Piccoli Tesori Riemergono! Paul Butterfield’s Better Days – Live At Winterland Ballroom

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Paul Butterfield’s Better Days – Live At Winterland Ballroom – Wounded Bird

Paul Butterfield ha fronteggiato due grandi band nel corso della sua esistenza (1945-1987). La Butterfield Blues Band, che ha gli ha dato gloria imperitura, soprattutto con quella formazione dove le evoluzioni di Mike Bloomfield ed Elvin Bishop (ma anche Mark Naftalin e lo stesso Butterfield erano solisti di grandi spessore) sono state tra le più “avventurose” mai concepite nella storia del blues moderno, soprattutto nei primi due album, l’omonimo e il magnifico East West https://www.youtube.com/watch?v=NulCT6ZPXzU , meno nei dischi successivi, senza più Bloomfield, con Bishop e Naftalin che venivano affiancati da una sezione fiati dove spiccava il giovane David Sanborn, ancora bene in The Resurrection Of Pigboy Crabshaw, meno nei due successivi, e con il colpo di coda della esibizione al Woodstock Festival. Meno celebrata è la vicenda dei Better Days, altra grande band, che pubblicò solo due dischi, entrambi per la Bearsville, tra il 1972 e il 1973, prima di sciogliersi.

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Però fecero in tempo a registrare questo strepitoso concerto il 23 febbraio del 1973 al Winterland Ballroom di San Francisco. Edito una prima volta in CD nel 1999, solo per il mercato giapponese su etichetta Victor (anche se al sottoscritto pare di ricordare che uscì anche per la Bearsville/Rhino, ma magari mi sbaglio) con note originali firmate da Geoff Muldaur, uno dei due chitarristi, che ricorda Butterfield e il bravissimo pianista/organista di New Orleans Ronnie Barron, entrambi scomparsi, rispettivamente negli anni ’80 e ’90. A completare la formazione c’erano Amos Garrett, l’altro chitarrista, uno dei più grandi stilisti dello strumento in ambito rock e blues, Bill Rich, che era stato il bassista di Taj Mahal e Chris Parker alla batteria, altro vecchio marpione della musica, che ai tempi aveva già suonato con Bonnie Raitt e Don McLean. E tutto questo senza dimenticare la presenza di Paul Butterfield, forse il più grande armonicista bianco del Blues, o comunque uno dei più grandi, spesso paragonato a Big Walter Horton, ma senza mai considerarlo un mero imitatore.

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Il resto lo fa un repertorio scintillante e quello che otteniamo è un eccellente concerto, che si apre con una Countryide dove Paul sale subito al proscenio con la sua armonica per poi lasciare spazio alla chitarra di Muldaur e alla slide di Garrett, che si intrecciano all’organo di Barron, con un risultato che sfiora i migliori Little Feat dell’epoca, anche grazie alla strepitosa sezione ritmica che ha un drive micidiale, Butterfield rinviene più forte che prima nel finale. Buried Alive In The Blues è un classico di Chicago Blues, scritto da Nick Gravenites, ma qui grazie al pianino di Barron e all’attitudine deep south della band assume connotazioni quasi New Orleans, con i vari musicisti che si scambiano il ruolo di voce solista. Small Town Talk è quella bellissima ballata, scritta da Rick Danko e Bobby Charles, per il disco omonimo di quest’ultimo, qui ripresa in una versione delicata e coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=-YgJvTolJV0 , con le tastiere e l’armonica che si sfiorano senza mai collidere, mentre Garrett prosegue il suo lavoro di fine cesellatore della chitarra (in quegli anni lo si poteva trovare nei dischi di Geoff e Maria Muldaur, Jesse Winchester, Karen Dalton, Todd Rundgren, anche nel primo di Garcia).

