Ne’ Moderno, Ne’ Antico, Solo Blues Sopraffino! Howell Devine – Modern Sounds Of Ancient Juju

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Howell Devine – Modern Sounds Of Ancient Juju – Arhoolie/Ird

Terzo album per questa inconsueta band americana, che prende il nome dai due componenti principali della formazione, Joshua Howell, cantante, chitarrista ed armonicista, e Pete Devine, batterista e percussionista, proponendoci la loro particolare visione del blues, che sembra provenire, grazie a qualche primitiva macchina del tempo, dalle origini di questa musica, intorno agli anni ’20 o ’30, in un qualche juke joint lungo le rive o il Delta del Mississippi, però attenzione stiamo parlando di una band contemporanea, composta da tre musicisti dei giorni nostri, bianchi per di più. Il loro secondo album (e primo per la Aarhoolie, che non metteva sotto contratto un musicista nuovo da una infinità di tempo) aveva un titolo perfetto per definire il tipo di musica, Jumps, Boogies & Wobbles https://www.youtube.com/watch?v=BPXI4ejS7jc , ma anche questo nuovo non scherza, Modern Sounds Of Ancient Juju  (e anche le copertine sono suggestive)! Joshua Howell, il leader, si divide tra chitarra, slide, armonica e canta con un voce spesso laconica e rilassata, ma allo stesso tempo precisa ed espressiva, Pete Devine, utilizza un kit di batteria molto ridotto, ma che gli permette di mostrare comunque una tecnica raffinatissima, sentite cosa non riesce a combinare nella sua composizione, Woogie Man, uno strumentale fantastico dove lui e il nuovo contrabbassista Joe Kyle jr, fanno i numeri ai rispettivi strumenti, mentre Howell lavora di fino all’armonica.

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Quindi musica semplice e primordiale, se vogliamo, come possiamo riscontrare ad esempio nella bellissima cover di I Can’t Be Satisfied di Mastro Muddy Waters, posta in apertura dell’album, forse poco elettrica nella strumentazione, ma elettrizzante nei risultati, con la slide di Howell che guizza e serpeggia alla grande https://www.youtube.com/watch?v=HPArJOgtGCs , se vogliamo fare un paragone forse può ricordare l’R.L. Burnside dei dischi anni novanta per la Fat Possum, meno selvaggio e più misurato, ma ricco di  feeling. Ci sono un paio di brani a firma Frank Stokes, uno dei bluesmen delle origini, It Won’t Be Long Now, dove Devine passa al washboard (come in parecchi brani dell’album) e il suono si fa ancora più minimale, qui si viaggia su sonorità alla Mississippi Fred McDowell o tipo i primissimi Hot Tuna, quelli acustici. Anche la cover di She Brought Life Back To The Dead, scritta da Sonny Boy Williamson II, ha questo suono scarno e primigenio, con un tipo di approccio vocale che potrebbe ricordare i pionieri bianchi del primissimo british blues, Cyril Davies, Alexis Korner e pure il John Mayall degli esordi, grazie all’uso continuo dell’armonica (un altro armonicista che non ha bisogno di presentazioni, Charlie Musselwhite, firma le brevi note di copertina, mentre anche Maria Muldaur ha espresso la sua ammirazione per questa band).

