Costa Tanto E Non E’ Inciso Benissimo, Ma C’è Duane E La Performance E’ Ottima! The Allman Brothers Band – Down In Texas ‘71

allman brothers band down in texas 1971

The Allman Brothers Band – Down In Texas ’71 – ABB Records CD

La Allman Brothers Band fa ormai parte da diversi anni di quella lunga schiera di gruppi la cui memoria viene discograficamente tenuta viva solo grazie a ristampe e pubblicazioni d’archivio, con proposte che, se dal punto di vista artistico sfiorano quasi sempre l’eccellenza, da quello del rapporto qualità/prezzo non sono sempre impeccabili. Il penultimo appuntamento con la grande band sudista era esplicativo di questa sorta di doppio binario, con un CD live splendido sotto ogni punto di vista (Erie, PA 7-19-05) ed un altro storicamente importante – l’ultima performance di Duane Allman – ma inciso come un bootleg di pessima qualità (The Final Note). Dagli archivi del gruppo è appena uscito un altro live, che si pone giusto a metà tra i due appena nominati, anche se forse siamo più dalle parti del secondo: intanto il CD è reperibile solo sul sito della band, con l’inconveniente per noi poveri italiani di dover spendere più di spedizione che per il disco stesso, e poi la qualità non è certamente perfetta, anche se stavolta non siamo ai livelli infimi di The Final Note, che era comunque un “audience recording”.

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Down In Texas ’71 (registrato al Municipal Auditorium di Austin il 28/09/71) arriva invece dal soundboard, ed alla fine si può giudicare più che accettabile visti i 50 anni che i nastri hanno sul groppone: inizialmente il sound va e viene, è un po’ zoppicante e c’è qualche passaggio a vuoto, ma poi il tutto si normalizza e complessivamente posso dire che alla fine ci si può dichiarare soddisfatti, anche e soprattutto per merito della qualità della performance dei nostri, che in quella serata texana di inizio autunno erano come si suol dire “on fire”. Stiamo infatti parlando del periodo classico della ABB, quando Duane era ancora saldamente nel gruppo e non sbagliavano uno show (dopotutto il mitico Live At Fillmore East, per chi scrive il miglior disco dal vivo di sempre, era stato registrato solo pochi mesi prima): la formazione era quella a sestetto, con Gregg Allman alla voce, piano ed organo, Duane e Dickey Betts (che all’epoca non cantava ancora) alle chitarre e la sezione ritmica formata da Berry Oakley al basso e dai due batteristi Butch Trucks e Jaimoe; in cinque pezzi come ospite interviene il sassofonista Rudolph “Juicy” Carter, anche se i suoi contributi sono quasi inudibili in quanto sepolti nel missaggio un po’ approssimativo.

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Si parte come al solito con Statesboro Blues (la scaletta gira e rigira è sempre la stessa): il suono all’inizio è un tantino fangoso ma migliora man mano che il brano prosegue, e Duane piazza subito un paio di assoli dei suoi con la sua splendida slide https://www.youtube.com/watch?v=7F9WP3fWslE ; giusto il tempo di riprendere fiato ed ecco Trouble No More di Muddy Waters con il classico riff ad introdurre la canzone (ed il sound che prima va e viene e poi si stabilizza), Gregg canta con grinta, la sezione ritmica macina che è un piacere e Betts fa sentire la voce della sua sei corde https://www.youtube.com/watch?v=oqxhrdiC6LI . Una vibrante Don’t Keep Me Wonderin’, dal ritmo spezzettato e con l’organo in evidenza, precede il doppio omaggio ad Elmore James con una breve ma fluida Done Somebody Wrong, con ficcanti assoli dei due axemen ben doppiati dal piano di Gregg, e con la mossa e coinvolgente One Way Out, gran ritmo e solita performance chitarristica davvero notevole e tutta da godere. Ed ecco arrivare i grossi calibri, a partire dalla classica In Memory Of Elizabeth Reed (nove minuti scarsi, ma la versione è incompleta anche se si è fatto di tutto per non far sentire troppo il “taglio” nel mezzo), con le sue tipiche sonorità calde ed il ritmo insinuante non distante da quello che proponevano i Santana in quel periodo, e con un Betts lirico ed ispiratissimo https://www.youtube.com/watch?v=xlBDRCsUTZw .

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Per proseguire con gli altri nove minuti di Stormy Monday (T-Bone Walker), uno slow blues sinuoso e reso ancora caldissimo dall’organo e con i due chitarristi che entrano in punta di piedi ma che non tardano a prendersi la canzone https://www.youtube.com/watch?v=kONF4AUz_Fc . E’ poi il momento del punto più alto del concerto, cioè il fantastico quarto d’ora della signature song di Willie Cobbs You Don’t Love Me, una vera e propria orgia sonora dal feeling formidabile, con i nostri in completa “modalità Fillmore East”, al punto che quindici minuti sembrano pure pochi https://www.youtube.com/watch?v=X_zCQCGv7FQ . Finale con Hot’Lanta, potente jam session con la fusione tra rock, blues e jazz tipica dell’inimitabile stile del gruppo di Macon. Un altro ottimo live dal passato della Allman Brothers Band (parlo della performance), anche se il costo alto e l’incisione piuttosto altalenante mi costringe a consigliarlo solo ai fedelissimi.

