Jeff Beck, Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia! Parte Seconda

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Jeff Beck, Uno Dei Tre Più Grandi Chitarristi Del British Rock (Blues),  Il Più Eclettico Ed Estroso. Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia!

Seconda parte, segue…

Il primo Jeff Beck Group: Truth e Beck-Ola

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E’ nato prima l’uovo o la gallina? Chi lo sa? E’ nato prima il Jeff Beck Group o i Led Zeppelin? Il lato A di Beck’s Bolero, sempre del marzo 1967, era Hi Ho Silver Lining, con John Paul Jones al basso, Clem Cattini alla batteria, Beck chitarra e voce , e Rod Stewart come backing vocals. Quindi si direbbe che il primo ad avere pensato alla formula sia stato Jeff Beck, visto che Truth, registrato a maggio, esce negli USA ad agosto, mentre il primo disco dei Led Zeppelin fu registrato tra settembre ed ottobre (quindi dopo l’uscita di Truth) anche se sarà nei negozi solo a gennaio del 1969: ma Page e soci, prima come New Yardbirds e poi come Zeppelin erano già in tour da fine ’68, e quindi se l’idea fu di Beck , Page fu più veloce a realizzarla e sfruttarla e Jeff all’epoca si “incazzò” non poco per essere stato “fregato” dall’amico Jimmy. Poi sulla qualità di entrambe le band non si discute. Truth è comunque un grandissimo album risentito anche oggi: un cantante fantastico come il giovane Rod Stewart, Ronnie Wood, ex chitarrista dei Creation, che suona il basso con uno stile aggressivo e risonante, l’ottimo Micky Waller alla batteria, come “ospiti” Nicky Hopkins al piano in quattro brani e John Paul Jones al piano e all’organo in altri quattro, oltre a Moon, accreditato come “You Know Who” alla batteria in una versione leggermente diversa di  Beck’s Bolero, nonché in Tallyman sempre dalle sessions del 1967.

La critica a posteriori lo ha presentato, come fecero per i Led Zeppelin, come un diretto antenato dall’heavy metal e dell’hard rock, ma qui come classe siamo su un altro pianeta grazie al lavoro di un chitarrista stratosferico come Jeff Beck e ad una manciata di canzoni veramente gagliarde: Stewart canta alla grande, sentite gli assoli di El Becko in alcuni classici del blues rivisitati, ma mentre nel caso degli Zeppelin, Page e Plant per non “affaticare” i bluesmen come Willie Dixon che li avevano scritti e che quindi poi avrebbero dovuto assumere dei contabili per gestire gli incassi delle royalties , avevano pensato di firmarli loro direttamente, Beck e soci cambiano “solo” i titoli e gli arrangiamenti, con l’eccezione di You Shook Me, che in entrambi i casi mantiene autore ed arrangiamento molto simili alla versione di Muddy Waters, più corta e stringata quella di Beck, più lavorata quella degli Zeppelin, grande brano comunque.

Let Me Love You firmata da Jeffrey Rod (ma allora avevano anche loro il vizietto!) è molto simile a quella di Buddy Guy, Rock My Plmsoul è “ispirata” da Rock Me Baby di B.B. King e Blues Deluxe, un lento fantastico, mutuato da un altro pezzo di King (e ne ricordo una versione notevole di Bonamassa sul suo disco omonimo). Tutte queste canzoni hanno comunque il sound duro e potente del miglior rock-blues “bianco”, con Beck che mulina la sua Fender in modo travolgente anche in Shapes Of Things, in una versione più tirata di quella degli Yardbirds, in Morning Dew e anche in I Ain’t Superstitious. Nella versione Deluxe del CD del 2005, che è ancora in catalogo a special price, ci sono la bellezza di 8 bonus, tra cui versioni differenti di You Shook Me e Blues Deluxe senza gli applausi fasulli presenti nella versione dell’album, oltre a ai due lati del singolo del ’68, Love Is Blue e I’ve Been Drinking, e altre chicche, che lo rendono ancora più indispensabile di quello che sia già.

In Beck-Ola dell’anno successivo, uscito a giugno del 1969, la formula viene ripetuta, con un nuovo batterista Tony Newman e Nicky Hopkins che fa parte in pianta stabile della band: sono solo sette brani (più le quattro bonus dell’edizione in CD) che confermano la forza e la grinta di una band che, purtroppo, forse delusa dal mancato successo di vendita (anche se comunque arrivano nei Top 20 americani), se confrontato con quello dei Led Zeppelin, decide di abbandonare dopo questo album, con cui qualche critico dell’epoca non fu molto tenero, nello specifico, per fare i nomi, Robert Christgau, rispettata firma del Village Voice, sostenendo che la presenza di Hopkins era troppo preponderante, ma sono pareri personali e il disco, benché inferiore a Truth fa sempre la sua porca figura. In copertina un dipinto di René Magritte, “La Chambre D’Ecouté” (citazione colta) e all’interno del disco una serie di brani notevoli, tra cui spiccano All Shook Up e Jailhouse Rock,  due  brani di Elvis, in versioni veramente poderose, con assoli torcibudella di Beck e Stewart che canta come se non ci fosse futuro, Spanish Boots che ricorda molto i rivali Led Zeppelin, come pure The Hangman’s Knee (sempre con il dubbio di chi copiava chi, ammesso che fosse vero), Plynyh (Water Down The Drain), altro brillante esempio del loro hard-blues-rock, come pure il veemente strumentale Rice Pudding, con Beck ed Hopkins a stimolarsi a vicenda, mentre tra le bonus  troviamo una splendida rilettura del grande slow blues di B.B. King Sweet Little Angel, dove il chitarrista mette in mostra tutta la sua tecnica e un feeling mostruoso.

Stewart e Wood fondano i Faces, Hopkins va suonare con i Quicksilver e poi con gli Stones, mentre Jeff Beck è costretto da un incidente automobilistico a restare a riposo per qualche tempo, obbligandolo quindi a posporre di due anni e mezzo il suo nuovo progetto con la sezione ritmica dei Vanilla Fudge, Tim Bogert e Carmine Appice.

Il secondo Jeff Beck Group e Beck Bogert & Appice.

