Il Suo Lavoro Più Intimo E Profondo. Joe Henry – The Gospel According To Water

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Joe Henry – The Gospel According To Water – EarMusic/Edel CD

L’album di cui mi accingo a parlare oggi potrebbe far parte di un ipotetico “trittico del dolore” con altri due lavori usciti in questo periodo, vale a dire il bellissimo Blood di Alison Moorer, del quale mi sono occupato pochi giorni fa, e del nuovo Ghosteen di Nick Cave, nei prossimi giorni su queste pagine virtuali. Joe Henry è ormai diventato uno dei produttori più richiesti insieme a Dave Cobb e Dan Auerbach, ed i lavori con lui dietro la consolle sono sinonimo di raffinatezza e qualità. A volte però si tralascia il fatto che Joe nasce come artista in proprio, e negli anni in cui si è costruito una carriera non ha praticamente mai sbagliato un disco, pubblicando diversi album di grande livello come Shuffletown, Short Man’s Room, Kindness Of The World, Trampoline, Tiny Voices, Civilians ed Invisible Hour (ma potrei tranquillamente citarli quasi tutti). The Gospel According To Water (bellissimo titolo) è il suo nuovo lavoro, che arriva a due anni dall’ottimo Thrum https://discoclub.myblog.it/2017/11/06/piu-che-strimpellare-qui-si-cesella-joe-henry-strum/  e a tre dal celebrato viaggio in treno con Billy Bragg che aveva prodotto Shine A Light, ed è un disco che ha avuto una genesi particolare.

Infatti lo scorso anno a Henry è stato diagnosticato un cancro alla prostata, una di quelle notizie che ti cambiano la prospettiva della vita, e la cosa lo ha portato a comporre di getto una serie di canzoni che ora possiamo ascoltare in questo album; The Gospel According To Water, pur essendo un lavoro dalle atmosfere raccolte ed intime, è però un disco nel quale il suo autore ci parla di amore per il prossimo e per la vita (pur essendo i testi spesso di difficile interpretazione), risultando quindi diverso nelle tematiche dai già citati album della Moorer (nel quale l’autrice viene a patti con un’infanzia terribile a causa del padre violento) e di Cave (ancora profondamente sconvolto per la tragica scomparsa del figlio): detto per inciso, pare che Henry abbia risposto molto bene alle cure, anche se ovviamente non può ancora cantare vittoria. L’altra particolarità del disco è la sua veste sonora scarna ed essenziale, dovuta al fatto che Joe aveva inizialmente inciso le canzoni accompagnandosi solo con la chitarra con l’intenzione di ricavarne dei demo, ma una volta risentito il tutto ha deciso che non serviva molto altro a questi brani per essere completi, e quindi si è fatto aiutare esclusivamente dal figlio Levon Henry al sax e clarinetto, da John Smith alla seconda chitarra e da Patrick Warren al piano. Niente batteria quindi, ed il basso solo in un brano, ma il risultato è comunque un album intenso e profondo, che, se ascoltato con attenzione, è in grado di regalare più di una emozione.

Un disco di ballate per voce e chitarra quindi, completate da un rintocco di piano qua, qualche nota di sax là e poco altro: l’atmosfera è calma e pacata ma non triste come vedremo nell’album di Cave, ma anzi si percepisce rilassatezza e distensione da parte dell’autore. Famine Walk inizia con la chitarra acustica alla quale si unisce quasi subito il pianoforte, mentre Joe intona una melodia lineare e per nulla ostica, di chiara matrice folk: un brano facile da apprezzare nonostante la veste sonora scarna. Due chitarre introducono la title track, un pezzo dall’incedere lento e meditato che si apre un po’ nel ritornello grazie anche all’approccio vocale caldo ed espressivo di Henry; in Mule a Joe e la sua chitarra si unisce Levon al clarinetto, che diventa protagonista nel delineare il motivo quasi al pari della voce del padre, Orson Welles (titolo che non c’entra nulla con il contenuto della canzone, in quanto frutto di uno scherzo tra Joe e la moglie Melanie Ciccone, sorella di Madonna) vede invece Henry Jr. commentare al sax in maniera decisamente discreta, risentiamo anche il piano ed il brano, struggente e cantato con voce forte, risulta uno dei più belli del CD.

