Un Grande Bluesman Di “Peso”, Ma Anche Di Spessore! The Nick Moss Band featuring Dennis Gruenling – The High Cost Of Low Living

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The Nick Moss Band featuring Dennis Gruenling – The High Cost Of Low Living – Alligator/Ird

Gli ultimi due album di Nick Moss mi erano piaciuti parecchio: sia l’ottimo doppio From The Root To The Fruit, uscito nel 2016 http://discoclub.myblog.it/2016/07/13/breve-gustosa-storia-del-blues-rock-due-dischi-nick-moss-band-from-the-root-to-the-fruit/ , che era una sorta di viaggio cronologico a ritroso nel blues, da quello classico di Chicago fino al rock-blues grintoso e chitarristico, come pure avevo apprezzato l’eccellente Live And Luscious. Il tutto sempre edito dalla piccola etichetta Blue Bella Records, ed in entrambi i dischi non si poteva non notare la presenza del formidabile vocalist (e secondo chitarrista) Michael Ledbetter, cantante dall’ugola potente. Era quasi inevitabile che prima o poi Nick Moss, nativo di Chicago, approdasse alla Alligator Records, una delle etichette principali della Windy City, e che facesse un album interamente dedicato alle sonorità classiche della sua città, quindi electric e jump blues, e R&R vecchia scuola. Purtroppo Ledbetter non è più presente, ma Moss si è scelto un “sostituto” quasi di pari livello, per quanto differente, l’armonicista e cantante Dennis Gruenling, sulla scena da parecchi anni, con alcuni album all’attivo, e di cui ricordo la partecipazione agli ottimi album di Peter Karp (anche il live con Mick Taylor) http://discoclub.myblog.it/2017/02/27/pronti-via-eccolo-di-nuovo-sempre-ottima-musica-peter-karp-alabama-town/ .

Ma non solo, nell’album è presente anche una piccola sezione fiati, Eric Spaulding e Jack Sanford, oltre a Kid Andersen, co-produttore con Nick del CD, e chitarrista aggiunto in un paio di brani, nonché di Jim Pugh, lo storico tastierista di Robert Cray; il resto la fa la Nick Moss Band, con l’ottimo Taylor Streiff al piano, e la sezione ritmica, Nick Fane, basso e Patrick Seals, batteria. Il sound è puro blues urbano, con il disco registrato a Elgin, Illinois, a due passi dalla capitale delle 12 battute che risulta essere uno dei migliori dischi di Chicago Blues sentiti negli ultimi album.. Il repertorio non pesca dai classici (ci sono solo tre cover), ma sia Nick Moss (8 brani) che Dennis Gruenling (2 canzoni) hanno firmato una serie di pezzi che suonano ugualmente come i “classici” dell’era d’oro del blues elettrico, pur restando ben ancorati allo stile praticato da gente che è venuta prima di loro, alla rinfusa penso ai Bluesbreakers di John Mayall, alla Butterfield Blues Band, ma anche ai Dr. Feelgood o ai Nighthawks. Come certo saprete Nick Moss è un “grosso” chitarrista in tutti i sensi (anche come dimensioni), in possesso di uno stile eclettico e ricco di tecnica, in grado di spaziare in tutte le branche del blues: prendiamo l’iniziale Crazy Mixed Up Baby, il suono pimpante della chitarra ricorda quello dei grandi Bluesbreakers (Clapton, Green o Taylor, in Crusade, vista la presenza dei fiati), Gruenling soffia con forza nella sua armonica e Streiff si disbriga con classe al piano, ma sembra anche di essere tornati al sound della Chicago metà e fine anni ’60 (non dimentichiamo che Moss ha mosso, scusate il bisticcio, i primi passi come bassista di Jimmy Dawkins); Get Right Before You Get Left è un jump blues di quelli vorticosi, qui siamo negli anni ’50, fiati e ritmi sincopati, interventi vocali corali assai brillanti, armonica e chitarra che si fronteggiano a tutta birra.

