Recensioni Cofanetti Autunno-Inverno 3. Dedicato A Chi Non Li Considera(va) Una Grande Live Band! R.E.M. – At The BBC

Rem At The BBC

R.E.M. – At The BBC – Concord/Universal 2CD – 2LP – Box Set 8CD/DVD

Nel 2018 nessun album dei R.E.M. ha compiuto 25 anni (toccherà nel 2019 a Monster, disco peraltro non tra i migliori del gruppo di Athens), e quindi il “buco” di mercato viene coperto egregiamente da questo box di otto CD più un DVD intitolato At The BBC, che, come potete immaginare, ripercorre la storia delle partecipazioni del quartetto (trio dal 1998) alle trasmissioni della leggendaria emittente radio-televisiva britannica, siano esse esibizioni negli studi (con pubblico e senza), sia grandi concerti all’aperto che la BBC aveva trasmesso in esclusiva. Negli anni in molti, specie tra i detrattori del gruppo di Michael Stipe, Peter Buck e Mike Mills (oltre a Bill Berry), hanno pensato che i nostri fossero principalmente una band adatta a produrre ottimi album di studio, ma molto meno efficaci dal vivo.

Questo splendido box (esiste anche una versione ridotta a due CD, però a mio parere ce ne volevano almeno tre) smentisce clamorosamente questa teoria, nonostante le numerose canzoni che si ripetono al suo interno: i R.E.M. erano principalmente un gruppo di musicisti nel puro senso del temine, forse un po’ meno showmen, e quindi i loro concerti non erano il massimo dello spettacolo dal punto di vista visivo, ma quando si trattava di suonare eccome se ci davano dentro, riuscendo anche a cambiare gli arrangiamenti dei brani e ad entusiasmare il pubblico senza l’ausilio di effetti speciali, ma solo con la loro musica. Questo box, che è completato da un corposo libretto con le testimonianze di vari produttori e presentatori della BBC, prende in esame un arco di tempo decisamente ampio, che va dal 1984, quando i nostri erano ancora poco conosciuti anche in America, fino al 2008, anno in cui smisero di esibirsi dal vivo. Ecco una disamina dei contenuti disco per disco.

CD1: l’unico dei supporti audio ad avere materiale proveniente da varie fonti, e anche l’unico senza pubblico. I primi sei brani sono tratti da una splendida session acustica del 1991 per il programma Into The Night, dove spiccano una deliziosa World Leader Pretend, dal testo sempre attuale, la rara Fretless (presente solo nella colonna sonora di Until The End Of The World), l’allora nuovissima Losing My Religion, sempre una grande canzone anche in questa versione rallentata, ed una scintillante rilettura del classico dei Troggs Love Is All Around, cantata da Mills. Quattro pezzi vengono da una studio session per la trasmissione di John Peel e tutti quanti tratti da Up, uno dei rari passi falsi del gruppo, un disco quasi sperimentale e con largo uso di elettronica: dal vivo però le canzoni in questione vengono decisamente meglio, specie Daysleeper, una ballata distesa con melodia tipica di Stipe e soci ed una suggestiva slide alle spalle. Altri quattro brani sono dell’Ottobre del 2003, le splendide Man On The Moon e Imitation Of Life, tra le più belle del loro songbook, la frenetica Bad Day, in pratica una It’s The End Of The World As We Know It versione 2.0, ed una sontuosa Orange Crush, rock song di notevole spessore. Chiudono due pezzi incisi nel 2008: una cover di Munich, brano della band post-punk The Editors, ed una Supernatural Superserious in un’insolita veste acustica.