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Non potendo realizzare il power trio con Bogert & Appice, il nostro amico decide di “ripiegare” su un altro quintetto, con nomi meno altisonanti, ma sempre di sicura efficacia:  il batterista Cozy Powell era uno dei migliori su piazza all’epoca, Max Middleton  un tastierista meno brillante di Hopkins, ma forse più solido ed eclettico, Clive Chaman un buon bassista e Bobby Tench un eccellente vocalist mai considerato per il suo giusto valore. Questa formazione registra due dischi, Rough And Ready, uscito nel 1971, più orientato verso il soul, il R&B, da sempre suoi grandi amori, e qualche deriva jazzata, ovviamente “l’amico” Christgau lo stronca, mentre il resto della critica è più benevola, ed alcuni brani, sempre risentiti oggi, sono veramente notevoli: l’iniziale Got The Feeling con Powell e Middleton che imperversano a batteria e piano, e Beck che va alla grande di wah-wah e slide, mentre lo spirito melodico della voce nera di Tench non passa inosservato, Situation con un riff trascinante, e la pregevole New Ways Train Train,con la guizzante solista di Beck sempre sul pezzo.

L’omonimo Jeff Beck Group, registrato a Memphis, Tennesse nel gennaio del 1972, con la produzione di Steve Cropper che firma anche un pezzo con Jeff, esce in primavera, nuovamente un buon album, con una cover a sorpresa di un pezzo di Bob Dylan, Tonight I’ll Be Staying Here With You, sospesa tra country e soul, inizia la sequenza di brani di grandi autori che Beck riprenderà nel corso degli anni a seguire, c’è anche un brano di Stevie Wonder, la poco nota I Got To Have A Song, e soprattutto la sua versione di Going Down di Don Nix, che rimarrà un cavallo di battaglia dei concerti fino ai giorni nostri; il lato rock è rappresentato dalla tagliente Ice Cream Cakes, dal R&R Glad All Over e dallo strumentale Definitely Maybe che anticipa gli album jazz-rock degli anni ’70, con la chitarra moltiplicata, protagonista principale ed unica del sound, e vista la bravura di Beck è un bel sentire.

Ma prima c’è da sbrigare la pratica Beck Bogert & Appice, con la sezione ritmica che terminati gli impegni con i Cactus è libera di registrare, a cavallo tra ’72 e ’73, insieme a Beck, il loro unico album omonimo di studio, co-prodotto con Don Nix, è un buon disco, ma non la bomba che avrebbe potuto essere: classico power trio rock, ma si sente la mancanza di un vero cantante, anche se l’uso delle tre voci spesso all’unisono cerca di ovviare, con parziale successo, al problema; comunque Black Cat Moan, con Jeff al bottleneck, è un poderoso blues-rock, anche Lady con i suoi continui stop e ripartenze è ricca di intensità febbrile con Bogert e Appice gagliardi come sempre, e Superstition, che all’inizio Stevie Wonder, con cui Jeff collaborò alla realizzazione del brano creando uno dei riff più famosi della storia del rock, aveva pensato di donare come premio al chitarrista, si rivelò un’altra solenne “fregatura” a livello commerciale, visto che per vari problemi il singolo di Wonder uscì prima e il nostro Jeff ancora una volta rimase con il cerino tra le  mani.

Tra i brani dell’album ricordiamo anche Why Should I Care e la cover di I’m So Proud di Curtis Mayfield, tutte canzoni che nello splendido doppio dal vivo pubblicato solo per il mercato nipponico Live In Japan, assunsero ben altro nerbo, con il chitarrista in forma strepitosa che esplorava quasi ai limiti le possibilità della sua solista con una serie di effetti prodigiosi, tra cui l’uso del Talkbox che Frampton avrebbe portato al grande successo solo due anni dopo, ma che altri come Steppenwolf, Iron Butterfly e Joe Walsh usavano da tempo, benché le sonorità di Jeff Beck , che chiamava l’effetto voice bag, erano quasi ai limiti del paranormale, sentirne l’uso devastante in Jeff’s Boogie, Superstition e nell’intro di Black Cat Moan. Comunque in tutto il live, che purtroppo si trova a grande fatica, ma è uno dei dischi dal vivo più eccitanti di sempre, i tre suonano come delle “cippe lippe” irrefrenabili in versioni da sballo anche di Morning Dew, Lose Myself With You e Plynth/Shotgun.

Fine seconda parte, segue…

Bruno Conti

Jeff Beck, Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia! Parte Prima

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Jeff Beck, Uno Dei Tre Più Grandi Chitarristi Del British Rock (Blues),  Il Più Eclettico Ed Estroso. Una Vita Per La Chitarra, E Non E’ Ancora Finita: Dai Cori Nelle Chiese Al Rock In Tutte Le Sue Forme, Ecco La Storia!

Visto che il Post è piuttosto lungo l’ho diviso in tre parti.

Geoffrey Arnold Beck nasce a Wallington, nel Surrey, il 24 giugno del 1944 (quindi ancora nel pieno della Seconda Guerra Mondiale). A 10 anni inizia a cantare nel coro della chiesa locale, poi va a scuola a Sutton, ma nel frattempo comincia ad ascoltare la musica e soprattutto i chitarristi: il primo è Les Paul, poi arrivano Cliff Gallup, il solista nella band di Gene Vincent, B.B. King e Steve Cropper, ma anche Buddy Guy e Scotty Moore,  che Beck cita tra le sue principali influenze. Agli inizi, sia per risparmiare che per sperimentare, le chitarre se le assembla da assolo, iniziando a studiare quegli effetti speciali e quelle sonorità insolite che poi lo renderanno quel solista unico che conosciamo ancora oggi. Già tra il 1962 e il 1963 comincia a suonare con i primi gruppi, come Screaming Lord Sutch And The Savages, che molti considerano solo un personaggio pittoresco, ma nella cui band nel corso degli anni sono passati anche Nicky Hopkins, Ritchie Blackmore, Mick Abrahams, l’arcinemico/amico Jimmy Page e molti altri.