Per non dire di No Sense un classico “lentone” quasi barrelhouse, grazie al pianino di Streiff, dove l’ospite Kid Andersen inchioda un assolo perfetto, ma pure la title track merita, Moss va di bottleneck alla grande e la band lo segue come un sol uomo. Poi in Count On Me tocca a Dennis Gruenling passare alla guida per un R&R vorticoso, sembra quasi un pezzo di Chuck Berry accompagnato dai Dr. Feelgood o dai Nighthawks, con Moss che tira come una “cippa lippa” e anche in Note On The Door, un classico slow di quelli da locali fumosi, l’atmosfera non si raffredda; con Nick e soci che poi rilanciano nella prima cover, una Get Your Hands Out Of My Pockets scritta da Otis Spann, con Streiff, Gruenling e Moss che duettano in modo splendido. Anche Tight Grip On Your Leash, sembra uscire da qualche vecchio vinile Chess, con i tre solisti sempre brillantissimi, fantastico anche l’omaggio allo scomparso Barrelhouse Chuck con una sentita He Walked With Giants, un altro lento di quelli duri e puri, con Streiff ancora magnifico al piano, ma pure Moss non scherza con la sua solista pungente, difficile fare meglio, ma ci provano con lo shuffle incalzante di A Pledge To You, dove Moss imperversa ancora con la solista. A Lesson To Learn è l’altro brano a firma Gruenling, con l’ospite Jim Pugh al piano, qui siamo dalle parti del R&B e del rock con un suono più tirato, quasi alla Nighthawks con Moss che fa il Thackery di turno, lancinante e “cattivo” il giusto: Pugh rimane (all’organo) anche per una sorprendente All Night Diner, che era il lato B di Sleepwalk di Santo & Johnny, un vorticoso strumentale tra swing e surf. Come commiato un’altra cover di prestigio, Rambling On My Mind, non è quella di Robert Johnson ma di Boyd Gilmore, in ogni caso blues d’annata, sembra di nuovo un pezzo dei grandi bluesmen della Chess anni ’50 e c conclude in gloria un album di grande spessore, sarà sicuramente uno dei migliori nel genere di questo 2018.

Bruno Conti

Sempre Il “Blues Brother” Originale, Anche In Versione Più Intima. Curtis Salgado & Alan Hager – Rough Cut

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Curtis Salgado & Alan Hager – Rough Cut – Alligator/Ird

Ce lo siamo raccontati varie volte, Curtis Salgado è l’originale “Blues Brother”, il prototipo a cui John Belushi si ispirò per creare il suo personaggio di Joliet “Jake” Blues, ma è stato anche il cantante nella prima Robert Cray Band, nei Roomful Of Blues, è stato persino un anno con Santana, ma nel corso della sua lunga carriera ha avuto anche enormi problemi con la sua salute: tumori ai polmoni e al fegato, di cui ha subito un trapianto, e di recente, nel marzo 2017, anche un quadruplo bypass coronarico per problemi al cuore. Molti si sarebbero scoraggiati e avrebbero smesso da anni, ma Salgado da qualche anno, almeno a livello artistico, sembra vivere una seconda giovinezza, grazie alla Alligator che gli ha pubblicato due bellissimi dischi, Soul Shot e The Beautiful Lowdown http://discoclub.myblog.it/2016/04/06/il-blues-brother-originale-colpisce-curtis-salgado-the-beautiful-lowdown/ , intrisi di soul e R&B, con tocchi blues, ma soprattutto incentrati sulla sua splendida voce, una delle migliori tra i bianchi che praticano musica “nera”. Ora, sempre per la Alligator, pubblica questo Rough Cut, un disco di blues puro, registrato in coppia con Alan Hager, che abitualmente è il chitarrista della sua band, un album più intimo, quasi in solitaria a tratti, anche se in alcuni brani appaiono degli ospiti, che vediamo tra un attimo

