Un Trittico Dal Canada 3, Il Migliore Dei Tre! Bruce Cockburn – Bone On Bone

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Bruce Cockburn – Bone On Bone – True North/Ird

Bruce Cockburn è stato (ed è tuttora) uno dei più grandi talenti espressi dalla scena musicale canadese. Negli anni ’70 la sua produzione rivaleggiava con quella dei grandi di quei tempi (assolutamente alla pari con gente come Tom Petty, Bob Seger, ma anche Van Morrison, Springsteen, Dylan, Joni Mitchell, la Band e pochi altri musicisti di quegli anni). Sull’altro lato dell’oceano anche Joan Armatrading, come Cockburn, non sbagliava un disco: gli album di quella decade, che uscivano con precisa cadenza annuale, spesso erano splendidi, penso a Sunwheel Dance, Night Vision, Joy Will Find A Way, In The Falling Dark, il doppio Live Circles In The Stream, ma un po’ tutti erano dischi superiori alla media della produzione di quasi tutti i suoi contemporanei e con una qualità costante. Forse proprio quello del 1979, Dancing In The Dragon’s Jaws, fu quello ad avere il maggiore successo negli Stati Uniti, arrivando fino al 45° posto delle classifiche americane e il LP conteneva una canzone Wondering Where The Lions Are, che arrivò a sfiorare perfino i Top 20 https://www.youtube.com/watch?v=L6Lpx6JIMmk . Da lì in avanti i dischi successivi, salvo rari casi (penso a Nothing But A Burning Light, Dart To The Heart, forse The Charity Of Night e qualche altro che ora non mi sovviene) non hanno più raggiunto quei picchi qualitativi, ma ci sono miriadi di cantautori pronti a firmare un patto con il diavolo per avere prodotto una serie di dischi comunque così consistenti. Dagli anni 2000 ha ulteriormente diradato le sue uscite discografiche, solo tre album più un Live, e e nell’ultima decade ci ha regalato un solo disco, Small Source Of Comfort. uscito nel 2011, un buon album che lo riavvicinava al sound e ai valori artistici espressi negli anni d’oro, e nel 2014 è uscito anche quello splendido Box da 8 CD più un DVD, Rumours Of Glory, che oltre ad essere una summa della sua produzione, conteneva anche molto materiale raro ed inedito http://discoclub.myblog.it/2014/09/20/altra-bella-notizia-forse-i-portafogli-bruce-cockburn-rumours-of-glory/ .

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https://www.youtube.com/watch?v=vmeZppIah8Y

Ma quando sembrava che Bruce Cockburn avesse quasi metaforicamente appeso la chitarra al chiodo, almeno per ciò che concerne il materiale nuovo, ecco che arriva questo Bone On Bone, un disco (dovrebbe essere il numero 30, antologie escluse) che rivaleggia con il meglio della sua produzione. Prodotto dal vecchio sodale Colin Linden, e registrato tra la California, Nashville e l’amato Canada, con l’aiuto di un eccellente gruppo di musicisti, dove spiccano il bassista John Dymond (che si alterna con l’ottimo contrabbasso di Roberto Occhipinti), il batterista Gary Craig, il nipote di Bruce, Aaron Cockburn alla fisarmonica; in più nella veste di ospiti Mary Gauthier (di cui a fine gennaio attendiamo il nuovo album Rifles And Rosary Beads), la brava cantante Ruby Amanfu, il cornettista e suonatore di flugelhorn Ron Miles, Brandon Robert Young, altro bravo cantautore e infine Julie Wolfe, alla produzione in 3 Al Purdys’ , una delle più belle canzoni, in un disco che è comunque ricco di brani di grandi valore. Il nostro amico anche se non è più un giovanissimo (quest’anno va per i 73 anni), non tradisce la attese. I testi sono sempre complessi e immersi nella realtà del mondo che ci circonda, la voce è più vissuta, ma non troppo dissimile dal suo timbro abituale, come certifica immediatamente l’iniziale States I’m In, tipico folk-rock energico ed incalzante nella sezione ritmica, con la chitarra acustica di Bruce subito in bella evidenza, mentre l’organo di John Whynot aggiunge spessore al sound e la voce della Amanfu sostiene a tratti quella di Cockburn, sembra quasi uno dei suoi classici degli anni ’70. Anche Stab At Matter (che “gioca” nel titolo sullo Stabat Mater latino per ideali religiosi e cristiani sempre presenti nei suoi testi) è un altro brano eccellente e grintoso, sempre elettroacustico https://www.youtube.com/watch?v=kLLE_1CjvKg , con qualche sapore blues, perfino cajun grazie alla fisarmonica del nipote e anche gospel per la presenza del San Francisco Lighthouse Chorus(il coro della parrocchia della città dove vive Cockburn) mentre il contrabbasso di Occhipinti e la slide di Linden si muovono sullo sfondo.

