Suoni Di Casa (Di Tab Benoit) E Tanta Slide, Ma Non Solo! Damon Fowler – Sounds Of Home

damon fowler sounds of home

Damon Fowler – Sounds Of Home – Blind Pig/IRD

Molti sono convinti che questo sia il terzo album di Damon Fowler, al limite il quarto, contando anche il CD dei Southern Hospitality (con Jp Soars e Victor Wainwright), ed in effetti è vero, ma solo contando la produzione con l’etichetta Blind Pig.

Risalendo nel passato, il musicista di Brandon, Florida (un paesino nei pressi di Tampa Bay, quasi una “istigazione” giovanile al Blues), aveva già pubblicato tre dischetti, tra cui un live, usciti con distribuzione indipendente, a cavallo della scorsa decade, o dello scorso secolo se preferite. Gli ultimi tre sono notevolissimi, di Sounds At Home ci occupiamo immediatamente, e lo confermano uno dei massimi talenti emergenti del nuovo blues, come chitarrista, soprattutto alla slide, dove è veramente letale , e come cantante, con una voce che è una via di mezzo tra uno Steve Marriott, un filo meno potente, e un vecchio cantante soul (che sono quasi la stessa cosa)! Se poi aggiungiamo che la produzione del nuovo album è affidata a Tab Benoit (che scrive quattro pezzi con Fowler, e canta e suona, con discrezione, nel disco) il risultato è pressoché matematico: gran bel disco, con un sound da sballo.

Registrato nei Whiskey Bayou Studios (un nome, un programma) di Houma, Lousiana, di proprietà di Benoit, il disco è un’ode alla buona musica, principalmente blues, ma non solo. Grande chitarrista slide , anche se non forse della scuola virtuosistica alla Derek Trucks o Sonny Landreth, o di quella più rigorosa ma immaginifica di un Ry Cooder (a cui mi pare più vicino), senza dimenticare Winter, il nostro Damon si disbriga bene anche con le accordature tradizionali, per quanto con un tipo di suono un po’ sghembo, aspro, molto ritmico, comunque trascinante. Prendete l’iniziale Thought I Had It All, con il bottleneck che inizia a scivolare quasi con libidine sul manico della chitarra e Fowler che canta con una voce tiratissima e “cattiva”, come quella che aveva il giovane Marriott o altri giovani bianchi che si sono cimentati con il blues-rock nel corso degli anni: l’atmosfera è sospesa e minacciosa, la sezione ritmica scandisce il tempo con grande perizia e il brano, e il disco, prendono subito quota, con l’assolo nella parte centrale che è veramente letale.

E siamo solo al primo brano. Il secondo, scritto con Tab Benoit, e che è quello che dà il titolo all’album, Sounds Of Home, ci porta dalle parti delle paludi della Lousiana, dove ci aspetta un personaggio pittoresco, ma di grande carisma come Big Chief Monk Boudreaux, che con il suo vocione vissuto aiuta il “giovane” Damon a spargere il seme del blues, del rock e della bayou music dei vecchi Creedence più ingrifati di Fogerty, con la giusta grinta, gustosissimo il breve ed intricato solo nella parte finale. Trouble, scritta ancora con Benoit, ed Ed Wright, che aveva firmato anche il brano iniziale, è una sinuosa e sensuale ode al funky-soul più genuino, con un groove della sezione ritmica che spinge il piedino irresistibilmente a muoversi e lui che canta divinamente, mentre si occupa con amore della sua chitarra, titillata quasi con piacere, che meraviglia! Spark sfodera ritmi quasi da R&R e con un pizzico dello Springsteen più gioioso (sto dando i numeri?), ma ancora anche tanto Fogerty, e i due qualche punto in comune ce l’hanno. Old Fools, Bar Stools And Me (bel titolo) è uno slow blues & soul, molto cadenzato, quasi attendista, ma aspetta che ti aspetta, quando parte l’assolo ti stende al tappeto sotto lo sgabello del bar. Where I Belong avrebbe potuta suonarla Ry Cooder nei suoi dischi degli anni ’70, quelli del blues alle radici della musica, un train sonoro semplice e una slide misurata, ma sempre in grado di fare i numeri, con Benoit che lo aiuta alla ritmica acustica.

Grit My Teeth, a tempo di boogie Fowler si misura con ZZ Top o Thorogood, con la chitarra che va quasi subito in overdrive nell’altra galassia. A questo punto così ti va a pensare quel geniaccio del Damon? Una bella cover di Alison di tale Declan Patrick McManus, per la mamma, Elvis Costello per tutti gli altri, che viene “soulificata” (se si può dire, non credo, ma ormai l’ho scritto) e trasportata nel Sud degli Stati Uniti, dalle parti di Memphis o Muscle Shoals, con tanto di assolo come quelli che faceva Duane Allman nei singoli Stax od Atlantic https://www.youtube.com/watch?v=SFmA4BqrmbU  e potrebbe fare adesso il suo erede Derek Trucks, bellissimo! In Tv Mama Damon Fowler si cimenta con il repertorio di uno dei maestri della slide, Johnny Winter, e il risultato è quasi un pari, e qui si viaggia alla grande https://www.youtube.com/watch?v=S60cGLAz5s0. Per completare lo spettro delle influenze c’è anche una Do It For The Love che è una ballata “country got soul” con Tab Benoit impegnato alla pedal steel. E per finire la cover di un traditional come I Shall Not Be Moved, che parte all’incirca a tempo di ragtime e diventa un gospel, ancora quasi cooderiano nei suoi sviluppi. Consigliato, questo è uno bravo!

