E Anche Questa “Canta”! Ursula Ricks – My Street

ursula ricks my street.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ursula Ricks – My Street – Severn Records

Il suo nome è Ricks, Ursula Ricks, viene da Baltimora, Baltimore per gli americani, una importante città fluviale del Maryland, nel nord-est degli States, una delle più “antiche”, sede di una importante Università, la John Hopkins, musicalmente è la patria di gente come Frank Zappa, Philip Glass, Billie Holiday (ma solo come città adottiva, negli anni dell’infanzia, è nata a Filadelfia), quindi non una scena musicale attivissima. Perché vi dico tutto questo, se non c’entra con il resto? Perché un incipit è importante, attira il lettore verso quello che è il contenuto successivo. In effetti, a ben guardare, un ulteriore nesso con Ursula Ricks c’è, Annapolis, dove è stato registrato il disco per la Severn (che è anche il nome del fiume della città, fine della lezione di geografia), è la capitale del Maryland.

Proprio la Severn, ultimamente, si sta segnalando come una delle etichette più attive ed interessanti della scena indipendente blues & soul americana: tra i loro progetti recenti, l’ottimo ultimo album di Bryan Lee, di cui vi ho parlato nei mesi scorsi, l’ultima fatica dei Fabulous Thunderbirds, la doppia antologia di Alan Wilson ed ora questo My Street che segna l’esordio di Ursula Ricks. Dopo oltre venti anni di attività nei locali con il suo Ursula Ricks Project, un gruppo dedito all’interpretazione di cover soul, R&B e blues, la nostra amica, non più giovanissima, pubblica il suo primo album di materiale originale (con solo un paio di cover), un po’ come era successo per Charles Bradley (visto dal vivo di recente, è veramente bravo) pochi anni orsono. Magari la Ricks è un poco più giovane, ma lei e i suoi amici “paciarotti” del progetto, come potete vedere da molti video che si trovano in rete, è una notevole interprete di musica nera: presenza scenica, gran voce, bassa, risonante e potente, feeling a tonnellate.

Quelli della Severn le hanno messo intorno la loro house band, più alcuni ospiti di spicco e voilà, ecco questo piacevole e trascinante My Street, un disco di funky blues, se così vogliamo definirlo. Producono Kevin Anker, anche alle tastiere, Steve Gomes, pure al basso e il boss, David Earl, gli arrangiamenti di fiati ed archi sono del grande musicista di Chicago Willie Henderson, lo stesso team di Bryan Lee, ed i risultati sono eccellenti. Dal vigoroso blues iniziale, Tobacco Road (non quella famosa, un caso di omonimia), con Kim Wilson ospite all’armonica e Johnny Moeller alla chitarra, peraltro presente in tutto il disco, che con l’aggiunta del veterano Rob Stupka alla batteria garantiscono un sound bluesy alle procedure, che però spesso e volentieri virano verso motivi soul ed errebì veramente sanguigni. Come ad esempio nella ballata soul Sweet Tenderness dove la vociona espressiva della Ricks (che, modestamente, ringrazia l’Universo (!) per i suoi talenti, nelle note) assume quasi delle tonalità alla Nina Simone (una che ha fatto un disco intitolato Baltimore, per i corsi e ricorsi della vita), carezzata dagli archi e dai fiati di Henderson e dalle deliziose armonie vocali di Christal Rheams e Caleb Green, sembra un brano di Al Green o di Isaac Hayes del primo periodo. Mary Jane non sembra, è proprio una cover di una canzone di Bobby Rush, funky e ritmata il giusto, con un basso sinuoso, la chitarra di Moeller che fa lo Steve Cropper della situazione e tutto il gruppo che gira alla grande.