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https://www.youtube.com/watch?v=gjOZGihvAVk

Forty Years In The Wilderness è una delle splendide ballate folk-rock che da sempre costellano la carriera del canadese, ancora con l’ottima presenza dell’accordion del nipote John Aaron Cockburn e con la seconda voce della bravissima Mary Gauthier che la impreziosisce ulteriormente, insieme al coro gospel e con un suono d’assieme che ricorda a tratti anche il Jackson Browne più intimista. Non manca anche il blues, un elemento sempre presente nella discografia del nostro, per esempio nella vibrante Café Society, con un bel lavoro delle chitarre sia acustiche che elettriche, dell’armonica di Bruce e della cornetta di Miles che comincia a scaldare lo strumento. La citata 3 Al Purdys, ispirata dal lavoro di quello che viene considerato il massimo poeta canadese del 20° secolo, Al Purdy, è uno dei brani migliori del disco, e ruota attorno ad una sorta di talkin’ blues and jazz, tra poesia e recitar cantando, con la ricorrente cornetta di Ron Miles che si fa protagonista nel lirico finale, mentre le varie chitarre (e strumenti a corda vari, mandoguitar, charango e altro) suonati da Linden e Cockburn cesellano le loro partiDeliziosa anche Looking And Waiting, danzante ed intensa folk song acustica che però si avvale di ottimi interventi anche dell’elettrica, oltre che di un dulcimer, forse e di qualche strumento etnico. Per chi non lo sapesse Bruce Cockburn, oltre che cantautore di vaglia, è anche un eccellente chitarrista come dimostra nella title track strumentale Bone On Bone, dove il suo lavoro all’acustica è assolutamente splendido (e il sottoscritto, se consentite un ricordo personale, può testimoniarlo, visto che per motivi contingenti ero proprio sul palco a vedere il suo concerto al Palalido di Milano nel 1979 e ho visto la sua maestria da pochi centimetri di distanza).

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https://www.youtube.com/watch?v=FhBXirzp3Ic

La jazzata Mon Chemin, con charango e dulcimer in evidenza, si avvale ancora di Aaron alla fisarmonica, di Miles alla cornetta e dell’ottimo lavoro della sezione ritmica, altro brano tipicamente cockburniano (se si può dire), cantato in francese, come succedeva spesso nei primi anni e di tanto in tanto ancora oggi. Eccellente anche la lunga False River, altro pezzo dove si apprezza la fisarmonica, ma anche il contrabbasso di Occhipinti, la slide di Linden, l’acustica di Cockburn e tutta la band in generale, in un brano in lento ma inesorabile crescendo dove tutti i presenti sono al servizio della complessa melodia creata da Bruce per l’occasione, molto belle anche le armonie vocali corali. Jesus Train è l’altro brano decisamente bluesato di questo album, un country-folk-blues nuovamente molto composito e dalle atmosfere sospese ed intriganti, con la voce ancora in grado di reggere la parte senza problemi, ben supportata dal coro, mentre la chitarra cesella come sempre in piena libertà, sembra quasi di sentire i Pentangle. L’ultimo brano Twelwe Gates To The City è un traditional a cui Cockburn ha aggiunto delle parti non snaturando comunque l’aspetto gospel-blues del brano, dove si apprezza ancora il San Francisco Lighthouse Chorus e la “trombetta” di Ron Miles. Che dire ancora? Uno dei migliori dischi di questo 2017 appena concluso.

Bruno Conti

Come Le Ciliegie, Un Otis Tira L’Altro ! Otis Taylor – Fantasizing About Being Black

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Otis Taylor – Fantasizing About Being Black – Trance Blues Festival/Inakustik/Ird

Per chi non lo conoscesse, Otis Taylor è un polistrumentista, nato a Chicago nel ’48, ma trasferitosi poi a Denver con la famiglia, dove cresce e impara a suonare giovanissimo il banjo, per passare in seguito alla chitarra ed armonica, formando quindi il suo primo gruppo nel ’64, che non poteva che chiamarsi Otis Taylor Blues Band. Dopo qualche delusione decide di abbandonare la musica e guadagnarsi da vivere lavorando come antiquario (specializzandosi in oggetti dei nativi americani e dei cowboy afro-americani), per poi ritornare sulle scene musicali soltanto nel ’95 in occasione di un concerto di beneficenza. L’avventura discografica di Taylor inizia solo nel ’96 con Blue Eyed Monster (un disco con Kenny Passarelli al basso e Eddie Turner alla seconda chitarra), che stranamente Otis, non si sa per quale motivo, ha sempre rinnegato, a cui fa seguire il blues minimale di When Negroes Walked The Earth (98), l’eccellente White African (01) e a breve termine Respect The Dead (02), dischi che segnalano l’avvento di un talento di prima grandezza della musica blues. Negli anni duemila, a seguire, escono ancora a breve distanza l’uno dall’altro, Truth Is Not Fiction (03), Double V (04), Bellow The Fold (05), Definition Of A Circle (07), Recapturing The Banjo (08) un viaggio sonoro affascinante, Pentatonic Wars And Love Songs (09), e Clovis People Vol.3 (dove tra i musicisti presenti spicca la collaborazione della figlia Cassie, *NDB Autrice anche di un album solista non particolarmente memorabile http://discoclub.myblog.it/2013/05/14/figli-a-d-arte-cassie-taylor-out-of-my-mind/), con la costante che in gran parte sono tutti caratterizzati dalla prevalenza di storie e canzoni tristi, che parlano di morte, malattie, solitudine e sofferenza.