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Si prosegue con un brano originale di Joshua Howell, Let You Go, che comunque suona esattamente come le cover, con la chitarra acustica che sostituisce l’armonica https://www.youtube.com/watch?v=39IML7JMrZA . Quando passa all’elettrica, per l’altra cover di Stokes, Sweet To Mama, il suono rimane laconico ed essenziale ma sempre di grande efficacia, con il piedino che si muove a tempo con il ritmo, detto di Woogie Man, anche House In Field, firmato dall’accoppiata Howell/Devine, potrebbe venire dal repertorio di qualche oscuro bluesman degli anni ’20, mentre Shake ‘Em Down è proprio quella di Bukka White, e qui il sound si fa più elettrico, parte il boogie  https://www.youtube.com/watch?v=8uN6wdBaTmo , sembra quasi di ascoltare i primi Canned Heat o Hound Dog Taylor, con l’amplificazione ridotta al minimo, ma Howell e soci lavorano di fino, la chitarra slide viaggia alla grande e la band dimostra tutto il proprio valore con una grinta notevole. It’s Too Late Brother è un vecchio brano anni ’50, scritto dal batterista della Chess Al Duncan per il suo datore di lavoro Little Walter, ed è un altro tour de force per Howell, altrettanto bravo all’armonica quanto alla chitarra, Rollin’ In Her Arms è un altro brano originale del buon Joshua che dice di essersi ispirato a Howlin’ Wolf, un altro secco blues di grande impatto https://www.youtube.com/watch?v=uPzSNjjNt5s . Chiude la spettacolare Railroad Stomp, registrata dal vivo in un club di Richmond, California, la terra da dove proviene questo trio di musicisti, una classica “train tune” di quelle vorticose https://www.youtube.com/watch?v=15S_ElxpPz4 , con armonica, batteria e contrabbasso che partono per un viaggio nella stratosfera del country-blues. In una parola, bravissimi!

Bruno Conti    

“Hummel, E Sai Cosa Ti Aspetta”! Mark Hummel – The Hustle Is Really On

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Mark Hummel – The Hustle Is Really On – Electro-Fi

Dopo l’ultimo album di studio, Retro-active, pubblicato nel 2010, sempre per l’etichetta canadese Electro-Fi, Mark Hummel ha passato gli ultimi anni, discograficamente parlando, dedicandosi a Little Walter: prima pubblicando nel 2011 un CD, Blue Lonesome, sottotitolo Tribute To Little Walter, che riportava materiale registrato tra il 1984 e la prima decade degli anni 2000 (escamotage già utilizzato per l’appena citato Retro-active che conteneva pure quello materiale registrato in un lungo lasso di tempo) e poi partecipando al Remembering Little Walter della Blind Pig, in compagnia di molti colleghi armonicisti, uno dei migliori dischi di Blues dello scorso anno, giustamente candidato al Grammy per il miglior disco nella categoria ( e di cui avete letto ottime cose su queste pagine http://discoclub.myblog.it/2013/05/18/e-dopo-i-chitarristi-una-pioggia-di-armonicisti-remembering/ ), poi vinto da Get Up, il disco di Ben Harper con Charlie Musselwhite (che era presente pure nel tributo).

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Ma Hummel non è comunque rimasto fermo, nel 2012 ha formato una Touring band, la Golden State-Lone Star Revue, con Anson Funderburgh e Little Charlie Baty alle chitarre, più RW Grigsby al basso e Wes Starr alla batteria, e con l’aggiunta di Doug James ai sax, ci ha registrato metà di questo disco, ai Joyride Sudios di Chicago nell’agosto del 2013. L’altra metà è stata registrata a luglio, in California, con un’altra band, dove il bassista rimane Grigsby, ma il chitarrista è Kid Andersen, Sid Morris al piano e June Core alla batteria. Il risultato è molto buono, il primo album di materiale “nuovo”, non ripreso dagli archivi, di Hummel da molti anni a questa parte e un bel disco regalato agli appassionati del blues di qualità https://www.youtube.com/watch?v=YEZJTrdm2Ng .

