La Conferma Di Una Delle Più Intriganti Band Americane A Guida Femminile. Native Harrow – Closeness

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Native Harrow – Closeness – Loose Records

Una delle più piacevoli sorprese dello scorso anno in ambito folk-rock e dintorni (e non solo, anche in generale) era stato l’album Happier Now dei Native Harrow, il primo con una distribuzione adeguata, dopo due dischi diciamo più autarchici, distribuiti in proprio https://discoclub.myblog.it/2019/07/18/un-duo-decisamente-interessante-lei-una-voce-affascinante-native-harrow-happier-now/ . Parliamo di gruppo, ma in effetti sono un duo, basato a New York, e che ruota soprattutto intorno alla bellissima voce di Devin Tuel, una autrice che rimanda a quella felice stagione dei cantanti folk fine anni ‘60, primi anni ‘70, che esploravano nuove strade sonore dove il folk si arricchiva di morbide derive rock e di arrangiamenti più complessi ed avventurosi.

La nostra amica aggiunge anche elementi attuali di certo alternative rock ed indie, quello più raffinato e ricercato: la Tuel si occupa di chitarre, elettriche ed acustiche, oltre che di “giocare” con la propria voce, che grazie alle possibilità delle tecniche di registrazioni viene spesso moltiplicata, frequentemente con risultati affascinanti, mentre il suo pard, coautore e co-produttore Stephen Harris, suona quasi tutto il resto, tastiere, basso elettrico ed acustico, oltre a molte altre chitarre, quasi a cascata, affidando l’uso della batteria ad Alex Hall, membro aggiunto, e ingegnere del suono, già presente nel precedente CD, e che suona anche vibrafono, percussioni ed altre tastiere, quindi il suono alla fine risulta molto ricco e spesso avvolgente.

Registrato come Happier Now in quel di Chicago tra fine 2019 e i primi giorni del 2020, quindi poco prima dell’avvento della pandemia, e permettendo alla band anche un piccolo tour prima dello stop alla musica live, Closeness si apre con la mossa e grintosa Shake, dove sulle ali di una chitarra elettrica fuzzy e mille altri strumenti si apprezza subito la vocalità calda e radiosa della Tuel che scalda il cuore dell’ascoltatore. The Dying Of Ages è molto anni ‘70, soffice e sinuosa, ma con una orecchiabilità che non è delitto di lesa maestà, bensì un pregio della musica dei Native Harrow, che cercano di non impegolarsi in un sound volutamente oscuro e troppo “moderno”, spesso senza costrutto, come ribadisce il folk più classico della dolce Smoke Burns, più intima e solenne, sempre con quella voce deliziosa e senza tempo in azione, c’è spazio anche per brani più ritmati ed immediati come Same Every Time, dove il suono di un Moog Synthesizer vintage e qualche breve citazione in francese aggiungono un fascino d’antan, mais oui. Carry On è del tutto degna delle migliori cose di Carole King e Laura Nyro, con retrogusti soul, piano e un organo filante, che fanno da apripista ad un bellissimo assolo della elettrica, il tutto che rimanda nuovamente ai gloriosi primi anni’70, con la voce celestiale di Devin in multitracking https://www.youtube.com/watch?v=d48A0HZXqbU .

If I Could addirittura vira verso un funky-folk ispirato dal sound di Bill Withers, con un approccio più bianco, ma sempre con la moltiplicazione dei ritmi e delle voci. In un album come questo non può mancare un chiaro accenno ad atmosfere jazzy, risolte nella notturna Turn Turn, dove vibrafono e organo rimandano anche allo stile felpato di Melody Gardot o di Rickie Lee Jones, bellissimo comunque; Even Peace, con il suo baroque pop potrebbe appartenere a qualche disco perduto di Judy Collins, o a una woman band, sempre la Tuel, che con le sue voci sovraincise ricorda i Mamas And Papas dei brani meno noti https://www.youtube.com/watch?v=cx_sNWHxBoI , e anche la squisita ballata pianistica Feeling Blue, ci rammenta le cantautrici che popolavano in quegli anni la West Coast (qualcuno ricorda la compianta Judee Sill, Wendy Waldman o la prima Carly Simon?), mentre per la conclusiva orchestrale Sun Queen, non possiamo non citare l’inglese Sandy Denny, oppure la “regina” assoluta Joni Mitchell, che aveva un timbro vocale diverso, ma in qualcuna delle sue diverse fasi ha sicuramente influenzato Devin Tuel, che aiutata dai suoi Native Harrow ci ha regalato un altro album di grande spessore e anche estrema piacevolezza.