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New Walkin’ Blues la riconosci subito, uno dei classici di Robert Johnson, qui in una versione elettrica e vibrante, con entrambe le chitarre a sfidarsi in un duello che cerca di riproporre, in parte riuscendoci, quelli della vecchia Butterfield Blues Band o del Taj Mahal, magari con Cooder e Jesse Ed Davis, di pochi anni prima https://www.youtube.com/watch?v=km6JPmQAglI . Spazio per Barron, che propone la sua Broke My Baby’s Heart, una costruzione sonora che deve in pari misura al New Orleans soul quanto al blues classico, con una notevole interpretazione dello stesso Barron, ricca di passione, grinta e feeling, come nella migliore musica della Crescent City https://www.youtube.com/watch?v=PCXUjRqLLWs .Highway 28 di Ron Hicks, potrebbe quasi ricordare le scorribande più vicine al rock della Band, con tutta il gruppo, ed in particolare la sezione ritmica, libera di improvvisare. Gran classe anche in una versione in punta di dita del grande classico di Percy Mayfield, Please Send Me Someone To Love, che è sempre un bel sentire, soprattutto un “magico” Amos Garrett.

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Ma il centrepiece del disco e del concerto è una versione monstre di quasi 15 minuti di He’s Got All The Whiskey, un’altra composizione di Bobby Charles, nella cui versione di studio suonavano proprio i Better Days https://www.youtube.com/watch?v=5B7iSQAXGZo , qui liberi di improvvisare in modo stupendo, ancora vicini alle evoluzioni che in quel periodo si potevano ascoltare solo dai migliori Little Feat o dalla Band, con Barron, Garrett, Muldaur e Butterfield, grandissimo quest’ultimo, che gigioneggiano e giganteggiano, se mi passate il bisticcio, con una classe e una passione irrefrenabili. E non è ancora finita, manca una Nobody’s Fault But Mine, attribuita a Nina Simone, ma qui in una versione blues/gospel, elettrica e di grande intensità, a concludere una serata unica per una grande formazione che il tempo ha dimenticato https://www.youtube.com/watch?v=Fwh4ZQAFe9Q . Semplicemente bella musica!

Bruno Conti

IL Ritorno Della Appaloosa, Tra Ballads e “Blues And Moonbeams On The Menu” Con Luciano Federighi!

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Luciano Federighi – Blues And Moonbeams On The Menu – Appaloosa/IRD

Più o meno un anno fa se ne andava Franco Ratti, ma quasi per un destino ineluttabile la sua creatura preferita, la Appaloosa Records, rinasce attraverso il lavoro di suo cugino, Simone Veronelli, che co-produce e distribuisce questo nuovo album. Quindi l’etichetta del “cavallo selvaggio”  riprende il suo ultratrentennale percorso con un disco, questo Blues And Moonbeans On The Menu, che è opera di un artista inequivocabilmente italiano, e il cognome lo tradisce, ma gli intenti e la musica, come la voce, sono da bluesman, anzi da jazzista, anzi tutti i due.

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Se vi venisse proposto un blind test (come ho fatto con alcuni amici), sarebbe difficile non scambiare la voce di Luciano Federighi per quella di un qualche cantante americano di musica nera, un veterano di lungo corso, quale in effetti è, un “italiano per caso”, come mi piace chiamare questi musicisti appassionati dei suoni che vengono dall’altra parte dell’oceano. E in effetti, nelle sue molteplici attività di scrittore, giornalista (soprattutto con Musica Jazz, ma mi pare abbia anche scritto per il Buscadero), curatore di programmi radiofonici, collaboratore di vari Festival, tra cui il mitico Sweet Soul Music e tante altre attività, Federighi, nativo di Pisa ma viareggino a tutti gli effetti, con una laurea in letteratura angloamericana, ha anche insegnato alla università di Davis in California e ha girato in lungo e in largo gli Stati Uniti per inseguire la sua passione per il blues, il soul e il jazz e già dagli anni ’70 (perché come si intuisce dalle foto, non è un giovane di belle speranze) si esibiva, come tastierista/sassofonista ma anche cantante, con le prime formazioni blues italiane.