CD2: una session completa (e con pubblico) per John Peel, leggendario DJ che pare non amasse i nostri alla follia. Dodici brani, di cui la metà da Up (non male Lotus, dalle vaghe reminescenze bowiane, e la gentile pop song At My Most Beautiful, con echi invece di Beach Boys); per il resto un paio di classici (Losing My Religion, che apre lo show, e Man On The Moon, che lo chiude), le poco eseguite New Test Leper (limpida folk-rock ballad) e Perfect Circle (lenta ed interiore), la fluida e pianistica Electrolite, molto apprezzata dal pubblico, ed una spettacolare Country Feedback che supera i sette minuti e da sola vale il dischetto. CD3: uno show a Nottingham del 1984, quando i nostri erano ancora giovani, affamati e decisamente diretti ed immediati, un set fortemente elettrico con diversi classici della prima ora (Hyena, So. Central Rain, Gardening At Night, Radio Free Europe, Carnival Of Sorts), ma soprattutto gemme oggi quasi dimenticate come la travolgente Second Guessing, puro rock’n’roll, le mosse e godibili Talk About The Passion e (Don’t Go Back To) Rockville, entrambe con ampio uso di jingle-jangle sound, la sinuosa Old Man Kensey, con il suo chitarrone twang, la trascinante e corale Pretty Persuasion ed il ficcante medley 9-9/Hey Diddle Diddle/Feeling Gravitys Pull, suonato con foga da punk band.

CD4-5: i migliori due dischetti del box documentano uno splendido concerto tenutosi a Milton Keynes nel 1995, uno show decisamente elettrico e con molti pezzi reinventati e diversi dagli originali: perfino Losing My Religion non ha mai suonato così rock. La serata inizia con i due brani migliori di Monster, cioè l’orecchiabile What’s The Frequency Kenneth? e soprattutto la roboante Crush With Eyeliner, grande rock song influenzata da Lou Reed, per poi presentarci Drive, uno dei loro capolavori assoluti in una versione completamente diversa, molto più elettrica e forse con meno pathos dell’originale. Altri highlighs di un concerto che non dà un attimo di tregua (non le cito tutte perché ci vorrebbe una recensione a parte) sono il coinvolgente rock’n’roll di I Took Your Name, la bellissima slow ballad Strange Currencies, ancora migliorata da questo arrangiamento più elettrico, la soulful Tongue, la sempre magistrale Country Feedback, una formidabile Everybody Hurts di sette minuti e la byrdsiana Fall On Me.

CD6-7: registrato al famoso Festival di Glastonbury nel Giugno del 1999, questo è un altro bel concerto, elettrico e vibrante, leggermente inferiore al precedente più che altro per la presenza di troppi brani da Up (ma Daysleeper si conferma una gran bella canzone): finalmente sentamo anche The One I Love, uno dei più bei brani dei REM degli anni ottanta, e le solite ottime What’s The Frequency Kenneth?, Fall On Me, Sweetness Follows, Everybody Hurts e Crush With Eyeliner, ed una conclusiva It’s The End Of The World As We Know It anch’essa di sette minuti. E pure la poco nota So Fast, So Numb è una rock song coi fiocchi. CD8: un’esibizione del 2004 nella sconsacrata St. James’ Church di Londra, solo undici brani ma altra grande performance. Oltre a Losing My Religion e Man On The Moon non ci sono molti altri classici della band, ma abbiamo la deliziosa Leaving New York, il pop-rock solare di Imitation Of Life e soprattutto la splendida e suggestiva E-Bow The Letter, pezzo centrale di quel mezzo capolavoro che era New Adventures In Hi-Fi, con Thom Yorke dei Radioheads che sostituisce Patti Smith alla seconda voce. Tra le meno note, spicca lo scintillante folk-rock di Aftermath.

DVD: il fulcro dell’unico dischetto video è un documentario intitolato Accelerating Backwards, che raccoglie performance prese da anni diversi (tra cui una bizzarra rilettura del classico Moon River), e soprattutto tredici canzoni tratte da Later…With Jools Holland del 1998, uno show impeccabile nonostante anche qui la presenza di brani di Up sia massiccia, ma con una irresistibile rilettura della grande The Passenger di Iggy Pop, leggermente accelerata (ed uscita all’epoca su un CD singolo oggi ormai introvabile se non a prezzi proibitivi). Un bellissimo cofanetto quindi, che mi sento di consigliare visto che forse offre la panoramica più completa dal vivo ad oggi dei R.E.M.: con circa 60/65 euro è vostro.

