Recensioni Cofanetti Autunno-Inverno 8. La Prima Delle Due Carriere Di Una Grande Rock’n’Roll Band! Mott The Hoople – Mental Train: The Island Years 1969-1971

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Mott The Hoople – Mental Train: The Island Years 1969-1971 – Island/Universal 6CD Box Set

Pur trattandosi dello stesso gruppo, esistono due fasi distinte nella carriera dei Mott The Hoople, storica rock band inglese, e lo spartiacque tra queste due fasi si chiama All The Young Dudes. Infatti è grazie alla splendida canzone regalata loro da David Bowie, e all’album con lo stesso titolo, che il combo britannico nel 1972 ha spiccato il volo verso l’immortalità, diventando uno degli act di punta dell’allora imperante movimento glam (anche se i nostri non condividevano più di tanto questa appartenenza, essendo sempre rimasti coi piedi ben saldi nel rock’n’roll) e servendo in un secondo momento come trampolino di lancio per la carriera solista del leader Ian Hunter. Ma esistono anche i Mott degli inizi, una band dalle enormi potenzialità e titolare di quattro album di grande musica rock, nonché responsabile di esibizioni dal vivo al limite dell’infuocato: un gruppo che però non riuscì ad andare oltre al ruolo di “cult band”, e che rischiò di veder svanire i suoi sogni quando, all’indomani dell’album Brain Capers, era provata da forti tensioni interne e non aveva una direzione precisa da seguire. Eppure i nostri (oltre a Hunter, che sostituì il precedente vocalist Stan Tippins su iniziativa di Guy Stevens vulcanico e geniale – al limite dello schizofrenico – manager e produttore del gruppo, i componenti erano il chitarrista Mick Ralphs, secondo songwriter dopo Hunter, il bassista Pete Overend Watts, scomparso l’anno scorso, l’organista Verden Allen ed il batterista Dale Griffin) ci sapevano fare alla grande, sia nelle ballate che nei pezzi più elettrici e roccati, ed il loro suono è sempre stato visto come se Bob Dylan (grande ispirazione per Hunter, anche dal punto di vista vocale) avesse avuto i Rolling Stones come backing band.

Mott The Hoople Mental Train box

Ora i primi quattro lavori dei Mott vengono raccolti in questo bellissimo cofanetto, con diverse bonus tracks per ogni disco e due CD aggiuntivi, uno di rarità ed uno contenente materiale dal vivo: già nel 2003 questi album avevano beneficiato della ristampa (ad opera della Angel Air), ma allora i bonus per ogni disco erano al massimo un paio, mentre qui alla fine ci troviamo ad avere ben trenta brani inediti in totale, senza contare quelli rari (rispetto a quella serie di ristampe, manca l’antologia ricca di inediti Two Miles From Heaven del 1980, i cui brani sono però sparpagliati tra le bonus tracks di questo box). In più, è stato fatto un lavoro egregio di rimasterizzazione, al punto che sembra di avere per le mani dischi incisi da solo pochi mesi. Ecco dunque una disamina album per album, con in evidenza le (tante) canzoni salienti. CD1 – Mott The Hoople (1969): il gruppo esordisce subito con un disco di notevole valore, che inizia con una frustata, cioè una potentissima versione strumentale di You Really Got Me dei Kinks, suonata come se ci trovassimo di fronte ad una punk band ante litteram, con la chitarra di Ralphs a sostituire la linea vocale di Ray Davies. Non è l’unica cover, dato che abbiamo una sontuosa At The Crossroads (Sir Douglas Quintet), ancora meglio dell’originale e con una coda strumentale strepitosa, e soprattutto una stupenda Laugh At Me, scritta da Sonny Bono e più dylaniana che mai, quasi fosse tratta dalle sessions di Highway 61 Revisited (e poi anche l’ex marito di Cher era un dylaniano doc).

Tra i brani originali spiccano senz’altro la ballatona Backsliding Fearlessly, ancora puro Dylan (pensate a The Times They Are A- Changin’), la scatenata Rock And Roll Queen di Ralphs, e soprattutto Half Moon Bay, vibrante rock ballad di più di dieci minuti, che alterna momenti di tranquillità ad altri in cui la tensione si taglia con il coltello. Come bonus, oltre a varie single versions e mix alternativi, il centro della scena se lo prende indubbiamente la take completa di You Really Got Me, ben undici minuti di rock’n’roll ad altissimo tasso adrenalinico (e c’è spazio anche per una versione più breve della stessa canzone, questa volta cantata anche se da Stevens e non da Hunter o Ralphs). CD2 – Mad Shadows (1970): disco carico di tensione, nato in seguito a sessions dominate da comportamenti al limite della follia di Stevens (in pieno trip di droghe pesanti), e con una copertina a dir poco inquietante. Ma è anche il mio disco preferito della prima fase, un album bellissimo che si apre con la devastante Thunderbuck Ram, un pezzo di puro hard rock scritto e cantato da Ralphs. Ma è Hunter il grande protagonista (tra l’altro meno dylaniano che nel primo album), innanzitutto con la coinvolgente Walking With A Mountain, uno dei suoi classici futuri, ma in misura maggiore con le ballate, come la pianistica No Wheels To Ride, splendida ed emozionante, la potente You Are One Of Us, sempre uno slow ma dal suono rock, la maestosa I Can Feel, sette minuti di pura bellezza, con un coro a donare un sapore gospel, o ancora When My Mind’s Gone, tutta costruita intorno a voce e piano, intensa come poche.