Il jazz ha sempre avuto una lunga tradizione sui nostri lidi, fin dai tempi del fascismo, come potrebbe ricordarvi in qualche suo dotto saggio il “collega” appassionato, ma qui lo valutiamo (si fa per dire) come cantante e anche in questa professione la militanza è lunga, con molti dischi all’attivo, soprattutto in ambito jazzistico. Questo nuovo lavoro viene presentato come un album di blues ma in effetti lo si potrebbe definire un disco di “Ballads and Blues”, come indica la prima parte del titolo, che è in comune con un famoso album di Bill Evans, ma il repertorio che si ispira al lavoro di gente come Percy Mayfield, a cui è dedicato il primo brano A Talk With The Blues, di Nat King Cole, ma anche del grande Otis Redding, che è un pallino di Luciano e di molti altri grandi cantanti e musicisti di musica nera (ho dimenticato Charles Brown?).

I brani se li scrive lui, con poche eccezioni, se li canta, con una profonda e calda voce baritonale, li suona con un trio chitarra, Tiziano Montaresi, basso, Mirco Capecchi e piano, Andrea Garibaldi. Si fa aiutare da qualche ospite, come la brava cantante Michela Lombardi, dalla voce pimpante e birichina, in un paio di medley, Summer Medley e Moon Medley (con citazione di Blue Moon nel finale), che se non insidiano quelli di Ella & Louis, sono nondimeno molto piacevoli e godibili. In alcuni brani appare l’armonica di Lou Faithlines (dovrebbe essere Henry Schiowitz sotto mentite spoglie) e, spesso, ancora Davide Dal Pozzolo che si divide tra sax alto, tenore e soprano e clarinetto e alto clarinetto, con ottimi risultati.

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Risultati che sfociano in quelli dei “classici” che spesso vengono citati, con rispetto e amore, dai musicisti che suonano nel disco: raffinati e complessi come nell’iniziale e già citata A Talk With Blues, sbarazzini come nei due medleys (con la s, plurale, come direbbe Arbore) o I’ve Seen Old Granny Walkin’ Down The Road, malinconici come nelle ballads, Is That All is Left Of A Kiss, Chelsea On A Winter Night, It’s All So Good, but This Is Better, ironici e divertiti come in The Story Of A Writer Who Never Wrote A Single Line, addirittura notturni come da titolo, in Beyond The Night e I Walk The Night, scritti in compagnia del chitarrista Montaresi, con l’argomento della notte che ricorre spesso nei brani contenuti in questo CD fin dal titolo, con i suoi “raggi di luna” che si accoppiano con il Blues. Non so se è un offesa (ma non credo) o un complimento: non sembrano nemmeno italiani, tanto sono bravi. Lo so, ci sono tantissimi musicisti italiani bravi in giro, basta saperlo. Ora potete aggiungerne un altro, caldamente consigliato, per ampliare gli orizzonti.

Bruno Conti  

Quattro Professionisti Al Lavoro! 4Jacks – Deal With It

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4Jacks – Deal With It – Eller Soul Records

I “4 Fanti” in questione sono in effetti alcuni tra i più bravi musicisti diciamo del Blues minore, un piccolo supergruppo (con la s minuscola) di veterani della scena musicale texana, il più “famoso”, Anson Funderburgh, per i casi della vita, è nato in un paesino del Texas che si chiama Piano, ma poi il destino ha voluto che diventasse uno dei migliori chitarristi della scena blues bianca dello stato della stella solitaria, con molti album a suo nome ma anche innumerevoli collaborazioni a dischi di amici e colleghi, ricordiamo il sodalizio con Sam Myers. Quelli che lo affiancano in questo Deal With It, secondo alcuni, con le loro iniziali costituiscono il patronimico del gruppo (ma manca la C vi avviso subito): Big Joe Maher, il batterista e cantante della band, nonché leader di Big Joe And Dynaflows, che non frequentavo per lavoro da anni (recensioni ovviamente), anche se continua a fare dischi con quel nome, è la J, naturalmente la A è quella di Anson, la K deriva da Kevin McKendree, pianista e organista, produttore pure (anche del disco in questione), mentre la S sta per Steve Mackey, bassista di valore e produttore, ma non per l’occasione, che ha suonato in miliardi di dischi, di country soprattutto ma se la cava egregiamente con le 12 battute.