Marco Verdi

25 Anni Dopo E’ Ancora Un Capolavoro! R.E.M. – Automatic For The People 25th Anniversary

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R.E.M. – Automatic For The People – Craft/Concord/Universal 2CD Deluxe – 3CD/BluRay Super Deluxe

Se non ricordo male questo blog non si è mai occupato prima d’ora nel dettaglio delle ristampe dei R.E.M., nonostante siano già uscite le riedizioni di diversi album considerati dei classici del quartetto di Athens, principalmente Murmur, Lifes Rich Pageant, Green e, perché no, Out Of Time che oltre ad essere il loro album più famoso è comunque un gran bel dischetto. Ho però ritenuto doveroso fare un’eccezione per Automatic For The People, album del 1992 del gruppo, quasi all’unanimità ritenuto il loro capolavoro ed uno dei dischi di riferimento degli anni novanta, uno dei quei lavori da cinque stellette: siccome album meritevoli di un giudizio simile da almeno tre decadi sono merce rarissima, mi è sembrato giusto dedicare un post a questa edizione per i 25 anni, che esce in doppio CD ed in versione super deluxe con un terzo CD ed un BluRay, il tutto in un lussuoso formato LP con un bel libro allegato pieno zeppo di foto, note e con i testi dei brani (a differenza delle ultime uscite che erano in formato libro, tipo quelle dei Jethro Tull). Nel 1992 i R.E.M. erano reduci dallo strepitoso successo dell’album Out Of Time e soprattutto del singolo Losing My Religion, un brano che li strappò letteralmente dallo status di cult band e li fece conoscere in ogni lato del pianeta. Ma il gruppo formato da Michael Stipe, Peter Buck, Bill Berry e Mike Mills è sempre stato un combo formato da quattro persone normali, addirittura quasi schive, ed il successo esploso nelle loro mani li prese decisamente alla sprovvista, in quanto nessuno di loro aveva l’attitudine della superstar: basti pensare che a seguito di Out Of Time non fu intrapreso nessun tour (decisione suicida dal punto di vista del marketing, e nonostante tutto il disco vendette più di 18 milioni di copie), ma i quattro si misero subito al lavoro su quello che sarebbe appunto diventato Automatic For The People, facendolo uscire solo un anno e sette mesi dopo Out Of Time.

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E Automatic For The People arrivò praticamente ad eguagliare i dati di vendita del suo predecessore, un exploit eccezionale da imputare esclusivamente alla bellezza del disco, in quanto anche questa volta non ci fu nessuna tournée (ci sarà invece per il successivo Monster, 1994, forse anche a causa del fatto che fino a quel momento probabilmente si trattava del loro lavoro più debole) e neppure un singolo ammazza-classifiche come Losing My Religion. Sarebbe stato facilissimo per i quattro ragazzi sfornare un disco-clone di Out Of Time, ma invece fu presa la direzione diametralmente opposta: Automatic For The People è infatti un disco dalle atmosfere cupe e malinconiche, decisamente introverso e con testi che parlano spesso della morte, ma è anche un album pieno di canzoni splendide, sintomo di un momento di ispirazione irripetibile, il tutto nobilitato dalla produzione perfetta del solito Scott Litt, uno che è giusto considerare, almeno all’epoca, il quinto R.E.M. Il disco ebbe una gestazione un po’ problematica, in quanto venne inciso in cinque città diverse (Athens, New York, Miami, Atlanta e New Orleans), e ad un certo punto a Stipe venne anche il blocco dello scrittore: tutto fu però brillantemente superato, ed oggi posso affermare senza tema di smentita che Automatic For The People è ancora bello, fresco ed intenso come quando uscì 25 anni fa. Ci sono al suo interno almeno tre grandissime canzoni, a partire dallo straordinario primo singolo Drive, un pezzo che è tutto tranne che commerciale: una splendida ballata acustica ricca di pathos, con un bellissimo crescendo e, nei pressi del bridge, un lancinante intervento di chitarra elettrica doppiato dagli archi arrangiati dall’ex Led Zeppelin John Paul Jones.

