita” quasi alla lettera il riff di Sweet Jane di Lou Reed, molto presente anche nel suo stile vocale, pigro e indolente, ma con un’aria sorniona, che ricorda il grande Lou, mentre il figlio Jamie si destreggia tra slide e solista con un tocco quasi leggiadro che nel finale diventa urgente.

An Epic Story è altrettanto bella e aggiunge un leggero uso di coloritura delle tastiere alle chitarre sempre onnipresenti, il brano ha dei momenti dove il ritmo accelera di improvviso, Perrett canta con maggiore brio e vivacità questa canzone che racconta anche della sua storia con la moglie Zena. Hard To Say No è una di quelle che ricordano di più lo stile bowiano degli Only Ones, con un coretto ricorrente e una andatura da valzer rock, anche se non è tra le più memorabili. Troika è una piacevole ballata pop quasi alla Spector, con piccole percussioni che rimandano alle canzoni adolescenziali del grande Phil e un crescendo delizioso che la caratterizza, grazie anche alla solita chitarra del figlio Jamie; Living In My Head è il pezzo più lungo dell’album, quasi sette minuti di una straziata, tormentata, intensa costruzione rock, dove ripetuti, torrenziali e distorti strali chitarristici si alternano a momenti più sospesi e sognanti, sempre ben delineati dall’attenta produzione di Kimsey che in questo disco frena i suoi istinti più eccessivi, una sorta di Velvet meets Television per gli anni 2000, come anche nella successiva C Voyeurgeur, che tratta degli anni bui della dipendenza dall’eroina (e quindi ricorda per certi versi la canzone dei Velvet), altro tributo all’amore e alla pazienza della moglie Zena, in una ballata molto più tenera e meno estrema della sua ispirazione, con una dolce vena di speranza che la percorre, anche grazie a una bella melodia.

Ma prima c’è spazio pure per un esempio quasi di jingle-jangle, tra Byrds e Soft Boys, con leggere spire psych, come l’incantevole Man Of Extremes, o per una bella canzone dai contorni pop come Sweet Endeavour, dove Lou Reed, Bowie e il classico rock morbido britannico dei primi anni ’70 si incontrano con sonorità più americane sulle onde della solita chitarra del Perrett figlio, qui anche in modalità slide. Mancano all’appello una Something In My Brain che ricorda ancora una volta Lou Reed, vero punto di riferimento e nume tutelare di tutto il disco, quello di metà anni ’70 di Coney Island Baby, miscelato con certe intonazioni anche alla Ian Hunter e la solita chitarra ficcante e pungente che ricorda di nuovo certe derive psichedeliche e jam alla Television, e per finire, last but not least,Take Me Home, uno dei brani più melodrammatici dove Perrett annuncia che “I wish I could die in a hail of bullets sometimes…” su un brano che invece musicalmente ci riporta alle belle ballate rock avvolgenti che avevano caratterizzato la prima parte del disco, ancora con la magica solista di Jamie Perrett a sottolineare il cantato disincantato, ma vibrante del padre Peter Perrett che con questo How The West Was Won ha realizzato uno dei più brillanti “comeback” di questo 2017.

Bruno Conti