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Quattordici brani, quasi un’ora di musica, non mancano due brani con la firma quasi immancabile di Walter Jacobs, tra cui il super classico Crazy Legs, in versione Deluxe e una ottima Tonight With A Fool, con la solista di Kid Andersen a spalleggiare alla grande la voce e l’armonica di Mark, mentre in Crazy Legs c’è il solo Baty (che opera nell’altra metà dei Nightcats, dove non c’è più Baty, con Rick Estrin). La doppia chitarra regna sovrana (a fianco dell’armonica) nelle tirate Blues Stop Knockin’ molto vicina allo spirito dei Fabulous Thunderbirds https://www.youtube.com/watch?v=Q78YXiEbR2I , nella cadenzata I’m Gonna Ruin You Chicago Blues alla Muddy Waters https://www.youtube.com/watch?v=z0yRlrRjG0A , nella cover Boogie-blues molto swingante di The Hustle Is On https://www.youtube.com/watch?v=Df09IX2lD6c . Nei brani registrati in California con Kid Andersen si va decisamente sul Blues, come nella “classica” What Is That She Got, un brano del grande Muddy Waters, dove la slide e l’armonica regnano sovrane, con il piano di Morris a sottolineare il cantato molto scandito di Hummel. Bobby’s Blues evidenzia il sax di Doug James, che però dovrebbe suonare solo nelle canzoni registrate a Chicago, misteri delle note dei CD, comunque altro brano ricco di sostanza.

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Poderosa anche Sittin’ At The Bar, altro esempio di vibrante blues urbano anni ’50, con l’ottima solista di Andersen a guidare la danze. Più jazzata Give Me Time To Explain, ancora dalle sessions registrate a Chicago e che viene dal repertorio di Percy Mayfield, non male anche la ritmata You Got Me, dove Hummel lascia andare la sua armonica a pieni polmoni, delle due cover di Little Walter si è detto, rimane una divertente Lovey Dovey, Lovely One, dagli spunti anche R&B con Funderburgh e Little Charlie quasi telepatici nel loro interagire con l’ottima sezione ritmica. E poi ancora il classico slow blues, immancabile in ogni buon disco che si rispetti, Drivin’ Me Mad, che con i suoi sei minuti e mezzo concede qualcosa ai virtuosismi https://www.youtube.com/watch?v=3dxsz9cbPNc  Conclude la scatenata sarabanda per voce, sax, chitarra e armonica di Gee I Wish. Per parafrasare una vecchia pubblicità “Hummel, e sai cosa ti aspetta!”:

Bruno Conti

Quasi Gemelli Nel Blues, Brandon Santini e Jeff Jensen.

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Brandon Santini – This Time Another Year – Swing Suit Records

Jeff Jensen – Road Worn And Ragged – Swing Suit Records

Quasi una coppia di gemelli del blues, ok “gemelli diversi”, vengono da stati di origine differenti, uno, Brandon Santini, suona l’armonica, l’altro Jeff Jensen, la chitarra, però entrambi hanno scelto come città di elezione musicale, Memphis, dove hanno registrato i rispettivi dischi nei celebrati Ardent Studios, zona Beale Street, una delle mecche della musica delle radici americane, e, cosa più curiosa ed interessante, suonano ciascuno nel disco dell’altro, ma non solo, Jensen produce il proprio e co-produce, con Santini, il disco del “socio”, e usano esattamente gli stessi musicisti per i due album, anche se sono usciti poi in tempi diversi, già da alcuni mesi, ma la reperibilità del materiale di questa Swing Suit Records diciamo che non è tra le più agevoli. La sezione ritmica è composta da Bill Ruffino al basso e James Cunningham alla batteria, Chris Stephenson si occupa dell’organo e, quando serve, in alcuni brani, stesso ospite al piano, Victor Wainwright (che per quanto ne sappia non fa parte della “dinastia”).