Allo stesso livello sono anche la lenta Everybody Hurts, con un grande Stipe ed una melodia da pelle d’oca, e la deliziosa Man On The Moon, dedicata allo showman Andy Kaufman e che in seguito darà il titolo al biopic sul controverso attore americano, diventando uno dei brani più famosi del quartetto. Quasi allo stesso livello abbiamo The Sidewinder Sleeps Tonite, scintillante folk-rock che prende spunto inizialmente dal classico dei Tokens The Lion Sleeps Tonight per poi svilupparsi in maniera differente, e Nightswimming, pianistica, poetica e toccante. Altri brani che mi piacciono molto sono altre due ballate, la suggestiva Try Not To Breathe, di chiara ispirazione folk, e la malinconica ed intensa Find The River, che non so perché ma mi ha sempre fatto venire in mente il miglior John Denver; bella anche la mossa Monty Got A Raw Deal, con il bouzouki protagonista ed un’atmosfera da est europeo, ma dallo squisito ed immediato refrain. Sweetness Follows, Ignoreland e Star Me Kitten sono le uniche tre canzoni “normali”: forse l’unico che si può definire un riempitivo è il breve New Orleans Instrumental No. 1, un po’ fine a sé stesso.

Il secondo dischetto, presente sia nella versione doppia che in quella tripla, è una piccola chicca, in quanto riporta l’unico concerto che il gruppo tenne a supporto dell’album, una performance registrata nel Novembre del 1992 al 40 Watt Club di Athens (quindi a casa loro): ho detto “piccola” chicca perché ben dodici dei tredici pezzi totali erano già usciti come bonus su quattro CD singoli tratti da Monster, ma ovviamente risentire tutto il concerto intero (tra l’altro completamente rimasterizzato) è ben diverso, anche perché possedere tutti i CD singoli è roba da collezionisti accaniti. Lo show, patrocinato da Greenpeace, è intimo ma decisamente riuscito ed accattivante, con i nostri che smentiscono il luogo comune che li considera principalmente una studio band. Aiutati da John Keane al basso e steel guitar, Stipe e soci iniziano con le uniche quattro canzoni prese dal nuovo album, messe una di fila all’altra e tra le più belle: Drive, in una versione potente, elettrica e roccata, completamente diversa da quella del disco (e forse meno efficace), Monty Got A Raw Deal, Everybody Hurts e Man On The Moon. Si prosegue poi con una panoramica della carriera dei quattro, a partire da una applauditissima Losing My Religion, seguita dalla suggestiva ed emozionante Country Feedback (con una splendida steel), dalla tignosa e chitarristica Begin The Begin e dalla byrdsiana Fall On Me, un tripudio di coretti e jingle-jangle sound.

Dopo l’incalzante Me In Honey e la vigorosa Finest Worksong, nella quale viene fuori tutta l’urgenza rocknrollistica del gruppo, il concerto termina con una scintillante cover di Love Is All Around dei Troggs (cantata da Mills), unico vero inedito del CD, ed un medley travolgente tra Funtime degli Stooges e la loro Radio Free Europe. Il terzo dischetto, esclusivo per il box, propone invece venti demo tratti dalle sessions dell’album, a quanto pare mai circolati neppure nel circuito dei bootlegs: alcuni pezzi sono versioni differenti di brani del disco (Drive è già splendida anche in questa veste non rifinita), dei quali qualcuno con titoli diversi (Wake Her Up è The Sidewinder Sleeps Tonite, e naturalmente Bouzouki Song è Monty Got A Raw Deal), altri veri e propri works in progress con titoli improbabili (C To D Slide 13, che è una Man On The Moon embrionale alla quale mancano ancora le parole, 10k Minimal, Eastern 93111, Pakiderm, 6-8 Passion & Voc), mentre molti sono strumentali o semplicemente idee abbozzate. C’è anche qualche brano inedito, eliminato in quanto troppo simile allo stile di Out Of Time, come la solare Mike’s Pop Song, cantata dal Mills, o il folk-rock strumentale di Peter’s New Song, oltre ad una prima versione di Photograph, che nella sua veste definitiva (e con Natalie Merchant alla seconda voce *NDB E quando erano insieme facevano delle cose splendide https://www.youtube.com/watch?v=mBidZgnWw-w ) è offerta come bonus audio nel BluRay (che contiene il disco originale in due diverse risoluzioni e tutti i videoclips tratti dall’album).

