Uno Dei “Maghi Bianchi” Delle Tastiere Blues E Dintorni Colpisce Ancora. Barry Goldberg – In The Groove

barry goldberg in the groove

Barry Goldberg – In The Groove – Great American Music/Sunset Boulevard Records

Barry Goldberg, 75 anni da Chicago e una carriera che ormai supera le sei decadi, non ha ancora deciso di appendere il suo strumento al chiodo: anche perché essendo un pianista/organista sarebbe piuttosto pericoloso farlo, e quindi prosegue con moderazione a pubblicare nuovi dischi. A volere essere onesti era almeno una dozzina di anni, da Chicago Blues Union del 2006, che non ne usciva uno a nome suo, vecchie registrazioni d’archivio degli anni ’60, per cui l’ultimo vero album deve essere considerato Stoned Again, pubblicato dalla Antone’s nel 2002. Nel frattempo Goldberg ha partecipato al progetto dei Rides, con Stephen Stills e Kenny Wayne Shepherd, autori di due ottimi album tra il 2013 e il 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/05/12/ci-hanno-preso-gustoe-pure-noi-the-rides-pierced-arrow/ .Tornando al disco del 2002, era prodotto da Carla Olson, con la partecipazione di alcuni ottimi musicisti, tra cui Don Heffington alla batteria e Denny Freeman alla solista, che ritroviamo anche in questo nuovo In The Groove (titolo quanto mai esplicativo), insieme ad una pattuglia di nuovi ospiti, tra cui il grande Les McCann che firma con Goldberg l’iniziale Guess I Had Enough Of You, l’unico brano che prevede la presenza della voce, dello stesso MCann, che gigioneggia esortando il nostro Barry e gli altri musicisti a “funkeggiare” alla grande, con Rob Stone all’armonica e Victor Bisetti alle percussioni.

Altra differenza evidente con il disco del 2002, sempre rigorosamente strumentale, esclusa la prima traccia anche in quel caso, era che allora si trattava interamente di cover legate al repertorio degli Stones, mentre in questo caso Il buon Barry ha scritto alcuni brani per l’occasione, per il resto andando a pescare in una serie di oscuri strumentali  degli anni ’50 e ’60, molto groove appunto, easy jazz, rock (and roll) delle origini, qualche botta di jump, di blues, in ogni caso music for fun, per divertirsi tra loro e per regalare all’ascoltatore buone vibrazioni. Per fare ciò, il musicista di Chicago e la Olson hanno chiamato alla bisogna una notevole serie di ospiti: oltre a Tony Marsico al basso, che completa la band fissa dell’album, Joe Sublett e Darrell Leonard ai fiati, James Intveld, Jerry Lee Schell alle chitarre aggiunte e Reggie McBride al basso, nel pezzo più funky-jazz e raffinato del CD, In The Groove appunto, dove Goldberg carezza la tastiera del suo organo Hammond B3, ben sostenuto dai fiati e dal vibrafono di Craig Fundyga. Lo stile del pezzo , e di tutto il CD, è proprio quello dei dischi di Les McCann, intervenuto all’inizio per dare la propria benedizione, ma ci sono anche momenti decisamente più blues, che rimandano ai suoi dischi anni ’60, tipo Two Jews Blues https://www.youtube.com/watch?v=CWPRqsLEi_0  o Barry Goldberg And Friends, ma pure le sue collaborazioni con gli Electric Flag insieme a Mike Bloomfield, suono felpato e bluesy come in Mighty Low o nella breve cover finale di Alberta di Lead Belly, dove il nostro passa al piano.