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Brandon Santini viene presentato come il nuovo crack dell’armonica, il migliore delle ultime generazioni, anche se io non sottovaluterei Greg Izor (http://discoclub.myblog.it/tag/greg-izor/) , ed in effetti in questo nuovo This Time Another Year, il suono dell’armonica è molto pimpante, classico e moderno al tempo stesso, anche per merito della produzione di Jensen, molto attenta ai particolari e curata negli arrangiamenti. Il fatto di avere una bella voce sicuramente non guasta, il tutto, unito ad un buon talento compositivo (solo un paio di cover, più un riadattamento di un classico, curiosamente, o forse no, come per Jensen, c’è un brano a firma Willie Dixon). La band ha un bel tiro, come testimonia la traccia di apertura, una Got Good Lovin’ che ricorda tanto il suono del british blues, dagli Yardbirds ai Nine Below Zero, quanto gruppi americani come Fabulous Thunderbirds o certe formazioni di West Coast e Texas Blues, con il basso che pompa di gusto, tutti che swingano ed armonica e chitarra che si dividono con misura gli spazi solisti anche se, ovviamente, la mouth harp fa la parte del leone. Nella cadenzata title-track ci si avvicina al classico Chicago Electric Blues, ma miscelato al suono di Memphis, Tennessee, come ricorda lo stesso Santini nel testo autobiografico del brano (dove si fa aiutare da un altro che di armoniche, e di blues, se ne intende, come Charlie Musselwhite), molto intenso, qualche reminiscenza di Help Me, con Jensen e Santini che sono quasi telepatici nei loro interscambi http://www.youtube.com/watch?v=npS_bamUzqI .

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Sempre molto classica la corale What You Doing To Me, dal suono che si avvicina anche a New Orleans, con Wainwright che si prodiga al piano e alle armonie vocali http://www.youtube.com/watch?v=qdfIDe8ybIM ed eccellente uno slow blues come Late In the Evening, dove si percepisce il fantasma di Little Walter http://www.youtube.com/watch?v=CTaB-PHJ5Ck  e degli altri grandi della Chess, ma anche di Sonny Boy Williamson, cui viene reso omaggio pure in un brano firmato appunto con Willie Dixon, una Bye Bye Bird dove il suono si fa più acustico e raccolto. Dig Me A Grave, con l’organo di Stephenson e la chitarra di Jensen molto presenti, ha delle sonorità decisamente più moderne, e lui canta veramente bene http://www.youtube.com/watch?v=IddTP-qJMTc . Things You Putting Down è una di quelle dove si gusta di più l’armonica, mentre nella jazzata Been So Blue Jensen cesella gli accordi sulla sua solista. Coin Operated Woman, scritta ancora da Wainwright, vira di nuovo verso Chicago mentre lo showcase per Santini è una Help Me With The Blues, adattamento di un brano di Walter Horton, dove il piano di Wainwright viaggia come un treno, senza dimenticare la latineggiante Raise Your Window anche questa riadattata da un brano di Sonny Boy Williamson e Elmore James, e a chiudere Fish Is Bitin’, un tuffo tra cajun e folk bues.

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Il disco di Jeff Jensen, Road Worn And Ragged, forse è leggermente inferiore a livello qualitativo globale http://www.youtube.com/watch?v=DDlInpJ4YZM , forse, ma la partenza con un rock blues fulminante come Brunette Woman è da applausi a scena aperta, cantata in modo splendido e suonata anche meglio, con l’armonica di Santini subito in grande spolvero ed un assolo di chitarra di Jensen da sballo, grande apertura http://www.youtube.com/watch?v=CTqAg5_B5zQ . Notevole anche la cover di Heart Attack and Vine di Tom Waits, rivista come se fosse un brano di Howlin’ Wolf, quasi alla Spoonful, con la chitarra lancinante e l’organo di Stephenson in bella evidenza http://www.youtube.com/watch?v=FxNIe0Rw8so . Divertente e frenetico il rockabilly boogie dello strumentale Pepper e raffinato il blues after-hours della jazzata Gee Baby Ain’t I Good To You. Niente male anche le altre due cover, una Little Red Rooster a firma Willie Dixon, in una versione decisamente a velocità accelerata, con il consueto eccellente interscambio con l’armonica scintillante di Santini e Crosseyed Cat, un brano non conosciutissimo di Muddy Waters, che è puro Chicago sound. Raggedy Ann, il brano scritto con Wainwright, è una sorta di blues swingato con ampio spazio per il piano dell’ospite http://www.youtube.com/watch?v=_SXU3ECYy7E  e River Runs Dry è una notevole ballata, quasi da cantautore tradizionale, molta “atmosfera” e poco blues, ma non per questo meno bella, anzi. E si chiude, su una nota brillante, con il funky-soul, proprio da Memphis sound, della ritmatissima Thankful, con un altro assolo da “chitarra fumante” di Jensen, che conclude degnamente questo CD molto eclettico. Bravi entrambi, attenti a quei due!