Un terzo CD forse non strettamente indispensabile, ma interessante se volete conoscere la genesi di un grande disco. In seguito i R.E.M. non raggiungeranno più questi livelli di eccellenza (ci si avvicineranno con l’ottimo New Adventures In Hi-Fi, ma a me piace molto anche Reveal), ed è anche per questo che Automatic For The People è uno di quei casi nei quali la ristampa deluxe è pienamente giustificata, anzi direi doverosa.

Marco Verdi

Ecco Un Altro Che Non E’ Capace Di Fare Dischi Brutti! Chip Taylor – A Song I Can Live With

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Chip Taylor – A Song I Can Live With – Train Wreck CD

James Wesley Voight, fratello del famoso attore Jon Voight e quindi zio di Angelina Jolie, noto nel mondo musicale con lo pseudonimo di Chip Taylor, è un cantautore classico, di quelli ormai sempre più rari, e da vari anni a questa parte pubblica dischi con una continuità sia quantitativa che qualitativa disarmante. Chip deve la sua fama principalmente a due canzoni, Angel In The Morning e soprattutto Wild Thing, scritte in passato e portate al successo rispettivamente da Merrilee Rush e dai Troggs, ma ha anche una lunga carriera discografica, piuttosto avara di soddisfazioni ma di grande livello artistico. Solo negli ultimi anni ha pubblicato alcuni tra i più bei dischi di puro cantautorato usciti sul mercato, dal semi-antologico New Songs Of Freedom, ai bellissimi Songs From A Dutch Tour e Yonkers, NY, all’ambizioso triplo The Little Prayers Trilogy, allo straordinario Block Out The Sirens Of This Lonely World, il preferito dal sottoscritto tra quelli elencati. A Song I Can Live With arriva a meno di un anno dal buon Little Brothers http://discoclub.myblog.it/2016/06/30/cantautori-cosi-ne-fanno-piu-chip-taylor-little-brothers/ , e devo dire che è persino meglio: Taylor propone dodici canzoni nuove di zecca nel suo consueto stile pacato ed acustico (ma il pianoforte ha un’importanza fondamentale nell’economia del suono), brani semplici e lineari ma dalle melodie toccanti, dove la grande protagonista è la sua voce calda e profonda, invecchiata ma di grande fascino, quasi sussurrata e con le sue tipiche pause e sospiri che sono ormai una delle caratteristiche principali del suo modo di fare musica.

Chip al solito si circonda di pochi musicisti, ma di alto livello, a partire dall’ormai abituale partner Goran Grini, ottimo pianista ed arrangiatore norvegese di origine slava, passando per il superbo chitarrista John Platania, per anni alla corte di Van Morrison, fino al noto Greg Leisz, steel guitarist supremo. Un disco di ballate, dal sound spoglio (non c’è neppure la batteria), ma forse anche per questo ancora più intenso: peccato per l’assenza dei testi all’interno della confezione, in quanto Chip è sempre molto interessante anche dal punto di vista lirico. Crazy Girl apre il disco con un delicato duetto tra chitarra acustica e piano, subito seguito dalla voce calda del nostro, che alterna momenti di puro talkin’ ad altri in cui tira fuori all’improvviso una melodia toccante, con il tocco geniale di un corno in sottofondo. Sentite Until It Hurts, più che altro parlata: pochi oltre a Chip sono in grado di provocare brividi con due accordi in croce ed il solo uso della voce (bello anche il riferimento nel testo alle morti di David Bowie e Lou Reed, con la rievocazione di una cena tra l’ex Velvet Underground ed Eric Andersen); New York In Between è pura e limpida, una vera songwriter’s tune, con un motivo semplice e struggente ed il solito pianoforte discreto ma indispensabile.

