Jeff Beck, Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia! Parte Seconda

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Jeff Beck, Uno Dei Tre Più Grandi Chitarristi Del British Rock (Blues),  Il Più Eclettico Ed Estroso. Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia!

Seconda parte, segue…

Il primo Jeff Beck Group: Truth e Beck-Ola

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E’ nato prima l’uovo o la gallina? Chi lo sa? E’ nato prima il Jeff Beck Group o i Led Zeppelin? Il lato A di Beck’s Bolero, sempre del marzo 1967, era Hi Ho Silver Lining, con John Paul Jones al basso, Clem Cattini alla batteria, Beck chitarra e voce , e Rod Stewart come backing vocals. Quindi si direbbe che il primo ad avere pensato alla formula sia stato Jeff Beck, visto che Truth, registrato a maggio, esce negli USA ad agosto, mentre il primo disco dei Led Zeppelin fu registrato tra settembre ed ottobre (quindi dopo l’uscita di Truth) anche se sarà nei negozi solo a gennaio del 1969: ma Page e soci, prima come New Yardbirds e poi come Zeppelin erano già in tour da fine ’68, e quindi se l’idea fu di Beck , Page fu più veloce a realizzarla e sfruttarla e Jeff all’epoca si “incazzò” non poco per essere stato “fregato” dall’amico Jimmy. Poi sulla qualità di entrambe le band non si discute. Truth è comunque un grandissimo album risentito anche oggi: un cantante fantastico come il giovane Rod Stewart, Ronnie Wood, ex chitarrista dei Creation, che suona il basso con uno stile aggressivo e risonante, l’ottimo Micky Waller alla batteria, come “ospiti” Nicky Hopkins al piano in quattro brani e John Paul Jones al piano e all’organo in altri quattro, oltre a Moon, accreditato come “You Know Who” alla batteria in una versione leggermente diversa di  Beck’s Bolero, nonché in Tallyman sempre dalle sessions del 1967.

La critica a posteriori lo ha presentato, come fecero per i Led Zeppelin, come un diretto antenato dall’heavy metal e dell’hard rock, ma qui come classe siamo su un altro pianeta grazie al lavoro di un chitarrista stratosferico come Jeff Beck e ad una manciata di canzoni veramente gagliarde: Stewart canta alla grande, sentite gli assoli di El Becko in alcuni classici del blues rivisitati, ma mentre nel caso degli Zeppelin, Page e Plant per non “affaticare” i bluesmen come Willie Dixon che li avevano scritti e che quindi poi avrebbero dovuto assumere dei contabili per gestire gli incassi delle royalties , avevano pensato di firmarli loro direttamente, Beck e soci cambiano “solo” i titoli e gli arrangiamenti, con l’eccezione di You Shook Me, che in entrambi i casi mantiene autore ed arrangiamento molto simili alla versione di Muddy Waters, più corta e stringata quella di Beck, più lavorata quella degli Zeppelin, grande brano comunque.

Let Me Love You firmata da Jeffrey Rod (ma allora avevano anche loro il vizietto!) è molto simile a quella di Buddy Guy, Rock My Plmsoul è “ispirata” da Rock Me Baby di B.B. King e Blues Deluxe, un lento fantastico, mutuato da un altro pezzo di King (e ne ricordo una versione notevole di Bonamassa sul suo disco omonimo). Tutte queste canzoni hanno comunque il sound duro e potente del miglior rock-blues “bianco”, con Beck che mulina la sua Fender in modo travolgente anche in Shapes Of Things, in una versione più tirata di quella degli Yardbirds, in Morning Dew e anche in I Ain’t Superstitious. Nella versione Deluxe del CD del 2005, che è ancora in catalogo a special price, ci sono la bellezza di 8 bonus, tra cui versioni differenti di You Shook Me e Blues Deluxe senza gli applausi fasulli presenti nella versione dell’album, oltre a ai due lati del singolo del ’68, Love Is Blue e I’ve Been Drinking, e altre chicche, che lo rendono ancora più indispensabile di quello che sia già.