Altrove, per esempio in Mighty Mezz, il sound è più vorticoso tra jazz e R&B, o carezzevole come in Westside Girl dove le tastiere di Goldberg interagiscono ancora con fiati e vibrafono. Dumplin’s è più leggera e scanzonata, assolo di sax di Sublett incluso, e rimanda al suono pre-rock di moda in quello squarcio temporale; Ghosts In My Basement, con tutti quei chitarristi a disposizione nelle sessioni di registrazione, è il classico slow blues tirato e lancinante, con Rob Stone all’armonica, come quelli dei tempi con Bloomfield https://www.youtube.com/watch?v=N15HwO76jb8  , per poi tornare a cazzeggiare a tempo di boogie in Bullwhip Rock, con il piano che va a manetta insieme alla chitarra di Intveld. Lazy ha qualche tocco twangy, ma l’organo va sempre alla grande e pure Tall Cool One conserva l’aria spensierata di questo album, che se come obiettivo aveva quello di divertire, ci è riuscito, come conferma anche Slow Walk. Niente per cui stracciarsi le vesti, ma l’occasione di ascoltare ancora una volta un tastierista sopraffino, e i suoi amici, in azione.

Bruno Conti

La (Non Poi Così Tanto) Strana Coppia Funziona Alla Grande! Dave Alvin & Jimmie Dale Gilmore – Downey To Lubbock

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Dave Alvin & Jimmie Dale Gilmore – Downey To Lubbock – Yep Roc CD

Devo confessare di non essere mai stato un grande fan di Jimmie Dale Gilmore, avendolo sempre considerato un personaggio di seconda fascia, forse anche terza. Uno che ha pubblicato appena otto album in trent’anni, nessuno dei quali imprescindibile, ed il progetto migliore in cui è stato coinvolto è quello del super trio dei Flatlanders, ma grazie soprattutto al contributo degli altri due membri, Joe Ely e Butch Hancock; in più, non ho mai sopportato molto la sua voce, a mio giudizio troppo sdolcinata e mielosa. Difficilmente mi sarei quindi avvicinato a questo disco se non fosse stato per la presenza di Dave Alvin, uno che invece non ha mai sbagliato un disco, sia con i Blasters che da solo (e tralascio tutti i progetti collaterali a cui ha partecipato, tipo Knitters e Pleasure Barons). Entrambi erano fermi dal 2011 in quanto ad album solisti https://discoclub.myblog.it/2011/07/04/elementare-watson-undici-album-undici-canzoni-dave-alvin-ele/  (ma nel frattempo Dave ha pubblicato due ottimi lavori con il fratello Phil), e questo Downey To Lubbock (dal nome delle città di origine dei due) è nato quasi per caso, pare su sollecitazione del presidente della Yep Roc, Glenn Dicker. E l’intuizione è stata giusta: Downey To Lubbock è un gran bel disco, un album in cui Dave e Jimmie ripropongono in maniera scintillante diversi brani del passato, con qualche decennio alle spalle fino a quasi un secolo, aggiungendo due brani scritti per l’occasione.

Non è la prima volta che Alvin si dedica al recupero di canzoni che appartengono alla storia della musica americana, lo aveva già fatto con Public Domain per quanto riguarda la tradizione e con West Of The West, nel quale si rivolgeva ad autori californiani contemporanei, ed anche nel primo dei due lavori in duo con Phil, Common Ground, che vedeva riprese alcune canzoni di Big Bill Broonzy. E Dave è stato il motore che ha dato il via a Downey To Lubbock, ha scelto le canzoni, ha portato in session musicisti a lui affezionati (tra cui nomi noti come Don Heffington, David Carpenter, la batterista delle Guilty Women, Lisa Pankratz, il bravissimo pianista Skip Edwards, ed in più una mezza leggenda come Van Dyke Parks) e ha arrangiato i brani con un taglio moderno, con una concezione simile a quella dell’ultimo Ry Cooder, anche se musicalmente siamo su livelli differenti. Gilmore si è “limitato” a cantare e a suonare la chitarra, ma devo dire che, pur non essendo diventato di colpo un suo estimatore, ho maggiormente apprezzato in questo disco la sua voce, in quanto invecchiando il suo timbro è migliorato e ha acquistato profondità, almeno a parer mio. Non siamo di fronte ad un disco di duetti, che non mancano comunque, ma spesso canta uno solo dei due e l’altro si occupa delle armonie: quello che però più importa, è che siamo di fronte ad un album di livello eccelso, con i nostri in gran forma e con un affiatamento difficile da prevedere se pensiamo che fino a non molto tempo fa i due si conoscevano appena.