Marco Verdi

Le Loro Prime Registrazioni Dal Vivo, Di Nuovo Disponibili. Allman Brothers Band – Fillmore East, February 1970

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Allman Brothers Band – Fillmore East, February 1970 – Allman Brothers Band Recording Company

Il sottotitolo del CD recita “Bear’s Sonic Journals”, in quanto le registrazioni provengono dagli archivi della Owsley Stanley Foundation, dove vengono conservati soprattutto tutti i concerti che Owsley Stanley registrava per i Grateful Dead, in qualità di loro tecnico del suono ufficiale, ma anche di diversi altri gruppi che all’epoca avevano diviso i palchi con la band di Jerry Garcia. Sia per chi conosce il livello sonoro quasi “prodigioso” di molte di queste registrazioni d’epoca, sia in particolare per i fans degli Allman Brothers, questo Fillmore East, February 1970, non dico che rivesta la stessa importanza dei famosi concerti del marzo del 1971 ma è comunque un documento importante per tracciare lo sviluppo della band dei fratelli Allman, di Dickey Betts e di tutti i loro compagni di avventura, in quanto il sestetto sudista già in queste prime trasferte newyorchesi, sia pure nel “tempo limitato” come opening act di Love Grateful Dead, e benché l’album del momento Idlewild South non avesse venduto molto, comincia a farsi una grossa reputazione per i propri concerti e inizia ad inserire in repertorio alcuni brani che poi sarebbero divenuti futuri cavalli di battaglia assoluti delle esibizioni live, come ad esempio In Memory Of Elizabeth Reed, lo strumentale di Dickey Betts, che fa la sua prima apparizione discografica con questa registrazione.

Per i lettori più attenti ricordo che questo disco era già brevemente apparso negli anni ’90, con un altra copertina (che vedete più in basso), ma lo stesso contenuto, venduto direttamente dal merchandising degli ABB, e comunque non più disponibile da moltissimo tempo. Nella nuova versione il suono, già molto buono di per sé, è stato ulteriormente restaurato e masterizzato, nei limiti del possibile, dagli stessi tecnici che si occupano abitualmente dello smisurato archivio dei Dead. Si diceva di In Memory Of Elizabeth Reed che apre il CD, che contiene brani estrapolati da tre diverse esibizioni al Fillmore East dell’11,13 e 14 febbraio 1970. si tratta di una versione più “concisa”, solo 9 minuti e 22 secondi, tra le prime esecuzioni della canzone, e forse quella che si considera la prima in assoluto come data di registrazione: ebbene l’interplay tra le due soliste di Duane Allman Dickey Betts è già rodato da circa un anno di prove, concerti e lavori di studio, le due chitarre lavorano di fino, spesso all’unisono, con fare sinuoso e raffinato, supportate dall’organo di Gregg e dalla ritmica spettacolare, in questo splendido brano strumentale che rimane una delle vette supreme della loro arte, anche in questa versione più breve ma già perfettamente formata, dove l’arte dell’improvvisazione regna suprema.

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Anche il resto del concerto è molto buono, più “bluesato” e appena meno southern si potrebbe dire, con la voce di Gregg Allman che è più grezza e ruvida, anche aspra atratti, rispetto al timbro più rotondo che acquisirà già dai mesi successivi, ma forse è solo una mia impressione. Comunque nel complesso le versioni, che risultano magari più ruvide, meno rifinite, sono in ogni caso interessanti perché rapresentano la traiettoria dello sviluppo del loro sound, e lasciano intravedere che band spettacolare diventeranno, (ma già erano) gli Allman Brothers: il repertorio ha punti di contatto e differenze con il Live At Ludlow Garage registrato solo due mesi dopo in aprile. Hoochie Coochie Man è fiera e gagliarda, con Berry Oakley alla voce solista, per un blues dal repertorio di Muddy Waters solido e potente, mentre Statesboro Blues con il classico riff alla slide di Duane Allman è cantata comunque con impeto da Gregg, sia pure con questa voce che sembra più sforzata e meno ispirata, ma rimane un bel sentire. Trouble No More va di swingante groove e le chitarre si inseguono gagliarde e pungenti in questa composizione di McKinley Morganfield a.k.a. Muddy Waters.

I’m Gonna Move To The Outskirts Of Town è un vecchio blues degli anni ’30, un bellissimo slow di William Weldon, ma la rilettura degli Allman, come dicono loro stessi nella breve presentazione, si rifà alla versione di Ray Charles, con tanto “soul” questa volta nella voce di Gregg, brano dalle atmosfere ricche ed avvolgenti e di grande fascino, prima di travolgerci nuovamente con il classico riff ascendente di Whipping Post, dove però la voce mi sembra nuovamente troppo gutturale e sforzata, per il resto nulla da dire sugli affascinanti intrecci tra chitarre e organo sempre poderosi ed incalzanti, anche se ovviamente la versione da 23 minuti presente sul At Fillmore East originale rimane inarrivabile, e una delle due chitarre si sente un po’ in lontananza nello spettro sonoro. Per concludere la esibizione rimane una lunga, 30:46, ma non lunghissima, rilettura di Mountain Jam, lontana da quella lunghissima di 44 minuti presente nel concerto al Ludlow Garage e con diversi punti di contatto con quella riportata su Eat A Peach, meno spazio ai lunghi assoli di batteria, peraltro presenti e più spazio alle interminabili ma godibilissime jam tra chitarre e organo, che prendono lo spunto dalla First There Is A Mountain di Donovan e ci spediscono nella stratosfera della migliore musica rock: all’inizio Gregg annuncia modestamente “a little jam”, poi in effetti ognuno si prende tutti i giusti spazi a partire dalle due splendide soliste di Allman e Betts. Semplicemente grande musica.

Bruno Conti