Già nel 1964 arriva il suo primo gruppo, i Tridents, una band embrionale che mescolava R&R, R&B, Blues, dando vita a quello che allora si chiamava beat, e anche se non hanno pubblicato nulla a livello ufficiale, Beck inizia a sperimentare con le sue tecniche chitarristiche che lo renderanno da lì a poco uno dei musicisti più innovativi nel nascente filone rock che inizia a svilupparsi proprio in quegli anni: ovviamente viene notato subito, e nel marzo del ’65, su raccomandazione di Jimmy Page (che allora era un affermato sessionman e non pensava ad entrare in una band in quanto guadagnava molto di più come musicista di studio) viene chiamato a sostituire Eric Clapton negli Yardbirds, visto che Manolenta era insoddisfatto della svolta “commerciale” verso il rock e il pop che stava avvenendo all’interno del gruppo, soprattutto con un brano come For Your Love. Da qui in avanti cominciamo a seguire la carriera di Jeff Beck  soprattutto a livello discografico.

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The Yardbirds Years

La discografia degli Yardbirds è un po’ complicata, considerando che gli album uscivano in versioni completamente diverse per il mercato inglese (dove alcuni dischi non venivano neppure pubblicati) e quello americano, dove la Epic spesso assemblava singoli e brani tratti dagli LP per creare dei prodotti ad hoc per il mercato USA. I CD sono stati ristampati dalla Repertoire, spesso e volentieri con molto materiale aggiuntivo e anche se al momento alcuni titoli non sono disponibili, potrebbero tornare in produzione, visto che periodicamente appaiono e scompaiono: vediamo quelli con Jeff Beck, che rimarrà nel gruppo 20 mesi, dal marzo 1965 al novembre 1966. E in questo periodo, in cui Hendrix non era ancora per nulla conosciuto, “inventa”  o perfeziona gran parte dell’armamentario della futura musica rock: pedale del distorsore, feedback, delay, riverberi, l’uso del wah-wah, dell’hammer-on (non saprei come tradurlo), il tutto applicando anche influenze medio-orientali e nell’ambito dei brani, deviazioni verso il canto Gregoriano, mantenendo però un appeal che permetterà a molte delle loro canzoni di essere successi nelle classifiche di vendita. Il primo album con Beck è For Your Love, parliamo sempre della versione Usa: oltre al pezzo con Clapton, ed altri con Eric, troviamo  tre brani con Jeff I’m Not Talking, I Ain’t Done Wrong e My Girl Sloopy, e nella versione potenziata del CD lo splendido singolo Heart Full Of Soul, dove si sente lo zampino del nostro con influenze raga, l’uso del sitar e una melodia vincente.

Nel Febbraio del 1966 partecipano anche al Festival di Sanremo, con Paff Bum e Questa Volta, e Mike Bongiorno li presenta come “Gallinacci”! Nel frattempo, a novembre 1965, era uscito Having A Rave Up, che nel LP originale aveva una seconda facciata Live con Clapton, ma nella prima si trovava la citata Heart Full Of Soul, oltre a fantastiche versione di Still I’m Sad, I’m A Man e The Train Kept-A-Rollin’, dove Beck comincia ad impazzare alla grande. Tra le bonus del CD un’altra canzone fenomenale come Shapes Of Things. Roger The Engineer, oppure semplicemente The Yardbirds in UK, è il primo (e ultimo) album compiuto con Beck, oltre ad un altro singolo incredibile come Over Under Sideways Down, contiene una serie di brani da album dove si apprezza la tecnica già unica sviluppata da Jeff, Lost Woman, The Nazz Are Blue, Jeff’s Boogie, Hot House of Omagararshid, durano tutte intorno ai tre minuti, ma gli assoli di Beck sono già da antologia della chitarra.

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Alla fine di agosto entra nella band come bassista Jimmy Page(ma in Happenings Ten Years Time Ago c’è John Paul Jones al basso), mentre Psycho Daisies è uno strano garage-psych-punk con Beck in una rara esibizione come cantante e Page al basso,  l’unica canzone con doppia solista è Stroll On, il brano per la colonna sonora di Blow-Up di Antonioni. Poi se volete integrare la discografia degli Yardbirds si trova anche un ottimo doppio Live At The BBC. Nel frattempo, Beck e Page avevano registrato Beck’s Bolero a maggio 1966, con John Paul Jones al basso e Keith Moon alla batteria, più Nicky Hopkins al piano, che esce nella primavera del 1967 e già avrebbe potuto essere un anticipo dei Led Zeppelin o del Jeff Beck Group, ma sarà invece l’inizio dei dissapori tra i due, su chi ha inventato la formula del power trio più cantante (visto che nel frattempo già erano entrati in azione Cream e Jimi Hendrix Experience) e pianista, nel caso di Beck.

Fine prima parte, segue.

Bruno Conti

25 Anni Dopo E’ Ancora Un Capolavoro! R.E.M. – Automatic For The People 25th Anniversary

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R.E.M. – Automatic For The People – Craft/Concord/Universal 2CD Deluxe – 3CD/BluRay Super Deluxe

Se non ricordo male questo blog non si è mai occupato prima d’ora nel dettaglio delle ristampe dei R.E.M., nonostante siano già uscite le riedizioni di diversi album considerati dei classici del quartetto di Athens, principalmente Murmur, Lifes Rich Pageant, Green e, perché no, Out Of Time che oltre ad essere il loro album più famoso è comunque un gran bel dischetto. Ho però ritenuto doveroso fare un’eccezione per Automatic For The People, album del 1992 del gruppo, quasi all’unanimità ritenuto il loro capolavoro ed uno dei dischi di riferimento degli anni novanta, uno dei quei lavori da cinque stellette: siccome album meritevoli di un giudizio simile da almeno tre decadi sono merce rarissima, mi è sembrato giusto dedicare un post a questa edizione per i 25 anni, che esce in doppio CD ed in versione super deluxe con un terzo CD ed un BluRay, il tutto in un lussuoso formato LP con un bel libro allegato pieno zeppo di foto, note e con i testi dei brani (a differenza delle ultime uscite che erano in formato libro, tipo quelle dei Jethro Tull). Nel 1992 i R.E.M. erano reduci dallo strepitoso successo dell’album Out Of Time e soprattutto del singolo Losing My Religion, un brano che li strappò letteralmente dallo status di cult band e li fece conoscere in ogni lato del pianeta. Ma il gruppo formato da Michael Stipe, Peter Buck, Bill Berry e Mike Mills è sempre stato un combo formato da quattro persone normali, addirittura quasi schive, ed il successo esploso nelle loro mani li prese decisamente alla sprovvista, in quanto nessuno di loro aveva l’attitudine della superstar: basti pensare che a seguito di Out Of Time non fu intrapreso nessun tour (decisione suicida dal punto di vista del marketing, e nonostante tutto il disco vendette più di 18 milioni di copie), ma i quattro si misero subito al lavoro su quello che sarebbe appunto diventato Automatic For The People, facendolo uscire solo un anno e sette mesi dopo Out Of Time.