Non vi sto a citare tutte le collaborazioni dei soggetti in questione perché sarebbe un elenco da pagine gialle, altro soggetto in via di estinzione, ma sono veramente numerosissime e data per eliminata la C, l’hanno sbarrata anche loro sulla copertina del CD (chi sarà stato?), veniamo a questo album, che fin dalla copertina, con i quattro Jacks che campeggiano sotto la scritta Stereophonic Sound, ci riporta ad un sound tipicamente anni ’60, quando il suono era analogico e la stereofonia era ancora una invenzione recente (c’è anche un gruppo giapponese con lo stesso nome, se girate su YouTube trovate decine dei loro video).

Quindi trattasi di disco per “specialisti”, del Blues e di quanto gli gira attorno, volumi volutamente moderati, arrangiamenti sobri e lontani dal rock-blues più duro, molto piano e organo a duettare con la solista di Funderburgh, una ritmica mossa ma anche canonica nei suoi approcci e un cantante come Big Joe Maher che ha la tipica voce da bluesman provetto ma che tiene il ritmo con gusto e vivacità oltre ad essere l’autore (con qualche aiuto dagli altri) di ben nove dei dodici brani contenuti nel CD.  C’è una piacevole presenza di brani strumentali, tre per la precisione, firmati coralmente dalla band, l’iniziale title-track, la mossa Texas Twister e la super funky Painkiller che potrebbe venire da qualche vecchio vinile dei Meters o di Booker T & The Mg’s. Ricca di funkytudine è anche la cover della classica I Don’t Want To Be President di Percy Mayfield, percorsa dalle stilettate della solista di Funderburgh e cantata con grande aplomb da Maher che si diverte, con i suoi soci, anche nel divertente boogie di Ansonmypants con doppia tastiera della famiglia McKendree che attende l’arrivo del citato Anson.

Your Turn To Cry è il classico slow blues d’ordinanza scritto da Deadric Malone (ovvero Don Robey), uno che di questi brani ne ha scritti a decine perché probabilmente li viveva, almeno secondo i ricordi di Jerry Leiber della famosa coppia Leiber & Stoller, che ne parla come di una sorta di gangster che spesso si appropriava delle canzoni dei suoi assistiti e poi le pubblicava a nome proprio. La versione più famosa di questo brano è forse quella di Otis Rush. Ricca di vigore e cantata con grande passione da Big Joe Maher anche una ottima Thunder And Lightning. Altra cover, la terza e ultima e altro blues lento ad alta gradazione per Bad News Baby scritta da tale L. Cadden che ammetto di non avere mai sentito nominare, ma questo non mi impedisce di apprezzare il brano, costruito ottimamente sull’interazione tra la chitarra di Funderburgh, il piano di McKendree e la voce di Maher, come un po’ in tutto l’album che si lascia ascoltare con grande piacere. Dischi così ce ne sono in giro molti ma sono pur sempre 4 Professionisti al lavoro!

Bruno Conti    

Sono Solo In Due Ma… Ann Rabson With Bob Margolin – Not Alone

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Ann Rabson W/Bob Margolin – Not Alone – Vizztone

Il nome forse non è conosciuto da moltissimi, ma Ann Rabson è una veterana della scena Blues, dal 1987 leader e fondatrice della band Saffire – the Uppity Blues Women, un trio acustico di musiciste nere dell’area di Washington, DC che poi furono messe sotto contratto dall’Alligator nel 1990 e per una decina di anni sono state una delle formazioni più interessanti nell’ambito del blues tradizionale, con un ultimo album, Havin’ The Last Word, pubblicato nel 2009, dopo una pausa discografica di una decina di anni, e che ha segnato lo scioglimento definitivo del gruppo. Non casualmente, la prima uscita delle Saffire, una cassetta autogestita uscita nel 1987, si chiamava Middle Age Blues, in quanto Ann Rabson all’epoca dell’esordio aveva 42 anni (una cosa comunissima per i bluesmen neri in generale). Lo stile del gruppo ha sempre conglobato blues ma anche barrelhouse, perché la Rabson è un’ottima pianista(nelle Saffire,  anche chitarrista), gospel, soul e tutte le musiche collegate, con tocchi di boogie-woogie e pre-war blues, facendo avvicinare il suo stile a quello di Bonnie Raitt e soprattutto Rory Block. Ann Rabson ha registrato anche tre album solisti, nel corso degli anni 2000, e in questo nuovo Not Alone, si presenta in compagnia di Bob Margolin, altro musicista che vive a pane e Blues.