Bruno Conti

Buone Nuove Dalla Louisiana…Garantisce Tarantino! Brother Dege – How To Kill A Horse

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Brother Dege – How To Kill A Horse – Golarwash CD

Brother Dege, al secolo Dege Legg, è un autentico outsider. Ma è anche un musicista particolare, imprevedibile, creativo: originario della Louisiana, suona ed incide musica sin dagli anni novanta, ma senza mai aver guadagnato neppure il minimo indispensabile per vivere.

Dege ama la musica, la fa per il puro piacere di farla, e nella sua vita ha affrontato mille mestieri diversi per sostenersi finanziariamente, dal tassista al lavapiatti, al gommista (più altri che non ho citato), trovando anche il tempo di incidere dischi sia con il suo vero nome, sia come leader dei Santeria, una band che mischiava southern rock, blues e psichedelia http://www.youtube.com/watch?v=ZjYTKHJVqyo(Psyouthern è un termine coniato da Legg stesso, neologismo che si porta ancora dietro adesso).

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Molti dei suoi vecchi album sono irreperibili, altri si trovano solo su iTunes (forse la sua unica concessione al mainstream), compreso l’unico album (del 2009) dei Black Bayou Construct, un combo di sei elementi da lui fondato. Nel 2010 prende il nome di Brother Dege e pubblica come indipendente l’interessante Folk Songs Of The American Longhair  http://www.youtube.com/watch?v=uMFn9UzdbGQ, un album di brani intrisi fino al midollo di folk tradizionale (inteso come stile, dato che i brani sono tutti originali), blues del Delta, rock, musica del Sud ed un pizzico di swamp: un cocktail molto stimolante e creativo, che Dege ripropone ora con il suo nuovo lavoro, How To Kill A Horse (inciso in un magazzino abbandonato, ed anche questo ci dà la misura del personaggio) http://www.youtube.com/watch?v=-aky7bjdmpQ.

Dege è uno che non si riesce a catalogare, ha un’anima rock, ma scrive brani come il più consumato bluesman del Mississippi, condendo il tutto con il folk blues tipico dei field recordings di Alan Lomax, ma non dimenticando le sue origini della Louisiana ed inserendo ogni tanto qualche residuo delle sue influenze psichedeliche. Le sue canzoni sono molto evocative, ci fanno immaginare paesaggi aridi e polverosi: una scrittura quasi cinematografica, al punto che perfino Quentin Tarantino (uno che di outsiders se ne intende) ha voluto inserire una sua canzone nella colonna sonora di Django Unchained http://www.youtube.com/watch?v=HS3hV8q05Hg (e perfino il Discovery Channel ed il National Geographic Channel hanno usato brani suoi come sottofondo per i loro documentari).

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Legg si circonda di pochi musicisti, giusto per dare un tocco in più ai suoi brani che fanno dell’essenzialità il loro fiore all’occhiello, ed egli stesso si accompagna, e molto bene, alla chitarra resonator ed alla slide acustica, che sono i due strumenti principali del disco, attorno ai quali vengono costruite gran parte delle canzoni.

Proprio la resonator dà avvio al disco, nella vibrante The Black Sea, dove ascoltiamo per la prima volta la voce personale di Dege: un tappeto di percussioni fornisce un po’ di movimento al brano http://www.youtube.com/watch?v=iC988bt6HG4.

The Darker Side Of Me presenta un accattivante contrasto tra la slide acustica del nostro ed un loop di batteria moderno (che però non stona, anzi), con la voce tesa di Fratello Dege che ci trasmette un senso di ansia e disperazione. Già da questi due brani si capisce che Legg non è uno che si atteggia, ma è uno vero, autentico, al quale la vita non ha sorriso spesso. L’elettroacustica How To Kill A Horse  http://www.youtube.com/watch?v=SiO9e10KFwk distende la sua melodia tra vari strumenti a corda, con una ritmica pulsante alle spalle che dona un minimo di colore ad un brano abbastanza crepuscolare.

Judgment Day è un Delta blues fatto e finito, con l’ottima slide del nostro che fa il bello e il cattivo tempo, un brano che, ne siamo certi, piacerà molto a Tarantino. O’Dark30 è uno strumentale, un cocktail strano ma affascinante tra blues e psichedelica, con la chitarra di Dege e le percussioni che percorrono territori autonomi, in piena libertà. Con Poor Momma Child torniamo al blues, ancora con un mood un po’ tetro, da vero bluesman del Sud (non è un disco che mette di buon umore, questo è chiaro): il nostro fa i numeri alla slide neanche fosse Ry Cooder e canta con buona partecipazione; Wehyah fonde mirabilmente elementi blues e rock con uno stile tra il tribale ed il psichedelico: non ci avete capito niente? Bene, questo vi dà la misura dell’originalità di questo musicista. Crazy Motherfucker (bel titolo, raffinato) è quasi un boogie acustico, spoglio, scarno, verace, mentre The River è l’unico pezzo disteso e rilassato del CD, una ballata pura ed incontaminata, che mostra che il songwriting di Legg non è affatto monotematico.

Chiude la lunga (otto minuti, mentre gli altri brani oscillano tra i tre ed i cinque) Last Man Out Of Babylon, un classico pezzo southern dalla struttura acustica, con un crescendo notevole ed interventi di chitarra elettrica a dare più profondità al suono http://www.youtube.com/watch?v=UYgbGjL4SQY.

Gran bel disco, una vera sorpresa.

Marco Verdi