In Beck-Ola dell’anno successivo, uscito a giugno del 1969, la formula viene ripetuta, con un nuovo batterista Tony Newman e Nicky Hopkins che fa parte in pianta stabile della band: sono solo sette brani (più le quattro bonus dell’edizione in CD) che confermano la forza e la grinta di una band che, purtroppo, forse delusa dal mancato successo di vendita (anche se comunque arrivano nei Top 20 americani), se confrontato con quello dei Led Zeppelin, decide di abbandonare dopo questo album, con cui qualche critico dell’epoca non fu molto tenero, nello specifico, per fare i nomi, Robert Christgau, rispettata firma del Village Voice, sostenendo che la presenza di Hopkins era troppo preponderante, ma sono pareri personali e il disco, benché inferiore a Truth fa sempre la sua porca figura. In copertina un dipinto di René Magritte, “La Chambre D’Ecouté” (citazione colta) e all’interno del disco una serie di brani notevoli, tra cui spiccano All Shook Up e Jailhouse Rock,  due  brani di Elvis, in versioni veramente poderose, con assoli torcibudella di Beck e Stewart che canta come se non ci fosse futuro, Spanish Boots che ricorda molto i rivali Led Zeppelin, come pure The Hangman’s Knee (sempre con il dubbio di chi copiava chi, ammesso che fosse vero), Plynyh (Water Down The Drain), altro brillante esempio del loro hard-blues-rock, come pure il veemente strumentale Rice Pudding, con Beck ed Hopkins a stimolarsi a vicenda, mentre tra le bonus  troviamo una splendida rilettura del grande slow blues di B.B. King Sweet Little Angel, dove il chitarrista mette in mostra tutta la sua tecnica e un feeling mostruoso.

Stewart e Wood fondano i Faces, Hopkins va suonare con i Quicksilver e poi con gli Stones, mentre Jeff Beck è costretto da un incidente automobilistico a restare a riposo per qualche tempo, obbligandolo quindi a posporre di due anni e mezzo il suo nuovo progetto con la sezione ritmica dei Vanilla Fudge, Tim Bogert e Carmine Appice.

Il secondo Jeff Beck Group e Beck Bogert & Appice.

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Non potendo realizzare il power trio con Bogert & Appice, il nostro amico decide di “ripiegare” su un altro quintetto, con nomi meno altisonanti, ma sempre di sicura efficacia:  il batterista Cozy Powell era uno dei migliori su piazza all’epoca, Max Middleton  un tastierista meno brillante di Hopkins, ma forse più solido ed eclettico, Clive Chaman un buon bassista e Bobby Tench un eccellente vocalist mai considerato per il suo giusto valore. Questa formazione registra due dischi, Rough And Ready, uscito nel 1971, più orientato verso il soul, il R&B, da sempre suoi grandi amori, e qualche deriva jazzata, ovviamente “l’amico” Christgau lo stronca, mentre il resto della critica è più benevola, ed alcuni brani, sempre risentiti oggi, sono veramente notevoli: l’iniziale Got The Feeling con Powell e Middleton che imperversano a batteria e piano, e Beck che va alla grande di wah-wah e slide, mentre lo spirito melodico della voce nera di Tench non passa inosservato, Situation con un riff trascinante, e la pregevole New Ways Train Train,con la guizzante solista di Beck sempre sul pezzo.

L’omonimo Jeff Beck Group, registrato a Memphis, Tennesse nel gennaio del 1972, con la produzione di Steve Cropper che firma anche un pezzo con Jeff, esce in primavera, nuovamente un buon album, con una cover a sorpresa di un pezzo di Bob Dylan, Tonight I’ll Be Staying Here With You, sospesa tra country e soul, inizia la sequenza di brani di grandi autori che Beck riprenderà nel corso degli anni a seguire, c’è anche un brano di Stevie Wonder, la poco nota I Got To Have A Song, e soprattutto la sua versione di Going Down di Don Nix, che rimarrà un cavallo di battaglia dei concerti fino ai giorni nostri; il lato rock è rappresentato dalla tagliente Ice Cream Cakes, dal R&R Glad All Over e dallo strumentale Definitely Maybe che anticipa gli album jazz-rock degli anni ’70, con la chitarra moltiplicata, protagonista principale ed unica del sound, e vista la bravura di Beck è un bel sentire.

Ma prima c’è da sbrigare la pratica Beck Bogert & Appice, con la sezione ritmica che terminati gli impegni con i Cactus è libera di registrare, a cavallo tra ’72 e ’73, insieme a Beck, il loro unico album omonimo di studio, co-prodotto con Don Nix, è un buon disco, ma non la bomba che avrebbe potuto essere: classico power trio rock, ma si sente la mancanza di un vero cantante, anche se l’uso delle tre voci spesso all’unisono cerca di ovviare, con parziale successo, al problema; comunque Black Cat Moan, con Jeff al bottleneck, è un poderoso blues-rock, anche Lady con i suoi continui stop e ripartenze è ricca di intensità febbrile con Bogert e Appice gagliardi come sempre, e Superstition, che all’inizio Stevie Wonder, con cui Jeff collaborò alla realizzazione del brano creando uno dei riff più famosi della storia del rock, aveva pensato di donare come premio al chitarrista, si rivelò un’altra solenne “fregatura” a livello commerciale, visto che per vari problemi il singolo di Wonder uscì prima e il nostro Jeff ancora una volta rimase con il cerino tra le  mani.