Tra i brani aggiunti, il demo di No Wheels To Ride, già bello di suo, la take 9 di You Are One Of Us, che dura il doppio dell’originale ed è decisamente più rock, ed una fulminante versione di  studio mai sentita del classico di Little Richard Keep A-Knockin’. CD3 – Wildlife (1971): un album meno problematico del precedente, ma comunque di buon livello (e molto meno rock); il contributo di Hunter come autore si limita a tre canzoni: la tenue Angel Of Eighth Avenue, che riflette il clima bucolico della copertina, così come la countryeggiante The Original Mixed- Up Kid, mentre Waterlow è un mezzo capolavoro, una ballata da pelle d’oca, di un’intensità incredibile e tra le più belle di Ian. Anche Ralphs è in ottima forma, e lo dimostra con l’energica Whiskey Women, posta in apertura, la bella ed evocativa rock ballad Wrong Side Of The River, che inconsciamente anticipa un certo suono southern in voga di lì a breve in America, ed il puro country di It Must Be Love. Due le cover: una vigorosa rilettura pianistica e corale di Lay Down della folksinger Melanie, e soprattutto una fluiviale Keep A- Knockin’ dal vivo, dieci minuti di puro rock’n’roll.

Le bonus tracks annoverano tra le altre due singoli dell’epoca, la luccicante Midnight Lady (che per sbaglio è stata inserita in una versione strumentale!) e la più ruspante Downtown, cover di un pezzo scritto da Neil Young con Danny Whitten. Tra gli inediti assoluti spiccano la scatenata Growing Man Blues e The Ballad Of Billy Joe, che aveva delle potenzialità ma Hunter non si è preoccupato di finirla. Se Mad Shadows aveva venduto pochissimo, questo disco andrà anche peggio. CD3 – Brain Capers (1971): ultimo album prima del rilancio commerciale che avverrà pochi mesi dopo, ma con i nostri già pronti al grande salto. Brain Capers infatti contiene la straordinaria The Journey, una ballata fantastica, nove minuti di pura poesia ed uno dei vertici assoluti di Hunter. Ma il riccioluto (ed occhialuto) rocker si distingue anche per Death May Be Your Santa Claus, un rock’n’roll suonato con piglio da garage band, la mossa e coinvolgente (e dylaniana) Sweet Angeline, e con l’elettrica The Moon Upstairs, dal sound potentissimo dominato da chitarra ed organo, e con Griffin che sembra Keith Moon. Le cover sono due: una resa ancora molto Dylan (e con organo alla Al Kooper) di Your Own Backyard di Dion, ed una epica ed evocativa Darkness, Darkness (Jesse Colin Young) cantata da Ralphs.

Tra i brani aggiunti troviamo due canzoni che in veste differente finiranno su All The Yound Dudes, cioè la nota One Of The Boys ed una prima versione di Momma’s Little Jewel intitolata Black Scorpio, oltre ad una embrionale The Moon Upstairs, devastante come quella pubblicata e dal titolo di Mental Train (mentre How Long? è forse anche meglio della sua controparte, cioè Death May Be Your Santa Claus). CD5 – The Ballads Of Mott The Hoople: dodici canzoni, gran parte delle quali inedite. Ci sono due ottime live versions di No Wheels To Ride e The Original Mixed-Up Kid, alternate takes di Angel Of Eighth Avenue e The Journey (sempre grandissima quest’ultima, con quella finita su Brain Capers è una bella lotta), e Blue Broken Tears che non è altro che Waterlow, quindi ancora brividi lungo la schiena. Ma il pezzo centrale è la maestosa Can You Sing The Song That I Sing, uno slow di straordinaria intensità che dura ben sedici minuti, e che dimostra che in nostri non erano un gruppo qualsiasi. Per finire, non dimenticherei la scintillante soul ballad Ill Wind Blowing, con uno splendido pianoforte. CD6 – It’s Live And Live Only: che dire di questo dischetto? Altri dodici pezzi che confermano che i Mott erano anche una grande live band, con superlative riletture di No Wheels To Ride in medley con Hey Jude (8 minuti), Keep A-Knockin’ (altri 8 minuti), You Really Got Me (quasi 10 minuti) e The Journey (9 minuti), oltre ad una lucida versione di Ohio di Neil Young.

Mental Train è un cofanetto che corre il rischio di passare inosservato a causa dell’invasione di box set importanti di questa fine 2018, e la cosa sarebbe ingiusta in quanto al suo interno c’è tantissima grande musica, il cui ascolto non fa altro che infittire il mistero sul come mai i Mott The Hoople in quel periodo fossero sull’orlo dello scioglimento.

Marco Verdi