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E Automatic For The People arrivò praticamente ad eguagliare i dati di vendita del suo predecessore, un exploit eccezionale da imputare esclusivamente alla bellezza del disco, in quanto anche questa volta non ci fu nessuna tournée (ci sarà invece per il successivo Monster, 1994, forse anche a causa del fatto che fino a quel momento probabilmente si trattava del loro lavoro più debole) e neppure un singolo ammazza-classifiche come Losing My Religion. Sarebbe stato facilissimo per i quattro ragazzi sfornare un disco-clone di Out Of Time, ma invece fu presa la direzione diametralmente opposta: Automatic For The People è infatti un disco dalle atmosfere cupe e malinconiche, decisamente introverso e con testi che parlano spesso della morte, ma è anche un album pieno di canzoni splendide, sintomo di un momento di ispirazione irripetibile, il tutto nobilitato dalla produzione perfetta del solito Scott Litt, uno che è giusto considerare, almeno all’epoca, il quinto R.E.M. Il disco ebbe una gestazione un po’ problematica, in quanto venne inciso in cinque città diverse (Athens, New York, Miami, Atlanta e New Orleans), e ad un certo punto a Stipe venne anche il blocco dello scrittore: tutto fu però brillantemente superato, ed oggi posso affermare senza tema di smentita che Automatic For The People è ancora bello, fresco ed intenso come quando uscì 25 anni fa. Ci sono al suo interno almeno tre grandissime canzoni, a partire dallo straordinario primo singolo Drive, un pezzo che è tutto tranne che commerciale: una splendida ballata acustica ricca di pathos, con un bellissimo crescendo e, nei pressi del bridge, un lancinante intervento di chitarra elettrica doppiato dagli archi arrangiati dall’ex Led Zeppelin John Paul Jones.

Allo stesso livello sono anche la lenta Everybody Hurts, con un grande Stipe ed una melodia da pelle d’oca, e la deliziosa Man On The Moon, dedicata allo showman Andy Kaufman e che in seguito darà il titolo al biopic sul controverso attore americano, diventando uno dei brani più famosi del quartetto. Quasi allo stesso livello abbiamo The Sidewinder Sleeps Tonite, scintillante folk-rock che prende spunto inizialmente dal classico dei Tokens The Lion Sleeps Tonight per poi svilupparsi in maniera differente, e Nightswimming, pianistica, poetica e toccante. Altri brani che mi piacciono molto sono altre due ballate, la suggestiva Try Not To Breathe, di chiara ispirazione folk, e la malinconica ed intensa Find The River, che non so perché ma mi ha sempre fatto venire in mente il miglior John Denver; bella anche la mossa Monty Got A Raw Deal, con il bouzouki protagonista ed un’atmosfera da est europeo, ma dallo squisito ed immediato refrain. Sweetness Follows, Ignoreland e Star Me Kitten sono le uniche tre canzoni “normali”: forse l’unico che si può definire un riempitivo è il breve New Orleans Instrumental No. 1, un po’ fine a sé stesso.

Il secondo dischetto, presente sia nella versione doppia che in quella tripla, è una piccola chicca, in quanto riporta l’unico concerto che il gruppo tenne a supporto dell’album, una performance registrata nel Novembre del 1992 al 40 Watt Club di Athens (quindi a casa loro): ho detto “piccola” chicca perché ben dodici dei tredici pezzi totali erano già usciti come bonus su quattro CD singoli tratti da Monster, ma ovviamente risentire tutto il concerto intero (tra l’altro completamente rimasterizzato) è ben diverso, anche perché possedere tutti i CD singoli è roba da collezionisti accaniti. Lo show, patrocinato da Greenpeace, è intimo ma decisamente riuscito ed accattivante, con i nostri che smentiscono il luogo comune che li considera principalmente una studio band. Aiutati da John Keane al basso e steel guitar, Stipe e soci iniziano con le uniche quattro canzoni prese dal nuovo album, messe una di fila all’altra e tra le più belle: Drive, in una versione potente, elettrica e roccata, completamente diversa da quella del disco (e forse meno efficace), Monty Got A Raw Deal, Everybody Hurts e Man On The Moon. Si prosegue poi con una panoramica della carriera dei quattro, a partire da una applauditissima Losing My Religion, seguita dalla suggestiva ed emozionante Country Feedback (con una splendida steel), dalla tignosa e chitarristica Begin The Begin e dalla byrdsiana Fall On Me, un tripudio di coretti e jingle-jangle sound.

Dopo l’incalzante Me In Honey e la vigorosa Finest Worksong, nella quale viene fuori tutta l’urgenza rocknrollistica del gruppo, il concerto termina con una scintillante cover di Love Is All Around dei Troggs (cantata da Mills), unico vero inedito del CD, ed un medley travolgente tra Funtime degli Stooges e la loro Radio Free Europe. Il terzo dischetto, esclusivo per il box, propone invece venti demo tratti dalle sessions dell’album, a quanto pare mai circolati neppure nel circuito dei bootlegs: alcuni pezzi sono versioni differenti di brani del disco (Drive è già splendida anche in questa veste non rifinita), dei quali qualcuno con titoli diversi (Wake Her Up è The Sidewinder Sleeps Tonite, e naturalmente Bouzouki Song è Monty Got A Raw Deal), altri veri e propri works in progress con titoli improbabili (C To D Slide 13, che è una Man On The Moon embrionale alla quale mancano ancora le parole, 10k Minimal, Eastern 93111, Pakiderm, 6-8 Passion & Voc), mentre molti sono strumentali o semplicemente idee abbozzate. C’è anche qualche brano inedito, eliminato in quanto troppo simile allo stile di Out Of Time, come la solare Mike’s Pop Song, cantata dal Mills, o il folk-rock strumentale di Peter’s New Song, oltre ad una prima versione di Photograph, che nella sua veste definitiva (e con Natalie Merchant alla seconda voce *NDB E quando erano insieme facevano delle cose splendide https://www.youtube.com/watch?v=mBidZgnWw-w ) è offerta come bonus audio nel BluRay (che contiene il disco originale in due diverse risoluzioni e tutti i videoclips tratti dall’album).