Come ci ricorda lei stessa nelle note dell’album, la gente spesso pensa che il blues sia sempre e comunque una musica triste, ma questo, secondo, il suo ragionamento, non dovrebbe essere vero in ogni caso. Però poi si incarta un po’ su sé stessa, dicendo che però, in questo disco, che doveva raccogliere materiale felice, anche cattivo (nasty) e in grado di sollevare l’animo dell’ascoltatore, ci sono molti brani che sono, in effetti, tristi. E allora, diciamolo, brani come Guess I’m A Fool di Memphis Slim, uno dei rari cantati da Margolin, ma anche la stessa Let’s Got Get Stoned, un celebre e bellissimo brano di Ashford & Simpson che hanno cantato in mille, a partire da Joe Cocker e Ray Charles, tanto per citare due “minori”, la nostra amica Ann dice che ha un testo piuttosto triste (ma la melodia è ultra accattivante). Anche How Long Blues, il classico di Leroy Carr non è allegrissima, ma al di là degli stati d’animo della musica blues, che fin dal nome non evoca tarantelle, pizze e mandolini, il disco della Rabson ci permette di gustare una cantante ancora nel pieno della sua potenza vocale, con un timbro forte e sicuro, che risalta in molti classici del genere, dal gospel blues di I’m Going To Live The Life I Sing About In My Song, più una dichiarazione d’intenti che un titolo, dove l’accoppiata del piano con la chitarra elettrica di Margolin dona uno splendore malinconico alla maestosa vocalità di Ann.

Oltre che “stoned” in Let’s Get Drunk and Truck si assaporano altre euforie, quasi a tempo di old time blues jazzato anni ’20 e nella citata How Long Blues si tocca il piano blues più classico e tradizionale, rigoroso ma di gran classe grazie alla bella voce della Rabson, Bob Margolin canta in modo adeguato il secondo verso ma non c’è paragone (con tutta la simpatia per il grande Bob, una vita nel blues), tra i due interpreti a livello vocale. In Ain’t Love Margolin si cimenta anche alla slide mentre Ann eccelle al piano e alla voce. Guess I’m A Fool è affidata a Margolin che pur essendo il “with” del disco, si ritaglia alcuni spazi solisti nell’album. Caledonia, a tempo di boogie, ci permette di apprezzare le capacità strumentali di entrambi ma soprattutto della Rabson, che come detto, oltre che notevole cantante, è una brava pianista. Uno dei due brani diciamo “contemporanei” è firmata dallo stesso Margolin che la canta anche, Let It Go, mentre No Time For The Blues è firmata da quella EG Kight, spesso ricordata su queste pagine virtuali e che fa parte di quella scuola di vocalist che oltre alla Raitt e alla Block, annovera tra le sue fila anche Kelley Hunt e la stessa Susan Tedeschi. Is You Is Or Is You Aint My Baby è un brano di uno dei re del divertimento, Louis Jordan, mentre la conclusiva River’s Invitation è una bellissima canzone di Percy Mayfield che consente a Margolin di dare un consistente contributo anche a livello vocale, oltre che con la sua slide insinuante. Rimane la divertente Anywhere You Go di Roy BookBinder e possiamo fare calare il sipario su questo piacevole Not Alone, forse indirizzato soprattutto agli”specialisti” del settore Blues, ma che ha una sua varietà di fondo che lo può fare apprezzare un po’ da tutti, insomma non è “palloso”!

Bruno Conti