Tra i brani dell’album ricordiamo anche Why Should I Care e la cover di I’m So Proud di Curtis Mayfield, tutte canzoni che nello splendido doppio dal vivo pubblicato solo per il mercato nipponico Live In Japan, assunsero ben altro nerbo, con il chitarrista in forma strepitosa che esplorava quasi ai limiti le possibilità della sua solista con una serie di effetti prodigiosi, tra cui l’uso del Talkbox che Frampton avrebbe portato al grande successo solo due anni dopo, ma che altri come Steppenwolf, Iron Butterfly e Joe Walsh usavano da tempo, benché le sonorità di Jeff Beck , che chiamava l’effetto voice bag, erano quasi ai limiti del paranormale, sentirne l’uso devastante in Jeff’s Boogie, Superstition e nell’intro di Black Cat Moan. Comunque in tutto il live, che purtroppo si trova a grande fatica, ma è uno dei dischi dal vivo più eccitanti di sempre, i tre suonano come delle “cippe lippe” irrefrenabili in versioni da sballo anche di Morning Dew, Lose Myself With You e Plynth/Shotgun.

Fine seconda parte, segue…

Bruno Conti

Ci Riprovano, Per L’Ennesima Volta! Cactus – Black Dawn

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Cactus – Black Dawn – Sunset Boulevard Records

Dieci anni fa i Cactus avevano effettuato una prima reunion, che vedeva l’uscita del loro quinto album di studio, intitolato appunto con grande fantasia V, lo stesso anno avevano girato gli Stati Uniti e l’Europa con alcune date dal vivo per rinverdire le glorie passate: in quel primo giro era ancora presente il bassista originale Tim Bogert, che poi ha annunciato il suo ritiro dalle scene nel 2011. Tra alti e bassi e cambi di formazione continui la band ha proseguito a suonare dal vivo, pubblicato due o tre Live tra il 2012 e il 2014 http://discoclub.myblog.it/2014/10/10/giuro-che-lultimo-questanno-cactus-tko-tokyo-live-japan-2cddvd/ , e ora, con la formazione stabilizzata intorno ai membri originali Carmine Appice alla batteria, Jim McCarty alla chitarra e i nuovi Jimmy Kunes alla voce (ex Savoy Brown, ma solo per un anno nel 1986, senza peraltro incidere nulla con loro, fa solo curriculum per le recensioni), Andy Pratt all’armonica e Pete Bremy al basso (anche nella nuova versione dei Vanilla Fudge), pubblicano il loro sesto album di studio Black Dawn, per una etichetta Sunset Boulevard, che poi sarebbe il nostro “viale del tramonto”, spero non il loro.

Come hanno dimostrato nelle varie esibizioni live i Cactus propongono ancora il loro classico hard-rock-blues che ai tempi li aveva fatti definire “ i Led Zeppelin americani” e anche se è la solita minestra riscaldata si gusta ancora, soprattutto per gli appassionati del genere. Carmine Appice picchia sempre come un fabbro sulla batteria (ma con classe e ritmo) e gli altri lo seguono come un sol uomo, Kunes ha la classica voce dello shouter rock, McCarty è sempre un signor chitarrista, tutti elementi che convergono nell’iniziale poderosa title track, dove i vecchi Jim e Carmine ci danno dentro di gusto ai rispettivi strumenti, forse idee poche ma monolitiche. E pure Mama Bring It Home non aggiunge molti elementi di novità (ma qualcuno se li aspettava?), sono passati 46 anni ma nulla è cambiato; Dynamite vira verso un boogie molto pompato e duro con qualche tocco di slide di McCarty, Juggernaut è un hard slow blues sempre in ricordo dei vecchi tempi con Kunes che cerca di impersonare il suo miglior Plant (o Gillan, o Bon Scott, persino Steve Marriott, sostituire a piacere, gli originali sono comunque sempre meglio).