Il CD inizia con la title track, canzone nuova di zecca scritta dalla coppia, un brano decisamente elettrico, un boogie-blues sanguigno e viscerale, forse nulla di nuovo dal punto di vista del songwriting ma suonato alla grande, con un ottimo intervento di Gilmore all’armonica e soprattutto un sensazionale assolo chitarristico di Alvin. Silverlake è una deliziosa ballata di Steve Young, suonata con classe e quasi in punta di dita: la voce di Jimmie Dale qui è perfetta, più vissuta di come la ricordavo, la melodia è splendida di suo, e come ciliegina abbiamo la fisarmonica di Parks ed i soliti, sontuosi ricami di Dave. Stealin’ Stealin’, brano degli anni venti del secolo scorso della Memphis Jug Band (ma l’hanno rifatta in mille, tra cui i Grateful Dead e Bob Dylan) è un blues elettroacustico coinvolgente e di grande presa, con le due voci che si intendono alla perfezione ed un arrangiamento che, pur rimanendo ancorato alla tradizione, dona freschezza ad un brano vecchio di un secolo; July, You’re A Woman, di John Stewart, è un’altra stupenda canzone di puro cantautorato: versione classica, ariosa (canta solo Alvin), calda e di grande pathos, specie nel ritornello corale. Buddy Brown’s Blues è una grandiosa versione di un blues reso popolare da Lightnin’ Hopkins, che parte acustica ma la band entra quasi subito: rilettura fluida e potente, con grandi interventi di sax (Jeff Turmes) e del piano di Edwards, con l’unica nota leggermente stonata della voce di Gilmore, forse non adattissima al blues.

The Gardens, cantata da Dave, è a mio giudizio il capolavoro del disco, una meravigliosa ballata in puro stile tex-mex, scritta dallo scomparso Chris Gaffney, sul genere di classici come Across The Borderline e She Never Spoke Spanish To Me, davvero splendida, una delle cover dell’anno. Abbiamo quindi tre classici in fila, tratti da un passato più o meno remoto: la famosa Get Together, scritta da Chet Powers (cioè Dino Valenti) ma portata al successo dagli Youngbloods, altra grande canzone ed altra versione bellissima, chitarristica e con uno strepitoso refrain a due voci, l’antico blues K.C. Moan, eseguito in maniera piuttosto canonica (ma Dave rilascia un paio di assoli torcibudella), ed il rock’n’roll Lawdy Miss Clawdy di Lloyd Price, in una festosa rilettura “alla Blasters”, ancora con l’ottimo piano di Edwards in evidenza (ed Alvin alla chitarra non lo dico nemmeno più). Billy The Kid And Geronimo, scritta da Dave, è una folk ballad tipica delle sue, cantata con voce calda e con un accompagnamento soffuso e di grande intensità, ed anche la parte vocale di Jimmie fa la sua bella figura; Deportee (Plane Wreck At Los Gatos) di Woody Guthrie non ha bisogno di presentazioni, è una delle più belle canzoni americane di sempre, ed i nostri la rifanno in maniera toccante, dandoci un altro highlight del CD (anche se avrei preferito la cantasse Alvin). Chiusura con un altro pezzo che ha diversi anni sul groppone: Walk On, di Brownie McGhee, in una scintillante versione tra rock’n’roll e gospel, con ancora Edwards grande protagonista.

Non trascurate questo Downey To Lubbock: siamo forse di fronte alla cosa migliore della carriera di Jimmie Dale Gilmore, mentre per Dave Alvin essere a questi livelli è “business as usual”.

Marco Verdi