Quarto Ed Ultimo Capitolo, The Nomad Series: Cowboy Junkies – The Wilderness

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Cowboy Junkies – The Nomad Series Vol.4: The Wilderness – Proper/Latent/Razor and Tie

Il primo “titolo” della serie Remnin’ Park era uscito nell’ottobre del 2010, quindi in meno di 18 mesi, come promesso, i Cowboy Junkies hanno completato questa tetralogia che in fondo non ha avuto un minimo comun denominatore, ma quattro progetti diversi: il primo era un ciclo di canzoni ispirato dalla musica e dalla cultura cinese, in seguito ad un viaggio laggiù di Michael Timmins e famiglia, il secondo, Demons, era un sentito omaggio all’arte e alla musica di Vic Chesnutt, il terzo, Sing In My Meadows era una rivisitazione della psichedelia e dell’acid rock, questo The Wilderness è sempicemente una raccolta di nuovi canzoni del gruppo canadese scritta a cavallo degli altri dischi, iniziata prima e conclusa negli ultimi mesi del 2011.

Il risultato è il miglior disco dei Cowboy Junkies (a parte Demons, che a chi scrive pare superiore, ma non era farina del loro sacco) da molti anni a questa parte: per la maggior parte, soprattutto nella seconda metà, quello che una volta si sarebbe chamata seconda facciata, canzoni di qualità superiore come non capitava di sentire nei loro album da qualche tempo. Nei loro CD non sono mai mancate le punte di eccellenza, brani che ti facevano alzare la testa e attiravano la tua attenzione di ascoltatore, ma questa volta mi sembra che il livello sia notevole senza soluzione di continuità.

In fondo sono tornati a quello che sanno fare meglio: brani lenti, ipnotici, quasi narcolettici, soprattutto ballate con l’occasionale sprazzo di energia chitarristica da parte di “fratello” Timmins che come al solito nel comporre si ispira alla sua patria il Canada, The Wilderness, vogliamo dire “I Territori Selvaggi” ben inquadrati dal titolo dell’ultimo brano, Fuck, I Hate The Cold, Cazzo, Odio Il Freddo. Perchè comunque non ti abitui mai, ci vivi, ami la tua nazione, ma…c’è un limite a tutto.

Sul tutto aleggia, eterea, sofferta, struggente e unica (non puoi non riconoscerla), la voce di Margo Timmins, il vero motivo per cui la musica di questo gruppo canadese è rimasta nell’immaginario collettivo degli appassionati della buona musica in questi ultimi 25 anni. Gli altri componenti del gruppo la scrivono e la suonano ma l’impronta di classe la aggiunge la voce di questa imperturbabile (almeno esteriormente) signora di oltre 50 anni (non si dovrebbe dire) che canta con voce angelica questo repertorio sempre vecchio e sempre nuovo.

Dal folk acido, leggermente psych ma contenuto dell’iniziale Unanswered letter alla meravigliosa ballata Idle Tales, vera quintessenza del sound del gruppo passando per il folk acustico e leggero della delicata We Are The Selfish Ones. E poi ancora le atmosfere malinconiche e sospese della bellissima Angels In The Wilderness replicate alla perfezione nell’affascinante Damaged From The Start, un brano che ha un refrain che ti ricorda brani del passato che non riesci ad afferrare ma sono lì al limite del tuo inconscio.

Poi dopo questo inizio già travolgente (a livello emotivo) ti piazzano una seconda parte strepitosa: Fairytale è uno dei loro brani più belli di sempre, un mandolino, una chitarra acustica e poco altro, e quella voce intensa che scandisce il testo della canzone con grande partecipazione. Eccellente anche la successiva Staring Man dal suono più bluesy a cui si aggiunge un violino insinuante affidato a Miranda Mullolhand. Per non parlare della lunga The Confessions Of Georgie E, un brano dalla costruzione circolare dove alla chitarra younghiana ed evocativa di Mike Timmins si affianca un vibrafono suonato da Michael Davidson che aggiunge un tocco raffinato e jazzato alla psichedelia gentile del brano. Let Him In questa volta con un piano elettrico a dettare la melodia è un’altra ballata calda ed avvolgente che ti scalda prima dei “rigori” incazzosi della già citata Fuck, I hate the cold, l’unico pezzo di questo album dove fa capolino un rock più mosso dei loro canoni abituali.