Bruno Conti 

Il Nome Li “Tradisce” Ma Il Blues E’ Genuino! Egidio Juke Ingala & The Jacknives – Tired Of Beggin’

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Egidio Juke Ingala & The Jacknnives – Tired Of Beggin’ – Vintage Roots Rec.

Spesso gli “scribacchini” della carta stampata e non, tra cui includo anche il sottoscritto, si devono fare largo tra centinaia, anzi migliaia di album, che ogni anno continuano a inondare un mercato discografico sempre più asfittico. E ancora più spesso la scelta di cosa parlare e di cosa no, aldilà dei gusti personali, è ristretta anche dalla non facile reperibilità dei prodotti, sempre più auto gestiti dagli artisti stessi. Un CD di produzione indipendente italiana è più difficile da rintracciare di equivalenti prodotti inglesi ed americani (non sempre) e quindi, avendo tra le mani, questo nuovo “disco” di un gruppo italiano (tradito solo dal nome di battesimo del leader), mi accingo a rendervi edotti del tutto.

Intanto Egidio Juke Ingala è attivo discograficamente da un paio di decadi, ma in questa configurazione con i Jacknives si tratta di una prima. Armonicista e cantante, con trio al seguito, qui parliamo di Blues, anzi, come orgogliosamente proclamano sui loro manifesti “Old School Blues With a Swingin’ Feel”. Quindi cover e brani originali, sette per categoria, che sembrano uscire da vecchi vinili degli anni ’50, e soprattutto dal repertorio di etichette super specializzate come la Excello, la Specialty e la Chess Records, ma non i brani più noti, sarebbe troppo facile, quelli proprio oscuri che solo un grande appassionato può scovare. Naturalmente questo restringe e di molto la cerchia dei possibili fruitori ma non la qualità dell’album. Anche l’abbigliamento sfoggiato nelle foto di copertina, rigorosamente in bianco e nero, e la strumentazione, dove la presenza di un basso elettrico è una concessione alla “modernità” dilagante, sono sintomatiche dell’approccio rigoroso alla materia trattata.

Direi che per il leader della band, Egidio Ingala, tutto parte dallo studio di una trinità di armonicisti, Big Walter Horton, Little Walter e George Harmonica Smith (vi chiederete come faccio a saperlo? Semplice, l’ho letto nella piccola cartella stampa allegata al CD, come diceva Mourinho, non sono mica pirla) e poi da lì, con la passione e pedalando in giro per gli States e l’Europa, tra Festival vari,  ti costituisci una tua reputazione, incidi dischi, cerchi di farli conoscere e quindi un “aiutino” nella diffusione del verbo è sempre gradito, immagino. L’Electric Chicago Blues e lo swing della West Coast, che non è quella acida e country degli anni a venire, almeno per loro, sono gli ingredienti principali di questo Tired Of Beggin’, sia nei brani originali come nelle cover. Il sound è quello tipico di altri neo-tradizionalisti americani, direi che per fare un paragone conosciuto a molti, sono dei Fabulous Thunderbirds meno moderni, ma è per semplificare al massimo e spero sia un complimento.