Bruno Conti

Un Duo Decisamente Interessante, Lei Una Voce Affascinante. Native Harrow – Happier Now

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Native Harrow – Happier Now – Different Time Records/Loose Music

I Native Harrrow si presentano come un gruppo, ma come lascia intuire la foto di copertina di questo Happier Time, il “loro” terzo album, che ritrae le gentili e delicate fattezze di Devin Tuel, in effetti si tratta principalmente della creatura di questa musicista dell’area newyorchese, benché abilmente supportata dal membro maschile del gruppo, che c’è e risponde al nome di Stephen Harms, il quale suona tutti gli strumenti, chitarre, tastiere, basso e batteria, lasciando a Devin “solo” la composizione dei brani, la voce solista e una chitarra acustica, che sono poi forse le componenti essenziali di questo sodalizio artistico. La prima cosa che balza all’occhio, anzi all’orecchio, è la bellissima voce della Tuel, non quelle vocettine sospirose che spesso vengono identificate con questo tipo di neo folk alternativo, quanto una cantante affascinante, con un timbro corposo e dalle sofisticate nuances sonore, che se non pareggiano quelle di Joni Mitchell o Sandy Denny (e ce ne vuole) comunque si muovono su quelle coordinate folk-rock anni ’70, che intersecano anche le sonorità dei Fairport Convention o di Nick Drake.

Tutte citazioni e rimandi che ci stanno, ma forse caricano di aspettative eccessive, sia gli ascoltatori, che la comunque brava Devin Tuel, una che da giovane voleva diventare una ballerina classica, poi ha studiato da cantante d’opera, ha passato un momento in cui avrebbe voluto essere Patti Smith, prima di ritirarsi nel suo appartamento al Greenwich Village a New York e, sotto il nome d’arte di Native Harrow,  approdare a questo terzo album, registrato in quel di Chicago ai Reliable Recorders Studios, con la co-produzione di Alex Hall (JD McPherson, The Cactus Blossoms, Pokey LaFarge), album che conferma le buone impressioni dei primi due e contiene tutte le indicazioni ed i rimandi ricordati finora. Il disco in effetti è già uscito da Aprile negli States (e per il download è comunque disponibile), con la stessa distribuzione indipendente dei primi due, ma in Europa, tramite l’etichetta Loose, vedrà una circolazione più curata dai primi di agosto: l’iniziale Can’t Go On Like This, pervasa nel testo dalla puntura della precarietà, musicalmente illustra subito questo suono ricco e ricercato, percorso dalla vocalità sicura e ricca di sfumature della Tuel, deliziosa e sinuosa nel suo approccio, mentre chitarre e tastiere e una ritmica basica, ma comunque presente, avvolgono questo fascinoso strumento che è appunto la sua voce, attraverso un folk-rock vibrante e delizioso, che poi sfocia in How You Do Things, che è il brano più vicino alla Joni Mitchell del periodo Court And Spark, malinconica ma assertiva.

Blue Canyon è un omaggio a quella California immaginata, ma forse mai vissuta, un brano acustico, sognante e intimo, che mi ha ricordato certe cose di Nick Drake, sempre per quella melancolia di fondo che si respira nella canzone; e anche se Happier Now, nonostante il titolo, non trasuda felicità, è comunque un altro bell’esempio della musica soffice e delicata, ma complessa, che si respira negli arrangiamenti raffinati dei Native Harrow, sempre con quella deliziosa voce a galleggiare leggiadra, anche con qualche acrobazia vocale appena accennata. Hard To Take è quella che più si ispira al Van Morrison dei primi tempi, con qualche retrogusto à la Ryley Walker, pur se l’approccio è comunque tipico di una unicità femminile, con Something You Have, che, grazie al bellissimo suono vintage di un organo Hammond, rimanda magari alla Band o alla musicalità più influenzata dal soul di una Laura Nyro meno infervorata.

Arc Iris è più elettrica e mossa, con strati di voci sovraincise e una maggiore urgenza nell’approccio sonoro, grazie alla solista di Harms più presente, mentre Hang Me Out To Dry, dal titolo ironico, con la sua chitarra acustica arpeggiata e un cantato più laconico, ha sempre quelle improvvise aperture “mitchelliane” a nobilitarlo, ed è un altro eccellente esempio della vocalità di Devin, che poi si estrinseca al massimo nella lunga e conclusiva Way To Light, una sorta di fantasia agra ed ironica sulla ricerca di una sontuosa ed ipotetica stabilità, brano che secondo alcuni ricorda il giro musicale di Dear Prudence dei Beatles, ma poi nel calderone sonoro introduce anche una ricorrente e pungente slide che punteggia i crescendo sonori e vocali di questo complesso ed articolato brano, uno tra i più interessanti di questa nuova e valida proposta da inserire nel filone folk-rock e tra i nomi da ricordare.

Bruno Conti