Bello, molto bello e non aggiungo altro. O sì? Mi sa che anche alla fine di quest’anno saranno nella lista dei migliori album!

Bruno Conti

Capitolo Terzo. Cowboy Junkies – Nomad Series:Sing In My Meadow

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Cowboy Junkies – Sing In My Meadow Nomad Series Vol.3 – Proper Records

Come annunciato fin dall’inizio di queste Nomad Series i Cowboy Junkies approdano al terzo volume, quello psichedelico. Perché, mi pare di intuire, ogni singolo progetto è unificato da un tema, e se quello di Remnin’ Park (la-tetralogia-dei-cowboy-junkies-capitolo-i-renmin-park.html) era la musica e la cultura cinese, quello di Demons (disco-del-mese-cowboy-junkies-demons.html) la rivisitazione di alcuni momenti dell’opera di Vic Chesnutt, questo Sing In My Meadow si potrebbe sintetizzare in Loud Guitars and Heavy Bass & Drums ovvero, come ha detto lo stesso Michael Timmins, troviamoci per quattro giorni nei nostri studi ed improvvisiamo in libertà cercando di ricreare alcuni di quelli che sono stati momenti topici nella nostra ricerca musicale. 

“Miles Davis all’Isola di Wight nel suo trip di Bitches Brew, Captain Beefheart nel periodo creativo di Mirror Man, i Birthday Party di Nick Cave all’Electric Ballroom di Londra nelle ultime propaggini dell’era punk o i tanto amati Crazy Horse di Neil Young nel pieno del loro furore chitarristico”.

Hai detto niente! Solo che loro sono i Cowboy Junkies dal Canada, il gruppo caratterizzato dall’angelica voce di Margo Timmins e da atmosfere eteree e sognanti, il più delle volte. Certo, soprattutto nei concerti dal vivo (ma anche su disco), ogni tanto si lasciano andare a momenti più duri e improvvisati con le chitarre che si incattiviscono e la sezione ritmica libera di agire in libertà con la voce di Margo lasciata a fluire sul tutto. E non è tra questi brani che si trovano le perle del loro repertorio anche se fanno parte del loro DNA visto che Michael Timmins è comunque l’autore dei brani e il leader musicale del gruppo.

Quindi? Dopo avere ascoltato per qualche volta questo Sing In My Meadow non lo metterei allo stesso livello dello splendido Demons: è un buon album dei Cowboy Junkies, non uno dei loro migliori, sicuramente tra i più “strani”. Dividerà i fans e anche gli appassionati di musica: gli altri comunque non l’avrebbero ascoltato quindi non ci interessa il loro parere. Anche quello di chi scrive è solo un parere e quindi vale solo a livello personale: dalla violenta e distorta apertura di Continental Drift con chitarre fuzzy, fiati trattati elettronicamente (o e l’armonica’ O tutti e due?) e la voce di Margo Timmins sommersa dal magma sonoro del gruppo sembra di essere più in territori grunge che psichedelici.

Le atmosfere sospese, filtrate e ricche di echi di It’s Heavy Down Here tra i Crazy Horse meno “carichi” e il suono classico del gruppo lasciano più spazio alla voce di Margo di incantare. 3rd Crusade con le chitarre taglienti e aguzze di Mike Timmins, il basso potente di Alan Anton su sonorità che ricordano quelle di Jack Casady e la batteria di Peter in libertà, si avvicina ai vecchi Jefferson Airplane (e progetti Starship collaterali) di Grace Slick con la voce della Timmins più autorevole e vibrante del solito. Late Night Radio è uno dei brani migliori del progetto, la voce è in primo piano, non è filtrata da strani effetti e anche se le chitarre di Michael si arricchiscono di pedali wah-wah, la canzone mantiene quelle coordinate tipiche del loro stile, sognante e notturna come si conviene, insomma una bella canzone.