Un terzo CD forse non strettamente indispensabile, ma interessante se volete conoscere la genesi di un grande disco. In seguito i R.E.M. non raggiungeranno più questi livelli di eccellenza (ci si avvicineranno con l’ottimo New Adventures In Hi-Fi, ma a me piace molto anche Reveal), ed è anche per questo che Automatic For The People è uno di quei casi nei quali la ristampa deluxe è pienamente giustificata, anzi direi doverosa.

Marco Verdi

Supplemento Della Domenica: Era Già Imperdibile 19 Anni Fa, Figuriamoci Oggi! Led Zeppelin – The Complete BBC Sessions

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Led Zeppelin – The Complete BBC Sessions – Atlantic/Warner 3CD – 5LP – Super Deluxe 3CD + 5LP

Le recenti ristampe dell’intero catalogo dei Led Zeppelin a cura di Jimmy Page, sono state, diciamolo, una mezza delusione: a parte gli estremi, cioè il primo Led Zeppelin ed il postumo Coda, gli “inediti” inclusi nelle edizioni espanse avevano lasciato parecchio a desiderare, e la cosa più riuscita di queste riedizioni erano i libri che accompagnavano le edizioni super deluxe, peraltro costosissime e senza neppure un minuto di musica in più rispetto ai normali CD doppi (triplo nel caso di Coda). Oggi Page si riscatta parzialmente riproponendo le bellissime registrazioni che il gruppo aveva inciso per la BBC, già uscite in versione doppia nel 1997 e che avevano riscosso un notevole successo, anche perché all’epoca c’era una gran fame di Zeppelin e di inediti se ne vedevano pochissimi. The Complete BBC Sessions, oltre a riprodurre quel doppio album live (sia in studio che in presenza del pubblico), ne aggiunge un terzo con nove brani non pubblicati all’epoca, che sembrerebbero essere gli ultimi presenti negli archivi della storica emittente britannica, con i tre pezzi finali che appartengono ad una sessione del 1969 considerata perduta (ed anche qui, oltre ad una versione in quintuplo vinile, esiste il solito superbox con sia CD che LP, ma sempre senza musica aggiuntiva).

Per chi scrive i Led Zeppelin sono stati la più grande band di sempre: certo, forse i Beatles sono stati più innovatori e hanno scritto una serie di capolavori inarrivabile, i Rolling Stones sono la migliore rock’n’roll band sul pianeta (e qualche discreta canzoncina l’hanno scritta anche loro…), ma a livello di pura tecnica nessuno poteva competere con i quattro del Dirigibile, che partendo dalla lezione dei classici del blues hanno praticamente inventato un suono, l’hard rock classico che farà faville negli anni settanta, ed influenzato un’infinità di gruppi venuti dopo di loro (*NDB Anche se Jeff Beck avrebbe qualcosa da opinare su chi fu l’inventore). Robert Plant aveva un’ugola, una carica sessuale ed una presenza scenica che ne facevano il cantante rock per antonomasia (in seguito David Coverdale diventerà un ottimo discepolo, senza peraltro avvicinare a quei livelli), Jimmy Page è stato semplicemente il più grande chitarrista dopo Jimi Hendrix (ma non ditelo a Richie Blackmore se no mi fa causa), John Paul Jones è stato un bassista e tastierista assolutamente devastante, mentre John “Bonzo” Bonham è stato, insieme a Keith Moon, il miglior batterista rock di tutti i tempi. Il loro unico album dal vivo dell’epoca, The Song Remains The Same, era stato una delusione (in parte riparata dalla deluxe version del 2007), ed è quindi facilmente comprensibile il perché del successo nel 1997 di questo album, considerando che prendeva in esame incisioni del loro periodo migliore (quello dei primi quattro album).

Le registrazioni risalgono al 1969 sul primo CD (alle trasmissioni Pop Sundae e Top Gear ed al Playhouse Theatre), al 1971 sul secondo (tutte da un concerto al Paris Theatre di Londra), mentre sul terzo c’è un mix delle due annate: Page ha poi fatto un lavoro splendido in sede di rimasterizzazione, ripulendo ulteriormente le tracce che già aveva messo a punto 19 anni fa, ed il piacere dell’ascolto è quindi praticamente rinnovato. Il primo dei tre CD si apre con il possente blues di Willie Dixon You Shook Me, con Plant strepitoso già da subito e gli altri tre che ci danno dentro come se non ci fosse domani (e Page rilascia un assolo da marziano), seguita da una fluida e lineare I Can’t Quit You Baby (ancora Dixon) e da una delle tante Communication Breakdown, ben cinque in tutto il triplo, e tutte vere e proprie esplosioni elettriche. I classici del primo periodo ci sono comunque tutti (a parte, stranamente, Rock’n’Roll), tra cui spiccano una Dazed And Confused davvero plumbea e ricca di tensione, con Page che suona con l’archetto producendo suoni inquietanti (a dire il vero le versioni sono tre, di cui una di diciotto minuti assolutamente spaziale), un’altra You Shook Me, di dieci minuti, che fa impallidire quella già ottima posta in apertura, il superclassico Whole Lotta Love, una normale ed una di tredici minuti in medley con Boogie Chillun di John Lee Hooker, Fixin’ To Die di Bukka White e That’s Alright Mama e A Mess Of Blues di Elvis Presley, la sensuale What Is And What Should Never Be, con Page sublime anche alla slide, e la rara Travelling Riverside Blues, un blues “rurale” formidabile, una delle migliori performances del triplo.