Andy Pratt all’armonica, che aveva taciuto fino ad ora, ha finalmente occasione di mettersi in luce in Headed For A Fall, un incalzante rock-blues, tra le cose migliori del disco, con sprazzi della vecchia classe grazie ad un indiavolato groove creato da Appice e soci; You Need Love è un titolo classico, da Muddy Waters agli Small Faces, passando per la Whole Lotta Love degli Zeppelin, questa è la variazione sul tema firmata Cactus, onesto e grintoso rock, ma nulla di più. The Last Goodbye è un altro slow blues di quelli duri e tirati con McCarty che dà il meglio di sé alla solista in questo brano strumentale e Walk A Mile addirittura aggiunge elementi elettro-acustici e leggermente psych alla tavolozza del CD, ma è un attimo poi all’interno del pezzo si riprende subito a picchiare in un brano gagliardo che ricorda molto i Led Zeppelin e anche i vecchi Cactus, e le grandi band hard-rock di inizio anni ’70. Qui in teoria finirebbe l’album, ma Carmine Appice ha scovato un paio di gemme inedite incise dalla formazione originale, quella con Rusty Day e Tim Bogert: quindi inizio anni ’70: una Another Way Or Another che già dal titolo rimanda al passato, uno strumentale di gran classe e C-70 Blues, un poderoso blues lento con un grande Rusty Day, e la carica dirompente di Bogert e Appice, una delle migliori sezioni ritmiche della storia del rock, brano dove dimostrano perché erano considerati la controparte americana dei Led Zeppelin. Indovinate quali sono i brani migliori del disco!

Bruno Conti

Vecchie Glorie 13. Cactus – An Evening In Tokyo

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Nuovo capitolo della “sottocategoria” Vecchie Glorie. Sarebbe il numero 13 (anche se mi sono accorto di avere fatto due numeri 12 e due spinoff “vecchie glorie sempre in forma”): la rubrica, come i più attenti avranno notato, non tratta di ristampe o materiale d’archivio, ma di gruppi e solisti storici che si ripresentano sul mercato, più o meno nelle formazioni originali, salvo assenti giustificati perché ci hanno lasciato, con nuovi dischi o, in ogni caso, dischi in concerto, incisi in tempi recenti. I Cactus sono un caso emblematico, in quanto Carmine Appice https://www.youtube.com/watch?v=2zhuZgkDH5I  ha firmato un contratto di distribuzione con la Cleopatra Records del materiale pubblicato dalla sua Rocker Records, quindi, oltre al CD di cui state per leggere, stanno per uscire o sono usciti, un altro TKO Tokyo, Live In Japan (che sarà il prossimo a venire recensito), un Live In USA, oltre a Tim Bogert Carmine Appice Friends, questo in studio e Travers & Appice Live In Concert.

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Diciamo che il “problema” dei Live dei Cactus è che i brani sono pù o meno sempre quelli, ma anche loro, come Allman, Grateful Dead, Phish e Co. vogliono dare fondo agli archivi, anche se non è proprio la stessa cosa. Partiamo con questo comunque.

Cactus – An Evening In Tokyo – Purple Pyramid/Cleopatra

Torniamo quasi agli albori della musica rock, seconda metà anni ’60, in quel di New York, una cinquantina di anni fa, nascono i Vanilla Fudge, un gruppo popolarissimo nell’America di quegli anni, non dimentichiamo che i Led Zeppelin furono il loro opening act in quel periodo dorato. Ma già nel 1969 le cose cominciavano a scricchiolare nel gruppo e Tim Bogert e Carmine Appice, la sezione ritmica, se ne volevano andare per formare un gruppo con Jeff Beck. All’epoca non fu possibile per un incidente che tenne Beck lontano dalle scene per circa un anno e mezzo (ma poi Beck, Bogert & Appice si sarebbero fatti) e quindi i due unirono le forze con Jim McCarthy, il chitarrista dei Detroit Wheels di Mitch Ryder e del Buddy Miles Express e con Rusty Day, che era il cantante degli Amboy Dukes di Ted Nugent (poi assassinato nel 1982 in un caso che coinvolgeva anche la droga, a tutt’oggi irrisolto e ancora aperto, parliamo di Day ovviamente). La band non partecipò a Woodstock, ma all’isola di Wight c’erano, registrò tre dischi con la formazione originale (e un quarto dove non c’erano Day e McCarthy). Fautori del classico hard-rock-blues che imperava all’epoca, forse non furono memorabili come i Vanilla Fudge, ma soprattutto il primo album rimane notevole.