Young Brooks Flow Forever è da pelle d’oca, e la voce quasi impastata di Taylor è protagonista in positivo, a pari merito con il piano di Grini, un musicista dalla chiara impostazione classica; Little Angel Wings è ancora dominata dal talkin’ intenso del nostro, ed un flauto combinato con la steel di Leisz dona un pizzico di colore, mentre Joan Joan Joan, ancora pianistica (e dedicata a sua moglie), è deliziosa. Siamo solo a metà disco, ma anche le altre sei canzoni sono sullo stesso (alto) livello, a partire dalla splendida (ed ancora causa di ripetuti brividi) Hey Lou, seguita dalla più cupa Senorita Falling Down, mentre la title track è una canzone tipica del nostro, magari già sentita ma dallo straordinario impatto emotivo (e qui la steel è decisamente l’arma in più). Il CD si chiude con altre tre gemme, tra le quali la più brillante è senz’altro la bellissima Save Your Blues And Your Money, nobilitata da un motivo di prim’ordine ed un accompagnamento scintillante anche se scarno. Chip Taylor si conferma con A Song I Can Live With uno dei migliori cantautori in circolazione, ed i suoi album con cadenza annuale ormai sono diventati una piacevole abitudine.

Marco Verdi

Di Cantautori Così Non Ne Fanno Più! Chip Taylor – Little Brothers

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Chip Taylor – Little Brothers – Train Wreck/Ird CD

Nonostante abbia scritto brani come Angel In The Morning (grande successo per Juice Newton nel 1981 e prima ancora nella Top Ten USA del 1968, cantata da Merrilee Rush), ma soprattutto la celeberrima Wild Thing, il pezzo che da solo ha praticamente definito l’intera carriera dei Troggs (e di cui Jimi Hendrix suonò una versione formidabile al Monterey Pop del 1967), Chip Taylor (nome d’arte di James Wesley Voight, come è anche indicato sulla copertina del CD di cui mi accingo a parlare) è da sempre considerato un outsider, quasi un personaggio di secondo piano, soltanto perché non ha mai avuto successo come artista solista, ma solo come autore per conto terzi, soprattutto con i due brani citati prima. Attivo come performer dall’inizio degli anni settanta, Taylor ha inciso molto, interrompendosi solo per un lungo periodo che comprendeva tutti gli anni ottanta (il nadir di popolarità per molti musicisti “originali”) e metà circa dei novanta, ricominciando però con regolarità solo dagli anni duemila, sia da solo che in coppia con la brava Carrie Rodriguez. Chip è sempre stato un cantautore puro, di stampo classico, voce, chitarra e poco altro, ma con una straordinaria capacità di costruire melodie intense ed immediatamente fruibili, unite ad un feeling non comune; con gli anni poi la sua voce ha assunto tonalità calde e pastose che in diversi casi sono state l’arma in più per far funzionare a dovere le sue canzoni: il suo stile rilassato, confidenziale, a metà quasi tra cantato e parlato, è uno dei suoi marchi di fabbrica, e negli ultimi anni raramente ha sbagliato un colpo.