Non manca neppure la magnifica Stairway To Heaven (per il sottoscritto la più grande canzone rock di sempre), anche se la versione originale la reputo insuperabile, la folkeggiante ed acustica Going To California (peccato non anche The Battle Of Evermore), ed alcune gemme eseguite raramente come The Girl I Love She Got Long Black Wavy Hair, la deliziosa That’s The Way ed il travolgente rock’n’roll di Eddie Cochran Somethin’ Else, con Jones che stende tutti al pianoforte. E, last but not least, una Immigrant Song da urlo, con Bonzo che sembra avere venti braccia, Plant indemoniato ed il solito assolo spaccabudella di Jimmy, fusa con l’altrettanto imperdibile Heartbreaker (ma come suona Page?). Il terzo CD, quello inedito, ci propone altre due Communication Breakdown, la prima più diretta e secca, la seconda superiore sia in durata che in resa, la solita superlativa Dazed And Confused (“solo” undici minuti), due ulteriori versioni di What Is And What Should Never Be, insinuanti e raffinate, con Plant e Page che fanno a gara a chi è più bravo, e la rara White Summer, uno strumentale di otto minuti in cui Jimmy può fare il bello e il cattivo tempo. Infine, la già citata “lost session” del 1969, che ha una qualità di registrazione nettamente inferiore, diciamo da bootleg medio, ma un grande valore artistico, con altre due splendide riletture di I Can’t Quit You Baby e You Shook Me e, vera chicca del CD, l’unica versione conosciuta di Sunshine Woman, un rock-blues decisamente tosto e grintoso.

Se diciannove anni fa eravate in vacanza sulla Luna e vi siete persi le BBC Sessions dei Led Zeppelin, ora non avete più scuse: tra le ristampe dell’anno.

Marco Verdi

Ma Mancano Quasi Tre Mesi! Led Zeppelin Ristampe Parte II – IV (Zoso) E Houses Of The Holy

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L’ho pensato anche io, ma mancano ancora quasi tre mesi! La data prevista è il 28 ottobre per le due nuove ristampe della serie Remastered 2014 dei Led Zeppelin, comunque visto che si incomincia a parlarne già in questi giorni adeguiamoci. Questa volta, leggendo la lista dei contenuti, devo dire che sono rimasto abbastanza deluso. Ma come, siamo solo al 4° e 5° album della serie e gli inediti, in studio o dal vivo, sono già allo zero assoluto e ci riduciamo già agli alternate mix e alle versioni senza voce? Parrebbe proprio di sì! Quindi chi acquista le solite costosissime edizioni in Super Deluxe Box (una la vedete qui sopra, l’altra fra poco) avrà poco di cui godere, aldilà delle bellissime confezioni per esteti del packaging, confermando la mia idea che le edizioni doppie sono il miglior modo per accostarsi a queste ristampe. Ad ogni modo, questo è il contenuto della versione in due CD di Led Zeppelin IV (Zoso) Four Symbols, come volete chiamarlo:

CD 1

1. “Black Dog”
2. “Rock And Roll”
3. “The Battle of Evermore”
4. “Stairway To Heaven”
5. “Misty Mountain Hop”
6. “Four Sticks”
7. “Going To California”
8. “When The Levee Breaks”

Companion Audio Disc

1. “Black Dog” – Basic Track With Guitar Overdubs
2. “Rock And Roll” – Alternate Mix
3. “The Battle Of Evermore” – Mandolin/Guitar Mix From Headley Grange
4. “Stairway To Heaven” – Sunset Sound Mix
5. “Misty Mountain Hop” – Alternate Mix
6. “Four Sticks” – Alternate Mix
7. “Going To California” – Mandolin/Guitar Mix
8. “When The Levee Breaks” – Alternate UK Mix

Non c’è proprio da godere come ricci, i titoli sono fantasiosi, speriamo che siano versioni alternative interessanti e Jimmy Page abbia lavorato bene. D’altronde gli altri non sembrano molto coinvolti, Robert Plant si sta preparando alla pubblicazione del suo nuovo album lullaby and…The Ceaseless Roar, in uscita l’8 di settembre, il primo per la Nonesuch/Warner e di cui parleremo a suo tempo. John Paul Jones tace (per quanto nel companion disc di Houses Of The Holy c’è un JPJ Keyboard Overdubs, di oggi?), o meglio le ultime notizie lo vedevano in tour con i Dave Rawlings Machine (“orfano” di Gillian Welch, ma con l’ex Zeppelin al mandolino), però era novembre dello scorso anno.

Tornando alle ristampe

led zeppelin houses of the holy remastered

questo è il contenuto del doppio CD di Houses Of The Holy

CD 1

1. “The Song Remains The Same”
2. “The Rain Song”
3. “Over The Hills And Far Away”
4. “The Crunge”
5. “Dancing Days”
6. “D’yer Mak’er”
7. “No Quarter”
8. “The Ocean”

Companion Audio Disc

1. “The Song Remains The Same” – Guitar Overdub Reference Mix
2. “The Rain Song” – Mix Minus Piano
3. “Over The Hills And Far Away” – Guitar Mix Backing Track
4. “The Crunge” – Rough Mix – Keys Up
5. “Dancing Days” – Rough Mix With Vocal
6. “No Quarter” – Rough Mix With JPJ Keyboard Overdubs – No Vocal
7. “The Ocean” – Working Mix

Titoli sempre più fantasiosi, anche in questo caso speriamo nei contenuti.

Bruno Conti

Dal Nostro Corrispondente…Al Cinema. Uno Spettacolo!!! Led Zeppelin – Celebration Day

*NDB. Come in tutti gli articoli che si rispettino, prima di lasciare la parola a Marco, un breve “cappello”, una sorta di di esortazione, ma direi meglio, una implorazione di un fan…

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Led Zeppelin – Celebration Day – Atlantic – Vari Formati*

Circa una decina di giorni fa ho definito in questo blog il nuovo Live In New York City di Paul Simon il disco live dell’anno, ma d’altro canto non posso non affermare che questo Celebration Day dei Led Zeppelin può diventare tranquillamente il live del secolo: sicuramente per quanto riguarda i dodici anni trascorsi dal duemila ad oggi, ma si difende molto bene anche se messo in relazione con cose uscite nel millennio precedente.