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A questo punto procuratevi un mangianastri o un registratore a cassette (se non lo avete, chiedete a Quentin Tarantino, che pare ne abbia una collezione), schiacciate il tasto fast forward e fatevi proiettare negli anni 2000, giugno 2006 per la precisione, quando si riuniscono tre dei membri originali (uno, per i motivi di cui sopra non poté esserci), McCarthy, Bogert & Appice, con tale Jimmy Kunes, presentato come cantante dei Savoy Brown, dove peraltro fece solo una fugace apparizione nel 1986 e Randy Pratt, altro carneade, ma bravo, all’armonica https://www.youtube.com/watch?v=fuEPkeOg9rM . Da allora, a periodi alterni, come le targhe, si riformano sia i Vanilla Fudge che i Cactus, manca Tim Bogert, nel frattempo si è ritirato dalle scene e il bassista, in entrambe le formazioni, è diventato Pete Bremy. Non aspettatevi il vigore e la forza del gruppo originale, ben documentata anche dal live del 1971 Ultra Sonic Boogie, pubblicata sempre dai tipi della Purple Pyramid/Cleopatra e recensita su queste pagine virtuali dal vostro fedele, all’incirca quattro anni http://discoclub.myblog.it/2010/09/14/un-disco-del-cactus-ultra-sonic-boogie-1971/ , però … Saltate ancora nel tempo, dicembre 2012, Tokyo: il repertorio è per certi versi differente, visto che in quel caso il concerto radiofonico promuoveva l’album Restrictions, di prossima uscita, ma un paio dei “classici” sono in comune. A partire da una chilometrica Evil, con Appice e McCarthy ancora in gran forma, che fanno i numeri ai rispettivi strumenti, soprattutto Appice, un vero martello, Kunes, che è una sorta di piccolo Plant, con i dovuti distinguo, qualche forzatura di troppo, ma comunque in possesso di una voce notevole, ben utilizzata nella band https://www.youtube.com/watch?v=vDN0jlFSrqg , e poi Bro.Bill, il solito blues-rock molto tirato e cadenzato che ci permette di apprezzare l’armonica di Pratt e la chitarra di McCarthy, ma poco altro.

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Il resto viene dal repertorio del gruppo: Swim, un boogie rock ancora molto zeppeliniano, presente come Let Me Swim nel disco d’esordio, One Way…Or Another, che era la title-track del secondo album, altro lungo tour de force in salsa hard-rock che ci permette di gustare l’impatto d’assieme dei Cactus e le evoluzioni dei vari solisti https://www.youtube.com/watch?v=rsUs_S260-s . You Can’t Judge A Book By His Cover è la loro rilettura in chiave diciamo “molto energica” dello standard blues a firma Willie Dixon, altro brano che si avvicina di dieci minuti di durata, ma questo si aspettano i fan del genere, grezzo pur se efficace, con un bel call and response tra chitarra ed armonica. Alaska era su Restrictions e ci permette di godere il gruppo in un mood più rilassato e di classe, prima di approdare alle evoluzioni più psych e spaziali di una Electric Blue, che come la successiva Muscle And Soul, molto riff’n’roll, viene da Cactus V, il disco registrato nel 2006 dalla versione a guida Kunes dei Cactus, entrambe un po’ manieristiche, con tutti i clichés del genere, ma comunque godibili. Di Evil abbiamo già detto, manca all’appello il loro brano forse più celebre, la versione tiratissima di Parchman Farm, scritta da Mose Allison e che risentita ai giorni nostri ha sempre un gran bel tiro. Per concludere ancora gli oltre dieci minuti di Rock n’ Roll Children, nuovamente molto bluesata, ovviamente a modo loro, che si lascia apprezzare non solo per la grinta ma anche per il virtuosismo del gruppo, ovvero picchiano ma con classe, discorso che vale per tutto il disco.

Bruno Conti

Non C’è’ Niente Da Fare, L’Originale E’ Sempre Meglio! Vargas, Bogert & Appice – VBA

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 Javier Vargas Tim Bogert Carmine Appice- VBA – Roadrunner/Warner CD+DVD 

 Vargas, Bogert & Appice, chissà perché non mi fa lo stesso effetto di Beck, Bogert & Appice? Mah! Sarà perché sono passati quaranta anni dal progetto originale? Sarà perché l’unico disco del trio originale fu una mezza delusione (ma il doppio Live in Giappone era una bomba) e poi a causa del ritardo che i tre ebbero a ritrovarsi abbiamo avuto i Cactus e la seconda versione del Jeff Beck Group con Bobby Tench, Max Middleton e Cozy Powell che non erano male (per usare un eufemismo). Il sodalizio tra Beck e la sezione ritmica dei Vanilla Fudge evidentemente era come il matrimonio tra Renzo e Lucia, “non s’aveva da fare!”.