Nella title-track Sing In My Meadow, fanno capolino chitarre acustiche (una rarità in questo disco) anche in modalità bottleneck e l’armonica di Jeff Bird per un brano dall’impianto vagamente Blues, il Blues secondo i Cowboy Junkies, comunque un altro brano notevole con una parte centrale ancora tra psichedelia à la Jefferson e momenti più quieti. Tornano le chitarre pungenti in Hunted dai ritmi vagamente jazzati e spezzati della ritmica e la voce cerca di trovare una melodia che si perde tra montagne di chitarre che ti aggrediscono dai canali dello stereo, piace, non piace? Si vedrà! A bride’s place oltre al sound dei già citati Jefferson e ai punti di riferimento enumerati da Michael Timmins mi ha ricordato la terza facciata (quando c’erano ancora), quella più sperimentale, di Electric Ladyland di Hendrix quella dove c’erano il basso pulsante di Casady e l’organo di Winwood aggiunti agli Experience e qui la voce di Margo Timmins negli ampi spazi funziona in modo efficace.

Chiude Move On con le chitarre tra feedback impazzito e sonorità più fuzzy, con il free drumming del terzo fratello Timmins lasciato in libertà, la voce di Margo è sempre filtrata e si aggira un po’ aliena tra gli spazi ristretti della musica. Per concludere, se vi piacciono i Cowboy Junkies di Trinity Session passate pure le mano, se invece i vostri ascolti prevedono anche altri percorsi sonori più complessi e difficili il disco ha i suoi momenti anche se Demons rimane il loro “disco del 2011”. A proposito di mani, così parlò Ponzio e pure Pilato!

Comunque se non ci avete capito nulla, nel sito si possono ascoltare in streaming gli otto brani dell’album http://latentrecordings.com/cowboyjunkies/ ed eventualmente acquistarlo con il Bonus EP con le tracce live dal tour 2006.

Bruno Conti

Disco Del Mese! Cowboy Junkies – Demons

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Cowboy Junkies – Demons – The Nomad Series Volume 2 – Latent Recordings – Proper Records & Razor & Tie 14/02/2011

Questa volta i Cowboy Junkies hanno fatto centro pieno, se il primo episodio delle Nomad Series Remnin’ Park era un buon album con delle punte di eccellenza, per esempio la canzone che dà il titolo al disco, questo nuovo Demons si avvicina molto al capolavoro, è comunque un “labour of love” come lo hanno definito loro, un omaggio alla musica e alle visioni di quel particolare e unico artista che è stato Vic Chesnutt, scomparso il giorno di Natale del 2009.

Vic Chesnutt ha lasciato un testamento discografico che comprendeva ben 17 dischi quindi il bacino dove i Cowboy Junkies hanno potuto attingere per registrare questo tributo era molto ampio ma direi che la scelta dei brani è risultata molto azzeccata come pure la loro realizzazione. Facendo un passo indietro, già nel 1996 molti artisti tra i più validi e/o conosciuti avevano partecipato alla registrazione di un album Sweet Relief II:Gravity Of The Situation che si proponeva di raccogliere fondi per pagare le cure mediche relative alla malattia di Chesnutt che era su una carrozzina a rotelle, semiparalizzato da un incidente automobistico avvenuto nel 1983 che gli aveva lasciato come conseguenza anche un limitato uso delle mani ma la cui intelligenza, arguzia, ironia, anche cruda amarezza perfino un buffo umorismo nero, non lo aveva mai abbandonato. In quel tributo c’erano, fianco a fianco i R.e.m., gli Smashing Pumpkins, le Indigo Girls, Nancy Griffith, Mary Margaret O’Hara, i Soul Asylum e i Garbage, perfino Joe Henry con sua cognata Madonna ma non i Cowboy Junkies. Probabilmente quel disco da solo ha venduto più di tutta la discografia di Chesnutt che, pensate, si stima abbia venduto 100.000 copie di tutti i suoi album.