Non è da meno Green Of The Afternoon, altra ballata folkeggiante dalla melodia diretta e vagamente dylaniana, ed anche In Time For Tomorrow è contraddistinta da un motivo splendido ed un accompagnamento di gran classe, solo chitarra, piano, clarinetto e le voci di Allison Russell e JT Nero, ovvero il duo Birds Of Chicago. The Fact Of Love è pacata ed interiore, con un bel gioco di chitarre ed un synth usato con molta misura, Book Of Common Prayer è lenta, profonda e con David Piltch che accompagna Henry al basso, mentre Bloom è puro folk, suonato con molta forza nonostante la strumentazione parca: voce, due chitarre ed un motivo diretto, ancora con reminiscenze dylaniane (sembra una outtake di Blood On The Tracks, e credo non sia un complimento da poco). La pianistica e notturna Gates Of Prayer Cemetery # 2 è meno immediata ma non per questo meno interessante, Salt And Sugar è discorsiva, raffinata ed ancora punteggiata in maniera discreta dal piano; il CD termina con la toccante General Tzu Names The Planets For His Children (altro bel titolo) e con la limpida Choir Boy, ennesimo brano di eccellente fattura in un disco dai suoni ridotti all’osso ma all’insegna della purezza.

Marco Verdi

Un Bel Volo Sopra La Windy City! Birds Of Chicago – Love In Wartime

birds of chicago love in wartime

Birds Of Chicago – Love In Wartime – Signature Sounds CD

I Birds Of Chicago sono un duo formato da JT Nero ed Allison Russell, che sono anche marito e moglie nella vita: nonostante provengano dalla metropoli dell’Illinois, tanto da indicarne anche il nome nel moniker, i due non fanno blues, anzi sono completamente all’opposto. Partiti nel 2012 come duo folk, i BOC hanno in pochi anni evoluto il loro sound aggiungendo elementi diversi, tra roots, rock e pop, senza perdere di vista l’attenzione per un certo tipo di musica cantautorale. Il loro album precedente, Real Midnight (il secondo, 2016) https://www.youtube.com/watch?v=7iYarZuPi74 , è stato prodotto addirittura da Joe Henry, uno che si muove solo per prodotti di qualità, ed in grado di dare un suono ad ogni lavoro in cui è coinvolto. Per Love In Wartime, il loro nuovo CD, JT ed Allison si sono invece rivolti a Luther Dickinson, figlio del grande Jim e leader dei North Mississippi Allstars, uno diametralmente opposto a Henry, più diretto e meno cantautore: il risultato è un disco di moderno pop-rock, estremamente gradevole e che si ascolta con piacere, con poche tracce del folk degli inizi del duo, ma con qualche accenno di southern soul qua e là, sicuramente retaggio della presenza di Dickinson.

Luther si è limitato a stare in consolle, non ha preso in mano nessuno strumento, operazione che è stata svolta (bene) da un manipolo non molto vasto di musicisti, tra cui è giusto segnalare almeno la chitarra solista di Joel Schwartz e le tastiere di Drew Lindsay, molto importanti nell’economia del suono. Dopo una breve introduzione strumentale a base di banjo, chitarra acustica e pianoforte, l’album si apre con la saltellante Never Go Back, un brano solare dal gusto pop e con soluzioni melodiche e ritmiche non scontate, che denotano da subito una certa creatività da parte di Nero (che scrive tutte le canzoni) e della Russell. La title track è una lunga e profonda ballata notturna, cantata a due voci e con un retrogusto soul, molto classica e con un bell’assolo chitarristico, Travelers è una rock ballad fluida, gradevole e diretta, caratterizzata dalla voce bella ed anche particolare di Allison e da un refrain decisamente immediato, con un assolo di synth stranamente non fastidioso ma che si inserisce con logica nel tessuto sonoro.

Try è ancora una lento soul moderno (che voce Allison), e funziona, Lodestar è un pezzo quasi etereo e cantato sottovoce, con però un bel tappeto ritmico ed un lavoro chitarristico raffinato, Roll Away è invece un limpido e vivace pop-rock, molto godibile e con uno dei ritornelli migliori del disco. Baton Rouge, ballata elettrica ben costruita e con un gusto melodico non indifferente, con chitarra e piano in evidenza, precede Roisin Starchild, altro pezzo intriso di soul, molto classico (evidente qui lo zampino di Dickinson) e con la voce della Russell perfettamente in parte. L’album termina con Superlover, oasi elettroacustica e quasi folk, sostenuta da uno script maturo, e con Derecho, un funk-rock diverso da tutto il resto ma ugualmente piacevole. Un altro buon lavoro per i Birds Of Chicago, che tra le altre cose hanno l’ottima abitudine di non adagiarsi ma di cercare sempre di evolvere il loro suono, mantenendo comunque una solida struttura di base.

Marco Verdi