Il disco, autoprodotto dal duo, è stato registrato in uno studio di Portland, Oregon, dove Salgado vive, e si apre con un brano che è una sorta di manifesto autobiografico, I Will Not Surrender, solo la voce disadorna e poderosa di Curtis, accompagnato dalla chitarra elettrica di Hager, per un brano che fa rivivere certi brani epici di John Lee Hooker, tipo Never Get Out These Blues Alive, una canzone tormentata ed intensa dove spicca l’abilità interpretativa del nostro. Non tutto il disco è a questi livelli di eccellenza, So Near To Nowhere, ancora firmata da Hager e Salgado, è comunque un ondeggiante country-blues, dove l’acustica di Alan è doppiata dall’armonica di Curtis per un limpido esempio di blues acustico classico, con One Night Only, scritta dal solo titolare, dove appaiono anche il piano di Jim Pugh, vecchio compagno di avventura di Robert Cray, e la batteria di Jimi Bott, brano più mosso ed incentrato sul suono dell’armonica, e sempre molto tradizionale nell’approccio, più espansivo ma sempre composto nell’arrangiamento. Nel successivo brano, dedicato ai cinofili (con la o) e ode ad uno dei più grandi amici dell’uomo, I Want My Dog To Live Longer (The Greatest Wish), si torna ad uno scanzonato ed affettuoso blues acustico, firmato di nuovo dal duo, prima di passare ai pezzi da 90, a partire da I Can’t Be Satisfied di Muddy Waters, brano che sembra provenire da qualche vecchio vinile Chess, con la voce di Salgado che ricorda molto quella dell’autore, mentre la pungente slide di Alan Hager è affiancata dal contrabbasso di Keith Brush e dalla batteria di Russ Kleiner, per un tuffo salutare nelle migliori 12 battute classiche.

Poi ribadite in una sentita (anche nel titolo) Too Young To Die di Sonny Boy Williamson, dove Salgado conferma le sue virtù pure come armonicista, oltre a quelle riconosciute di vocalist di gran classe, solo una voce vissuta, una chitarra elettrica e una mouth harp e tanto sentimento; Depot Blues, un brano di Son House del 1942, va ancora più indietro, alle radici di questa musica, un delizioso walking blues nuovamente intenso ed appassionato, come brilla pure Morning Train, un traditional dove Curtis si fa affiancare dalla voce di Larhonda Steele ( e dalla batteria di Brian Foxworth), per un brano teso ed energico che ricorda certe cose del Ry Cooder di fine anni ‘70, grazie alla slide di Hager e ad un finale gospel che risveglia la voce evocativa del nostro amico. You Got To Move è quella di Elmore James, e prevede la presenza di una sezione ritmica, nonché di slide ed armonica, per uno dei brani più elettrizzanti di questa comunque robusta prova di Curtis Salgado, che conferma disco dopo disco le sue virtù di interprete sopraffino, anche con il proprio materiale, per esempio nella deliziosa Hell In A Handbasket, dove si presenta anche come consumato pianista barrelhouse. E lascia spazio al socio Alan Hager che canta Long Train Blues di Robert Wilkins, altro pezzo che viene dal Delta Blues delle origini; il chitarrista è l’autore dello strumentale The Gift Of Robert Charles, altro brano molto “cooderiano” dove si apprezza di nuovo la sua tecnica squisita alla slide. In conclusione un altro pezzo di una leggenda del blues, Big Bill Broonzy, per una I Want You By My Side che conferma la validità espressiva di questo Curtis Salgado “diverso” dal solito, ma sempre efficace.

Bruno Conti

Un Armonicista Molto Indaffarato, Con Alcuni Amici. Mark Hummel & Golden State Lone Star Blues Revue

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Mark Hummel – Golden State Lone Star Blues Revue – Electro-fi Records