https://www.youtube.com/watch?v=xIjn5C0RDKc

Infatti, a partire dallo straordinario New Songs Of Freedom del 2008 (ma anche andando a ritroso) , che era una sorta di compilation con però diversi brani nuovi, il nostro non ha mai deluso, e in alcuni casi (parlo almeno per me) ha addirittura entusiasmato: tra i suoi lavori più riusciti ricordo senz’altro il bellissimo Songs From A Dutch Tour (che a dispetto del titolo non è un live), lo splendido Block Out The Sirens Of This Lonely World, uno dei miei dieci dischi del 2013 http://discoclub.myblog.it/2013/06/27/una-trasferta-norvegese-chip-taylor-block-out-the-sirens-of/ , e l’ambizioso triplo CD The Little Prayers Trilogy di due anni orsono. E poi uno che come chitarrista utilizza John Platania, cioè il bandleader per anni di “Mr. Esigenza” Van Morrison (compreso nel leggendario live It’s Too Late To Stop Now, appena ristampato http://discoclub.myblog.it/2016/06/14/sempre-stato-difficile-fermarlo-nuova-versione-espansa-piu-dei-live-piu-belli-sempre-van-morrison-its-too-late-to-stop-now-ii-iii-iv-dvd/ ), non è certo un personaggio qualunque (in Norvegia gli hanno pure dedicato un tributo http://discoclub.myblog.it/2013/03/16/dalla-norvegia-con-passione-paal-flata-wait-by-the-fire-song/.

Ora Chip torna con un CD nuovo di zecca, Little Brothers, nel quale ci regala otto brani nuovi di zecca, di stampo autobiografico (e non è la prima volta, lo aveva già fatto in Yonkers, NY http://discoclub.myblog.it/2009/11/07/chip-taylor-yonkers-ny/ ), a partire dalla copertina che lo vede ritratto in una foto di quando era bambino assieme ai suoi due fratellini (cioè il famoso attore Jon Voight, e quindi Chip è anche lo zio di Angelina Jolie, e Barry Voight che è un famoso geologo e vulcanologo). Anche in questo disco Taylor ci delizia con una serie di ballate acustiche di rara intensità, alternandole con brevi racconti parlati nel suo tipico stile, accompagnato da pochi ma validissimi compagni di viaggio: oltre al fido Platania, abbiamo il bravissimo Goran Grini al piano ed organo (oltre che alla produzione) e un paio di bassisti che si alternano, Bill Troian e Grayson Walters, alcuni sporadici backing vocalist (tra cui i suoi nipoti) e nessuna batteria. Il disco si apre con Barry And Buffalo, una tipica canzone delle sue, in cui all’inizio Chip parla, accompagnandosi alla chitarra, in perfetto relax (ma a me, sarò parziale. piace pure quando parla), per poi infilare all’improvviso un ritornello cantato da brividi, complice anche il pianoforte di Grini. E poi anche le pause ed i sospiri del nostro fanno parte della struttura ritmica del brano. Bobby I Screwed Up è più canzone, Chip canta da subito (anche se quasi sussurrando), l’accompagnamento chitarristico è forte seppur acustico, e l’organo fornisce un prezioso background, mentre con Enlighten Yourself siamo ancora in pieno talkin’, anzi all’inizio Taylor parla proprio, come se raccontasse una storia (ci sono anche dei suoni di clacson!), poi comincia ad arpeggiare la chitarra ed introduce una melodia molto intensa, quindi ricomincia a parlare in fretta, e faccio fatica a stargli dietro, per poi finire ancora con la parte cantata, il tutto in maniera decisamente informale, ma non priva di fascino.

La title track è un altro talkin’, ma stavolta la musica non abbandona mai il brano, grazie anche ad un refrain semplice ma diretto e ad un bel connubio tra la chitarra di Platania e l’organo di Grini, risultando piacevole e raffinato. Refugee Children, anch’essa anticipata da una lunga introduzione parlata (strano!), è una toccante ballata nella quale viene fuori la particolare bravura del nostro nel creare grande pathos con solo chitarra, piano, basso e la sua voce profonda (sul finale c’è anche un coro di bambini, per una volta non fuori posto, visto l’argomento della canzone). St. Joan, dedicata a sua moglie, è un altro gran pezzo di cantautorato puro, tre strumenti in croce (ma che bel pianoforte), una voce calda ed un motivo semplice ma in grado di trasmettere grandi emozioni; Time Goes By e Book Of Hope proseguono sulla stessa linea, anzi sono ancora più lente ma forse, specie la seconda, ancora più struggenti. Il CD si chiude con una breve ripresa di Enlighten Yourself: in definitiva ancora un album davvero riuscito per Chip Taylor, un cantautore di quelli di cui hanno buttato via lo stampo.

Marco Verdi