Il gruppo canadese aveva già pensato in passato, più volte, di fare un album tutto dedicato alle canzoni del cantautore di Athens, Georgia ma avevano abbandonato il progetto non sentendosi pronti anche se la loro amicizia con Chesnutt era culminata nella sua partecipazione alla realizzazione di Trinity Sessions Revisited il disco del 2007 che riviveva i fasti del più bel disco della loro discografia. In quell’occasione si era parlato di ulteriori collaborazioni che non sono potute avvenire a causa della scomparsa di Vic.

Quando i Cowboy Junkies hanno pensato a questa tetralogia della Nomad Series un disco di cover era già previsto, si trattava di scegliere l’argomento e il primo candidato era stato Townes Van Zandt con la cui musica i Junkies avevano una profonda empatia (ricambiata dal cantautore texano che ha dedicato loro perfino una canzone Cowboy Junkies Lament):alla fine la scelta è caduta sulle canzoni di Vic Chesnutt e i frutti di questo lavoro sono straordinari.

Il disco è, probabilmente, il loro più bello in assoluto, forse anche migliore di Trinity Sessions e comunque a livello qualitativo ci si avvicina tantissimo e questo avviene nel 2011 in cui il gruppo festeggia 25 anni dalla pubblicazione del primo album, raro caso di longevità; ma tre fratelli e un amico di famiglia evidentemente non faticano a coabitare nella musica (con l’eccezione dei fratelli Davies e Gallagher).

Partiamo dal fondo. Sul loro sito, oltre al disco principale, è disponibile anche un Bonus Disc con 7 brani sempre scritti da Chesnutt che si può scaricare per 5 dollari http://latentrecordings.com/cowboyjunkies/demons-pre-order/ e non sarà disponibile nella versione ufficiale nei negozi dal 14 febbraio. Orbene questo EP da solo sarebbe un buon disco ma con i (piccoli) difetti della loro discografia recente: un paio di brani fantastici ma poi altre canzoni di buona qualità ma senza quella scintilla particolare che divide una bella canzone da una canzone. In questo caso i brani eccellenti sono l’iniziale Stay Inside una intensa ballata nel loro stile unico, con la voce sussurrata e sensuale di Margo Timmins che viene sostenuta da quella di Andy Maize (un loro amico che Mike Timmins dice veniva utilizzato quando la sorella non era disponibile per registrare una sorta di traccia del brano e il cui contributo poi è rimasto in alcuni brani come seconda voce) e dalla chitarra distorta del buon Mike. L’altro brano ottimo è Sad Peter Pan una delle canzoni più personali di Chesnutt, triste e malinconica, viene presentata in un arrangiamento magnifico caratterizzato dal clarinetto dell’ospite Henry Kucharzyk che aggiunge una nota quasi crepuscolare alla interpretazione perfetta di Margo Timmins che negli anni ha aggiunto un’aura di maturità a quella voce inconfondibile che forse non è tra le più belle in assoluto ma sicuramente tra le più inconfondibili: la sua voce, come quella di Emmylou Harris o Natalie Merchant la riconosci subito, o quella di Lucinda Williams poi magari non è brava come, che so, Patty Griffin ma sai subito chi è!

Non è che il resto del dischetto faccia schifo, anzi, la versione quasi psichedelica, notturna di Old Hotel con le linee della elettrica di Mike Timmins in grande evidenza e la voce filtrata di Margo che si appoggia su un liquido piano elettrico sono sempre interessanti ma quasi più “normali” per loro.