Il disco, per essere onesti, non è attribuito a Mark Hummel ma alla Golden State Lone Star Blues Revue, comunque visto che il fattore trainante del disco è proprio l’armonicista e cantante di New Haven nel Connecticut (come tutti gli altri i musicisti presenti nell’album, da lungo residente nella soleggiata California o comunque nella West Coast in generale, di cui sono rappresentanti della scena blues locale) in molti elenchi risulta a suo nome. Il disco è stato registrato nell’aprile del 2015 ai Greaseland Studios di San Jose, con la produzione di Chris “Kid” Andersen, e nella formazione, al fianco di Hummel, troviamo i due chitarristi Anson Funderburgh e Little Charlie Baty, entrambi con un recente passato di leaders di ottime formazioni blues, e la sezione ritmica di R.W. Grigsby e Wes Starr, insieme dai tempi in cui suonavano negli album di Sam Myers/Anson & The Rockets, ma tutti i vari musicisti, in diverse combinazioni, nel corso degli anni hanno suonato insieme, però mai globalmente nello stesso disco, con l’eccezione di cui tra un attimo. Tra gli ospiti aggiunti l’eccellente Jim Pugh (Robert Cray, Etta James, Tracy Nelson e Chris Isaak) alle tastiere, più una piccola sezioni fiati di due elementi, Eric Spaulding e Jack Sanford, quando serve. Per essere ancora più onesti, il precedente disco di Hummel The Hustle Is Really On, uscito nel 2014 sempre per la Electro-fi http://discoclub.myblog.it/2014/05/26/hummel-sai-cosa-ti-aspetta-mark-hummel-the-hustle-is-really-on/ , come vi dicevo un attimo fa, vedeva in azione già la stessa formazione, anche se era, in quel caso, solo per la metà dell’album, comunque attribuito al solo Mark.

Quindi se non è una novità sentire i cinque suonare insieme è comunque sempre un piacere: la “chimica” tra i musicisti è evidente fin dall’iniziale Texas blues Midnight Hour del grande Clarence “Gatemouth” Brown, con le due chitarre soliste a dividersi gli spazi con Hummel, il pianino di Pugh e la sincopata sezione fiati, Here’s My Picture è un vecchio brano di Billy Boy Arnold dai tratti latineggianti che permette all’armonica di Hummel di mettersi in evidenza, mentre Prove It To You è un originale swingante di Hummel con il classico ritmo da “train time”, organo vintage e chitarrine pimpanti, e la seguente Cool To Be Your Fool è una slow blues ballad pianistica tra Randy Newman e una sorta di “after hours” di classe. Check Yourself di Lowell Fulson, benché sempre con un suono raffinato e demodé è comunque più sanguigna, con Stop This World di Mose Allison che sfiora il cool jazz del suo autore, per poi rituffarci nel blues con uno shuffle di Jimmy McCracklin come Take A Chance, dove la chitarra di Funderburgh e l’organo di Pugh hanno il giusto spazio per esprimersi, sempre con i fiati sullo sfondo. Lucky Kewpie Dog è un divertente “blues da spiaggia” a trazione chitarristica di nuovo a firma Hummel, molto piacevole e coinvolgente, seguito da Pepper Man un tradizionale arrangiato da Mark, che si pone all’intersezione tra Chicago e Texas blues, e ancora da un altro shuffle come Walking Mr. Lee, appunto di Lee Allen, brano strumentale dove Mark Hummel si prende i suoi giusti spazi all’armonica https://www.youtube.com/watch?v=WR3pjmwGVeo.

Detroit Blues è una composizione del bassista R.W. Grigsby, piacevole ma abbastanza “innocua”, come altri brani di questo CD, a tratti privo di quel nerbo che ci aspetterebbe da siffatti musicisti. Che invece si distinguono nella poderosa Georgia Slop, altro brano di McCracklin, dove il ritmo tra R&B e R&R è vorticoso, con sezione ritmica e fiati che swingano di brutto, mentre i solisti si danno un gran da fare, e pure nella successiva Dim Lights, un pezzo di JB Hutto, tutti i musicisti ci danno dentro di nuovo alla grande, con una nota di merito per la slide di Charlie Baty, finalmente “letale”, per poi concludere, giustamente, lo dice pure il titolo, con End Of The World, il pezzo più lungo della raccolta, un blues lento ad alta densità emotiva, dove piano, armonica e chitarre, oltre alla voce di Hummel, contribuiscono a creare un’atmosfera sospesa di grande fascino e dalla qualità che avremmo gradito anche in altri momenti di questo comunque soddisfacente Golden State Lone Star Blues Revue.

Bruno Conti