In ogni caso quel disco sentito oggi è meno peggio di come lo si ricordava: Beck era il solito fulmine di guerra nelle sue ultime escursioni hard in un power trio prima della svolta jazz-rock di Blow By Blow che continua a tutt’oggi (ma ha appena registrato un disco di Blues con Rod Stewart), e Carmine Appice e Tim Bogert erano (e sono) una della sezioni ritmiche più devastanti della storia del rock.

Quindi cosa ci fanno con Javier Vargas e soprattutto chi è costui? La Vargas Blues band ha registrato più di venti album in una carriera iniziata nei primi anni ’90 (ma prima il chitarrista madrileno, che ha vissuto anche in Argentina, Venezuela e Stati Uniti, aveva suonato anche con altri musicisti) e una bella mattina Javier si è svegliato e ha detto “quasi quasi chiamo il mio amico Carmine e gli chiedo di registrare un disco a Las Vegas”. Detto fatto, Appice si è detto d’accordo, il bassista lo porto io e il produttore e proprietario degli Hit Track Studios, tale Tom Parham presenta loro Paul Shortino ex cantante di Rough Cut e Quiet Riot, uhm, doppio uhm! Questa la storia in breve, rimarrebbe da scegliere il materiale: brani nuovi o repertorio blues, ma Vargas propone un disco di cover di classici del rock e quindi tutto è deciso. E a questo punto temo la famosa “tavanata galattica”, ma loro, astutamente, aprono il disco con una versione di Lady che non ha nulla da invidiare all’originale sembra quasi che ci siano gli stessi musicisti dell’originale, basso e batteria pompano come ai tempi d’oro, Vargas è un bel manico e Shortino estrae dal cilindro una voce alla Paul Rodgers. Tutto bene quindi?

Ma manco per niente, il secondo brano Surrender è un vecchio pezzo dei Cheap Trick ma in questa versione sembra una copia peggiorata dei pezzi più brutti del peggior Bryan Adams. Right On una vecchia canzone di Ray Barretto che fonde il suono della slide di Vargas (non male) con fiati e percussioni (soprattutto la batteria di Appice in overdrive) in una sorta di versione riveduta e corretta dei Santana.

Insomma ci siamo capiti è un po’ come l’ultimo di Carlos Santana, qualche brano è buono, altri meno, Parisienne Walkways della coppia Lynott (l’autore) e Moore (il chitarrista) vorrebbe essere un omaggio a due musicisti che non ci sono più, la chitarra di Vargas vibra con passione ma il risultato ricorda una Samba Pa Ti pallida, bravi ma basta? E il feeling? You Keep Me Hanging On nella versione Vanilla Fudge ci sono due che la conoscerebbero piuttosto bene ma il trattamento vocale heavy di Shortino e i fiati aggiunti non c’entrano molto, per cui Carmine Appice può picchiare quanto vuole ma le tastiere programmate di tale Alfonso Perez, quelle no, grazie.

Se dovessi scegliere un brano tra i tanti belli che ha scritto Paul Rodgers non so se andrei a finire su Soul of Love e infatti anche questo brano alla fine suona come un Bryan Adams di seconda mano (una volta era bravo, mi piaceva, l’ho visto una volta agli inizi della sua carriera al Rolling Stone, ci saranno state poco più di cento persone ma fece un gran concerto, fine della digressione) certo con un ottimo chitarrista per non parlare della sezione ritmica.

Almeno Black Night dei Deep Purple la fanno più o meno uguale all’originale per cui non si può sbagliare, o sì, con quel cantante! Alla fine un brano adatto alla voce glielo hanno trovato (forse) It’s A Long Way To The Top (If You Wanna Rock’N’Roll), un pezzo degli AC/DC. E poi con un balzo degno di Bob Beamon si passa a Tonight’s The Night di Rod Stewart (cosa c’entra vi chiederete? Anch’io. No, il batterista nel brano originale era Carmine Appice): e non è neanche male, Shortino la canta bene. Si conclude in gloria con Over my shoulder di Mike and The Mechanics! E’ consentita l’ironia? Allora bisogna complimentarsi perché sono riusciti a superare l’originale che fu una mezza delusione. Mah, cosa aggiungere: nel DVD ci sono i video di due brani e un documentario sul making of.

Bruno Conti