Come ormai tutti saprete Celebration Day documenta il famoso concerto di reunion degli Zeppelin che si è tenuto cinque anni fa alla 02 Arena di Londra, in commemorazione dello scomparso Ahmet Ertegun, leggendario fondatore della Atlantic Records e formidabile talent scout (oltre agli Zep, scoprì gente del calibro dei Drifters, Ray Charles, Aretha Franklin, gli Yes, oltre a credere fermamente per primo nel talento dei Rolling Stones, quindi non stiamo parlando di Jovanotti o Laura Pausini), morto nel Dicembre del 2006 all’età di 83 anni, per una banale caduta proprio ad un concerto degli Stones: una serata che definire storica è forse riduttivo (ben sapendo di usare un aggettivo ormai inflazionato), dal momento che, da dopo la tragica morte di John Bonham, i tre Zeppelin superstiti non si erano mai riuniti, se non per un breve e non eclatante set durante il Live Aid del 1985 (ed i soli Page e Plant sporadicamente negli anni ’90).

Il 20 Novembre (in Italia e nel resto del mondo) uscirà dunque questo concerto in un profluvio di formati, come potete vedere qua sotto

*  Standard Editions – 1-DVD/2-CD set and 1-Blu-ray/2-CD set

Deluxe Editions – 2-DVD/2-CD set and 1-Blu-ray/1-DVD/2-CD set featuring exclusive bonus video content including the Shepperton rehearsals, and BBC news footage.
Music Only CD Edition – 2-CD set
Music Only Blu-ray Audio Edition – Blu-ray Audio release featuring high-resolution 48K 24 bit PCM stereo and DTS-HD Master Audio 5.1 surround sound audio only, no video
Vinyl Edition – 3 LPs, 180-gram, audiophile quality vinyl (Available December 11)
Digital Edition – Audio will be available at all digital retail outlets

Ma io ho l’opportunità di parlarne in anteprima, dal momento che sono riuscito a vederlo al cinema il 17 Ottobre, unica data in cui è stato proiettato in selezionate sale italiane.

La prima (piacevole) sorpresa è proprio la sala: praticamente piena, non ho visto così tanta gente neppure alla proiezione dell’ultimo Batman, ed il fermento pochi minuti prima dell’inizio è simile a quello di un vero concerto. Il film non è un documentario, ma la rappresentazione nuda e cruda di quello che è avvenuto in quella serata londinese: quindi il concerto puro, senza interviste o backstage.

I nostri proporranno una scaletta di sedici brani (con qualche sorpresa), scelti un po’ da tutti i loro dischi, tranne il postumo Coda e il poco amato In Through The Out Door, con una predilezione chiaramente per il loro quarto album senza titolo e per Physical Graffiti, ma con stranamente un solo pezzo da III, e niente Celebration Day, che pure dà il titolo al progetto. La cosa che però più importa è che è un concerto straordinario, con i quattro (i tre superstiti più il figlio di Bonham, Jason, grande batterista, anche nei Black Country Communion) in forma strepitosa, una regia (Dick Carruthers) molto classica, ma dinamica e con un grande senso dello spettacolo, una definizione di immagine super ed un audio insuperabile.

Come già detto, i quattro (tre) Zeppelin sono in serata di grazia: Jason Bonham, calvo e muscoloso come si conviene ad un batterista, ha una forza ed una tecnica spaventose, e non è molto distante dal padre, o da grandi delle pelli come Keith Moon e Ian Paice; John Paul Jones, magro come un chiodo, è il prototipo del perfetto bassista: misurato, preciso, puntuale (ma si difende alla grande anche all’organo e tastiere varie); Robert Plant, con i famosi riccioli d’oro e pizzetto d’ordinanza, tira fuori il meglio dalla sua ugola, confermandosi come una delle voci più belle della storia del rock, con sfumature che vanno dall’aggressivo al sexy (ultimamente sapevo di qualche colpo a vuoto da parte sua, ma stasera non ne sbaglia una); Jimmy Page, ovvero quello dei quattro sul quale c’erano più dubbi (è arrugginito, ha l’artrite alle mani, ecc.) si dimostra per quello che è, cioè il più grande chitarrista di tutti i tempi dopo Jimi Hendrix (e appena prima di Stevie Ray Vaughan, almeno per me, ma tutti fanno le classifiche dei chitarristi e quindi perché non io?), che viaggia tra lo strepitoso ed il mostruoso, e solo la zazzera completamente bianca (e un po’ di pancetta) mostrano i segni del tempo.

Il concerto si apre così come il loro primo album, cioè con Good Times, Bad Times: bella versione, sufficientemente tirata, anche se danno ancora l’impressione di essere in rodaggio, così come nella seguente Ramble On (anche se Page e Bonham iniziano a tirare fuori le unghie).

La famosa Black Dog funge da spartiacque tra l’inizio relativamente “tranquillo” ed il seguito del concerto: il traditional In My Time Of Dying (era su Physical Graffiti) fa partire la serata come un treno in corsa, una versione semplicemente da urlo, con Plant che si lavora la folla da marpione qual è, e gli altri tre che imbastiscono la prima jam session della serata.

La cosa incredibile è che il pubblico in sala (non a Londra, ma qui al cinema), si agita, batte le mani ed esulta come ad un vero concerto: le uniche due volte che ho visto il pubblico applaudire al cinema è stato durante Rocky IV, quando Stallone caricava di botte Ivan Drago, e, a New York, in Air Force One, quando il presidente/Harrison Ford butta giù dall’aereo il terrorista/Gary Oldman al grido “Get out of my plane!”.

For Your Life è proposta dal vivo per la prima volta in assoluto (era su Presence, forse il loro disco più sottovalutato) e non è affatto male, anche se con Trampled Under Foot (che Plant introduce come la loro versione di Terraplane Blues di Robert Johnson) siamo su un altro pianeta: Jones si sposta alle tastiere, mentre Page fa i numeri con la sua sei corde (come in tutti i brani d’altronde).

Nobody’s Fault But Mine chiude in maniera sontuosa la parte blues del concerto, con Plant che si cimenta in un riuscito assolo di armonica; la tetra No Quarter vede Page suonare la chitarra con l’archetto, con il quale tira fuori sonorità spaziali, per l’entusiasmo del pubblico, mentre Dazed And Confused non ha bisogno di presentazioni (Plant canta come se fosse l’ultima cosa che fa nella vita).

Stairway To Heaven arriva un po’ a sorpresa, dal momento che Plant non ha mai amato molto farla, ma stasera la canta in omaggio ad Ertegun: versione definitiva di quella che per me è la più bella canzone rock di tutti i tempi, ed il celebre finale con il botta e risposta tra l’ugola di Plant ed i riffs di Page è quasi meglio che sul disco originale.