Proprio l’iniziale Winehead Baby viene da quelle coordinate, con quella sua atmosfera vagamente indolente da New Orleans  inizio anni ’50, quando Dave Bartholomew con il suo amico Fats Domino inserivano elementi R&B e R&R nel blues, ma l’assenza del piano e la presenza preponderante di armonica e chitarra fanno sì che il brano abbia un suono decisamente più bluesato. I’m Tired of Beggin’ con il suo cantato leggermente distorto e i ritmi più mossi, viene dalla produzione di Ike Turner, che aveva “inventato” il R&& da poco con Rocket 88 e qui c’è spazio per la chitarra rockabilly di Marco Gisfredi, l’altro solista della band insieme a Ingala. Hey Little Lee, con un cantato leggermente “sporcato” da un leggero eco viene dalla produzione di James Moore, per gli amici (del blues) Slim Harpo. Cool It è uno strumentale swingato scritto da Gisfredi che si ritaglia uno spazio jazzy per la sua chitarra ma ne lascia ampiamente anche all’armonica.

In Last Words Ingala rende il favore, a tempo di shuffle mentre Come Back Baby ha la struttura da pezzo da big jump band ma viene adattato per quartetto. Fallen Teardrops è il classico slow blues d’ordinanza, un altro strumentale scritto da Ingala in tributo a Mastro George Smith, con il solito spazio anche per la chitarra dopo il lungo assolo dell’armonica cromatica. Don’t say a word è più grintosa e cattiva ed è seguita da un brano firmato dal bassista Massimo Pitardi e quindi con un ritmo più funky, qui direi che siamo “addirittura” negli anni ’60! Anche I’m Leaving You è più elettrica, un Howlin’ Wolf minore, qui mi si sembrano i Dr. Feelgood o i Nine Below Zero o se vi sembrano troppo “moderni”, i primissimi Yardbirds o Stones. Per non fare la lista della spesa delle canzoni l’album è validocomunque nella sua interezza e si conclude con Back Track., un omaggio a Walter Jacobs, altro amato componente della trinità dell’armonica. Verrebbe da dire, per Special(is)ty del Blues. Bravi!

La “ricerca” prosegue.

Bruno Conti

E Dopo I Chitarristi Una “Pioggia” Di Armonicisti – Remembering Little Walter

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Various Artists – Remembering Little Walter – Blind Pig Records 

Il dibattito su chi sia stato il più grande armonicista nella storia del Blues è ancora aperto, ma quasi tutti convengono che Marion Walter Jacobs, per la storia Little Walter, sia il candidato più accreditato. E’ sempre difficile fare graduatorie, ma se Jimi Hendrix vince, giustamente, tutte quelle in cui si parla di chitarra elettrica, Little Walter, uno dei primi ad elettrificare il suo strumento nella Chicago del dopoguerra e ad avere quel suono quasi da sassofono, una sorta di Charlie Parker del blues, per citare un altro che ha avuto una influenza incredibile sulla musica del ventesimo secolo, vince quella del più piccolo strumento a fiato (importante). Senza stare a farla troppo lunga, anche Walter (Little per non confonderlo con Big Walter Horton, venuto poco prima di lui e che molti considerano il più grande come tecnica pura allo strumento e ricordando anche i Sonny Boy Williamson, tra le influenze di Jacobs) si pone tra gli innovatori perché oltre a usare semplicemente l’amplificazione, come facevano altri, l’aveva fatta diventare uno strumento in sé, come era stato per Jimi con la chitarra, lavorare a volumi altissimi (per l’epoca) concedeva possibilità che altri non avevano saputo sfruttare.