A proposito di chitarre, l’iniziale Wrong Piano (e qui siamo nel disco ufficiale) si avvale di una parte chitarristica di Michael Timmins a dir poco strepitosa, se proponete ad un amico il consueto Blind test, la potreste spacciare per l’incipit di un brano di Neil Young e pure di quelli belli poi la canzone si sviluppa in un crescendo inarrestabile, via via con la voce sicura di Margo, un organo circolare e ripetuto che aggiunge spessore al sound della band e di nuovo l’assolo finale di chitarra di Mike che dimostra vieppiù di essere diventato un ottimo solista. I due brani successivi sono addirittura magici. Flirted With You All MY Life (sul tema della morte, uno dei più ricorrenti nelle canzoni di Chesnutt) cantata in prima persona dalla Timmins, ma il testo cantato da una voce femminile che recita “I am a man” non risulta ambiguo o grottesco, anzi aggiunge pathos e poesia ad una versione dove la doppia tastiera piano-organo domina le sonorità del brano e ti proietta verso vette di grande intensità con il gruppo che regala una delle interpretazioni migliori della loro carriera. See You Around è una ballata perfetta propelsa da un basso rotondo e insinuante e da un organo maestoso che sostengono una interpretazione da 5 stellette di Margo Timmins che ritorna ai fasti di Cause Cheap Is How I Feel una delle loro canzoni più belle di sempre, veramente magnifica.

Con un inizio così è difficile fare meglio e infatti il gruppo si prende una pausa con l’interlocutoria Betty Lonely, una canzone jazzata, notturna ancora percorsa da quelle sonorità magiche dell’organo ma che secondo il sottoscritto è appena inferiore (pur rimanendo su livelli di eccellenza assoluta) ai tre brani che l’hanno preceduta, sempre cantata come Dio comanda ma manca qualcosa (tutto è soggettivo ovviamente). Square Room è addirittura maestosa nel suo andamento, degli archi in sottofondo, una acustica appena accarezzata e la voce che rende pienamente giustizia ad una delle più belle canzoni del canone di Chesnutt, triste e solitaria ma mai sconfitta la bravura dello sfortunato musicista viene a galla in canzoni come questa, di una bellezza quasi dolorosa. Ladle è un’altra cavalcata Younghiana con la chitarra psichedelica di Mike Timmins a disegnare percorsi quasi orientali e arabescati sul tessuto del brano con Margo che, in una delle rare occasioni, eleva la sua voce al disopra del consueto quasi sussurrar cantando. Tra l’altro la musica di Chesnutt non è estranea anche ai percorsi del rock, pensate ai due dischi pubblicati come Brute insieme ai conterranei Widespread Panic.

Per Supernatural il gruppo rispolvera un intrigante mandolino che guida le operazioni di un brano acustico e sommesso che segnala una oasi di serenità nel percorso dell’album. West of Rome era la title-track di quello che rimane, forse, il disco più bello di Chesnutt, prodotto da un grande ammiratore della sua opera, Michael Stipe che seppe ottenere in quell’occasione il meglio dal suo amico: questa versione è, ancora una volta, molto bella, leggermente narcotica com’è nelle corde dei musicisti canadesi ma molto intensa. Strange language è uno dei rari episodi minori di questo disco, bella ma sembra incompiuta rispetto al resto dell’album, improvvise esplosioni di organo e chitarra, addirittura una sezione di fiati, ma, al momento, non mi convince del tutto (poi ci ripenso, magari col tempo tutto cambia).

Ci avviamo alla conclusione con We Hovered With Short Wings un altro episodio notturno ancora caratterizzato dalla presenza di un clarinetto che aggiunge un tocco quasi cameristico alle sonorità rarefatte del brano che rimane sospeso sulla tenue vocalità della signora Timmins che nel finale si sdoppia brevemente nei due canali dello stereo. Prima dell’ultima canzone c’è un breve interludio con la voce di Vic Chesnutt registrata in qualche concerto mentre intrattiene il pubblico con il suo umorismo particolare ed autodeprecatorio: When The Bottom Fell Out è un brano breve e dolcissimo che conclude su una nota di ottimismo questo album, piano e organo e una sezione fiati quasi gioiosa in evidenza e un’altra bella prestazione di Margo Timmins, cosa volere di più per concludere in bellezza?

Scusate se mi sono un po’ dilungato, spero di non avervi annoiato, ma come ho detto in altre occasioni considerato che il Blog, ormai, lo gestisco io e posso farlo, in questo caso “Io può”!

Per concludere con tre parole. Gran Bel Disco!

Bruno Conti