The Song Remains The Same non è mai stata fra le mie favorite, ma stasera mi piace anche lei; Misty Mountain Hop, potente, fragorosa, vede Plant duettare alla voce con Bonham, mentre Kashmir viene accolta da un vero boato (anche al cinema).

Il brano di punta di Physical Graffiti è proposto in una versione da sballo, con Plant che canta come quando era un ragazzo, per poi osservare compiaciuto gli altri tre che si lanciano in una jam pazzesca: Page suona come un dio, Jones non sbaglia un colpo, e Bonham ci mostra la differenza tra picchiare sui tamburi e suonare la batteria.

I due bis finali, Whole Lotta Love e Rock’n’Roll sono una scelta prevedibile finché volete, ma quando ci troviamo di fronte alla storia del rock dobbiamo solo stare zitti ed ascoltare: degno finale di una serata magnifica.

Peccato solo che non abbiano voluto omaggiare anche il loro lato folk: una a scelta (o anche tutte e tre) tra Going To California, The Battle Of Evermore e Gallows Pole ci sarebbe stata proprio bene.

Bene hanno fatto, alla conferenza stampa di presentazione del film poche settimane fa, ad insistere sul fatto che non ci saranno altre reunion: questo è il finale perfetto di un romanzo splendido, una doverosa postfazione ad una storia che si era conclusa tragicamente con la morte di uno dei componenti del gruppo.

All’uscita del cinema sono tutti in estasi, mancano solo i venditori di magliette ed i chioschi che vendono panini con salamella.

Se questo doppio CD non va in testa a tutte le classifiche del mondo i casi sono due: o gli acquirenti di musica si sono bevuti il cervello, o me lo sono bevuto io.

Marco Verdi

Chi E’ Quella Brava Dei Due? JP, Chrissie & The Fairground Boys

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JP, Chrissie & The Fairground Boys – Fidelity – Ear Music/Edel

Ovviamente quella brava è Chrissie Hynde nella sua prima avventura discografica al di fuori dal nome Pretenders (anche se a guardare bene è sempre stata lei con degli “altri musicisti” ma il nome funzionava sia come “copertina di Linus” sia per attirare i fan fedeli alla ragione sociale). Lui è John Paul Jones (non quello dei Led Zeppelin, ovviamente, anche se visti i trascorsi di Chrissie con Jim Kerr e Ray Davies non era così certo): questo JP Jones è un musicista gallese ex leader e vocalist dei Grace che parte della stampa inglese aveva definito come un incrocio tra i Coldplay e gli Oasis.

Perché ve ne parlo? Perché il Buscadero con cui collaboro lo ha stroncato di brutto e invece secondo me (e anche altri giornali musicali italiani) non è niente male. Non è quel capolavoro che hanno dipinto Uncut e altre riviste inglesi ed americane ma il miglior disco della signora Hynde da molti anni a questa parte.

Sarebbe molto meglio se non ci fosse il JP in questione, ma visto che è la ragione principale, affettiva ed artistica, per cui questo album esiste, ce lo teniamo. Quando canta per conto suo in alcuni brani è anche bravo: Leave Me If You Must potrebbe essere una outtake di Leonard Cohen, mentre Christmas Soon è un bel pezzo di blue collar rock vagamente springsteeniano cantato con grande convinzione e trasporto, prima lui e poi lei ma ognuno per i fatti suoi.

Ma è quando si sovrappone con le armonie vocali o duetta con la Hynde che rompe un po’ le balle: capisco che il disco è una collaborazione ma un brano come l’iniziale Perfect Lover, uno di quei bellissimi valzeroni rock tipici dei Pretenders con la voce inconfondibile di Chrissie che viene interrotta da un vocione che è un incrocio tra Tom Waits con la raucedine, ancora Leonard Cohen (ma ubriaco) e Axl Rose non in uno dei suoi giorni migliori (cioè sempre) ti verrebbe la voglia di abbatterlo lì sul posto. Peccato perché il brano è delizioso e ha un testo significativo: “I’ve found my perfect lover but he’s only half my age/ He was learning how to stand when I was wearing my first wedding band”!

Anche If You Let me è un gagliardo pezzo rock cantato in coppia (qui Jp meglio) con una chitarra tagliente e la divina Chrissie in grande spolvero ma fatto da sola secondo me sarebbe stato anche meglio. Non ci risparmia anche il falsetto in Fairground Luck: ma benedetto uomo (come direbbe qualcuno) hai Chrissie Hynde nel tuo gruppo e lasciala cantare. Quando riesce, parzialmente. a trattenere i suoi istinti come nella solare Australia, incanalandoli verso tonalità alla Ian Hunter l’alchimia tra i due funziona.

Se poi riesce a cantare da sola come nella ballatona Misty Valleys ci sono perfini echi dell’antico splendore pop dei Pretenders. Anche Courage sarebbe un’altra bella power ballad ma ritorna quella vocalità alla Axl Rose che JP ogni tanto ci propina e un po’ rompe l’equilibrio ( e le balle).

Meanwhile è un altro brano romantico e melodico solo per la Hynde, niente di trascendentale ma è sempre un piacere sentire quella bellissima voce, qualcuno ha detto vulnerabile ma allo stesso tempo di acciaio, una delle più espressive della musica rock (se ve lo state chiedendo, c’è, ma poco). Molto piacevole anche Your Fairground, già sentita (ma cosa non lo è) ma non scontata.

Niente male anche Never Drink Again, sempre molto cantabile e orecchiabile, la nostra amica non ha perso quel talento per creare la (quasi) perfetta canzone pop. Agli inizi di carriera non c’era quel quasi ma ci si accontenta. In questo senso Fidelity è perfetta senza se e senza ma, uno di quei brani che vorresti sentire alla radio se non fosse inflazionata dalle Rhianne, Lady Gaghe e Madonne della situazione. Accontantevi di sentirla sul CD. Di Christmas Soon abbiamo già detto. Nell’edizione Deluxe Enhanced ci sono due tracce dal vivo in più e il video di If You let me.

C’è in giro molto di peggio spacciato per oro, questo è dell’onesta musica pop (e rock).

Bruno Conti