Nato a Marksville, Lousiana Little Walter era già a Chicago nel primissimo dopoguerra, 1945, e nel 1948 entrava a far parte della band di Muddy Waters. Dopo poco più di venti anni vissuti pericolosamente, il 15 febbraio del 1968 moriva per le conseguenze di una rissa avvenuta la sera prima in un locale di Chicago (probabilmente l’ultima di una serie che si sommò ad altre avvenute in precedenza): non aveva ancora compiuto 38 anni. Jacobs, oltre ad essere stato “l’armonicista” per eccellenza, era anche un ottimo cantante ed autore e ha realizzato, oltre alle innumerevoli collaborazioni, anche una serie di album e canzoni a nome proprio. Per l’occasione di questo tributo, Remembering Little Walter, Mark Hummel ha radunato un gruppo di armonicisti che sono alcuni tra i migliori ancora in attività (direi che mancano James Cotton e Kim Wilson, così a occhio, tra i top players), ma non essendo un raduno degli alpini e suonando tutti i musicisti nella stessa occasione e non in una serie di registrazioni in diverse date, possiamo ritenerci più che soddisfatti per gli artisti presenti.

In quella serata del dicembre 2012 all’Anthology di San Diego, in aggiunta al citato Hummel ci sono Charlie Musselwhite, Billy Boy Arnold, Sugar Ray Norcia, James Harman e (Little) Charlie Baty, che oltre ad essere uno dei chitarristi della serata si cimenta anche all’armonica, Nathan James dei Rhythm Scratchers (che non conosco benissimo, ma prima era con Harman)) è l’altra chitarra (quella con la forma à la Bo Diddley), Jun Core il batterista,viene dalla band di Musselwhite e il bassista, RW Grigsby suona nei Blues Survivors di Hummel. Un gruppo compatto e solido e poi naturalmente, armonicisti come piovesse, 5+1 per la precisione. Prevalgono i bianchi,ma non è una critica, una semplice constatazione, sette bianchi, due neri e uno “abbronzato”, come ha detto qualcuno di nostra conoscenza, il risultato è più che soddisfacente, direi ottimo. Scorrono molti dei cavalli di battaglia di Jacobs: si parte con una I Got To Go dove il primo dei solisti a prendere il centro della scena è Mark Hummel, e via con i primi assolo, che peraltro sono il motivo di questa serata e quindi aspettiamone tanti. Poi è il turno di Charlie Musselwhite, con la lunga ed intensa Just A feeling, una delle migliori del concerto. Billy Boy Arnold, con una travolgente You’re So Fine, dimostra di essere ancora in grande forma, sia vocale che allo strumento e anche James Harman non scherza, con una vibrante It’s Loo Late Brother, uno dei pochi brani che non porta la firma di Little Walter.

Mean Old Frisco, uno dei preferiti di Eric Clapton, grande estimatore, che ricorda nelle note che “Little Walter è stato una molto, molto potente influenza sulla mia musica”, chiude il primo giro, nell’interpretazione di Sugar Ray Norcia. Si riparte con una ondeggiante e tipica One Of These Morning affidata a Charlie Musselwhite, che a dispetto dei quasi 70 anni è sempre in gran forma (ma non dimentichiamo che il decano della serata, Billy Boy Arnold va per i 78, e non si direbbe). A seguire una riflessiva e delicata Blue Light “pennellata” da un ottimo Hummel, con la sua armonica che riverbera dalle casse dell’impianto in questo favoloso brano strumentale e da Crazy Mixed Up World, uno dei due brani firmati da Willie Dixon, con James Harman che guida con brio il manipolo di musicisti. Up The Line di Sugar Ray Norcia è una di quelle con i tempi più “strani” ma sempre compatibile con il classico electric Chicago Blues della serata. Ancora un grande Arnold con Can’t Hold Out Much Longer che ricordo su 461 Ocean Boulevard di Clapton e poi, tutti insieme appassionatamente, per una corale My Babe, l’altro brano di Dixon, che era la canzone più famosa di Little Walter, sei assolo, dicasi sei, in sequenza, per un gran finale di un ottimo disco, super consigliato agli aficionados dell’armonica ma, in generale, per tutti gli amanti del Blues classico.

Bruno Conti