Dopo un periodo difficile a causa di problemi personali, OtisTaylor ritorna in studio per incidere ottimi lavori come Contraband (12), dove blues e musica africana vanno di pari passo, My World Is Gone (13), un sentito omaggio ai suoni dei Nativi Americani, e il recente Hey Joe Opus Red Meat (15), un disco di blues che mischia sonorità folk e rock in modo personale, fino ad arrivare a questo ultimo Fantasizing About Being Black, un lavoro ambizioso dove Otis racconta la storia degli afro-americani dai tempi della schiavitù, sino ai fatti più recenti, un po’ come ha fatto di recente anche Rhiannon Giddens  http://discoclub.myblog.it/2017/02/22/un-viaggio-affascinante-lungo-strade-per-la-liberta-rhiannon-giddens-freedom-highway/ . I membri della band che accompagna Taylor, voce, chitarra e banjo, sono la brava Anne Harris al violino, il bassista Todd Edmunds, il batterista Larry Thompson, con il sostegno di musicisti del calibro del grande Jerry Douglas alla lap steel guitar, il cornettista Ron Miles, e il giovane virtuoso chitarrista Brandon Niederaurer, per un totale di undici brani (di cui quattro recuperati dai suoi precedenti lavori, e riproposti in diverse versioni), che formano una sorta di “concept-album” avvincente e poetico.

L’apertura di Fantasizing About Being Black è affidata al recupero di Twelve String Mile (era su When Negroes Walked The Earth), dove si nota subito il tocco di Jerry Douglas, mentre Walk On Water (la trovate su Clovis People), è rivoltata come un calzino, con un suono di chitarra quasi in stile “flamenco”, per poi passare alla prima nuova canzone Banjo Bam Bam, con il violino della Harris che segue il ritmo ripetitivo del banjo, e cambiare di nuovo passo con il tambureggiante rock-blues di Hands On Your Stomach, dove si manifesta la bravura alla chitarra di Niederaurer. Le “fantasie” si intensificano con l’intrigante “funky-blues” di Jump Jelly Belly, con un bel lavoro di Ron Miles (che non era presente nell’album Respect The Dead), mentre la seguente Tripping On This è in uno stile “Delta Blues” elettrico, cantata da Otis con Muddy Waters nel cuore, passando per una convincente D To E Blues, con un tessuto sonoro dove il violino scandisce il tempo, e il meraviglioso e ossessivo  caldo “groove” di Jump Out Of Line. Le chitarre di Otis e Brandon introducono e accompagnano una toccante Just Want To Live With You, per poi ritornare ad un “groove” mosso con la sincopata Roll Down The Hill, e chiudere in bellezza con la stratosferica Jump To Mexico, una ballata morbida e straziante con in evidenza, oltre alla voce di Taylor, la chitarra slide di “master” Jerry Douglas. Commovente!

Fantasizing About Being Black è un viaggio a ritroso sulla storia della comunità “afroamericana”, in compagnia di musicisti incredibili, impegnati a ripercorrere le strade della memoria, con canzoni che hanno il potere di risvegliare sensazioni antiche, con la musica sempre puntuale nel fornire emozioni relative alle storie, per un disco non facile, a tratti drammatico, ma forse per questo sicuramente affascinante. Sembra ormai appurato che Otis Taylor non è un artista facile da catalogare (all’interno delle varie forme del blues), un musicista rispettoso delle tradizioni delle 12 battute classiche, ma anche con un suo personale modo di rivisitarle ed interpretarle, ed in questo contesto i punti di forza sono il suo superbo “songwriting”, la maestria nell’uso degli strumenti (chitarra, banjo e armonica), con canzoni che evocano le sue origini e la matrice afroamericana delle proprie radici musicali. Per chi scrive Otis Taylor è una delle figure di maggior spessore della scena “blues” contemporanea. Un altro piccolo capolavoro, da parte di un grande artista.!

Tino Montanari