Sempre il giusto ritmo anche nella title-track My Street che ci permette di gustare appieno la vocalità della Ricks. Che è ancora più avvolgente in Due, un altro dei brani dove archi e fiati, più l’organo di Anker contribuiscono a creare quel mood raffinato à la Stax anni d’oro, Mike Welch, un altro degli ospiti nell’album, ci piazza un assolo dei suoi. E si ripete nella decisamente più bluesata Right Now dove lui e Moeller si scambiano licks chitarristici di gran classe intorno alle evoluzioni vocali della brava Ursula. The NewTrend ha di nuovo quell’afflato soul Staxiano se mi passate il termine, ma quello degli anni ’70, meno ruspante e più raffinato. Make Me Blue, di nuovo con le raffinate traiettorie orchestrali di Henderson, ha un qualcosa del miglior Barry White, quello “soffice” pre-disco, con chitarrine e fiati che colorano la performance vocale di gran qualità della Ricks. Che si ripete ancora alla grande in un brano come Just A Little Bit Of Love, che ti fa esclamare Curtis Mayfield ancora prima di avere letto l’autore del brano, bellissima e con una nota di merito ancora per Johnny Moeller che con la sua chitarra wah-wah pennella un sound vecchio stile di gran classe. Di nuovo Moeller sugli scudi nella ondeggiante What You Judge, ma tutto il gruppo suona come un orologio di marca, preciso e puntuale intorno alla vocalità corposa di Ursula Ricks, una veramente brava e meritevole di essere scoperta, se ne avete voglia segnatevi il nome!                                              

 Bruno Conti

Suonerà Ancora Il Blues (E Non Solo) Per Voi! Bryan Lee – Play One For Me

bryan lee play one.jpg

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bryan Lee – Play One For Me – Severn Records

Torna Bryan Lee “giovanottone” quasi settantenne (a seconda delle biografie, già compiuti o meno, con questi bluesmen non si sa mai), residente in quel di New Orleans da lunga data, ma nativo del Wisconsin. E lo fa con il suo primo disco per la Severn, dopo anni di militanza con la canadese Justin’ Time: uno dei migliori stilisti del blues ancora in attività tra le vecchie glorie, in possesso di una tecnica chitarristica notevolee, esplicata soprattutto nei concerti dal vivo, ma anche di una voce potente e vellutata allo stesso tempo, con molti punti di contatto con quella di BB King (anche lui, ormai, suona seduto ai concerti dal vivo). Questo Play One For Me è meno “selvaggio” di altre prove discografiche di Lee, più raffinato e ricercato negli arrangiamenti a cura di Willie Henderson, spesso anche con l’uso di archi e fiati, coordinati dal terzetto di produttori, Kevin Anker, David Earl (il boss della Severn) e Steve Gomes, negli studi di Annapolis, MD, di proprietà dell’etichetta.

Anche il gruppo che accompagna Bryan è una novità per lui: alcuni veterani della scena blues americana, Kim Wilson, armonica e Johnny Moeller, alla chitarra ritmica, dai Fabulous Thunderbirds, Kevin Anker e Steve Gomes che non si limitano a produrre ma suonano anche tastiere e basso e Rob Stupka, un batterista che oltre che con la famiglia Allison (Luther e Bernard) ha suonato con molti nomi del blues contemporaneo, alcuni presenti anche in questo CD. Equamente diviso tra cover e brani originali, cinque per categoria, il disco ha un suono più “tradizionale” rispetto ad altre prove di Bryan Lee più influenzate dal rock, ma ogni tanto si infiamma, come in una “cattiva”, visto anche il titolo, versione di Evil Is Going On che tutti conosciamo semplicemente come Evil ed è proprio il classico scritto da Willie Dixon per Howlin’ Wolf. Altrove Lee è più mellifluo, come nell’ottima cover, ricca di soul, del classico Aretha (Sing One For Me), cantata in origine da George Jackson, ma “coperta” anche da Cat Power nel suo disco di rivisitazioni Jukebox, qui Bryan suona in punta di dita ed è coadiuvato a meraviglia dai suoi pards e dalle sezioni fiati ed archi, per una versione sontuosa di questo brano.

Ma l’omone di Two Rivers, le cui dimensioni ricordano quelle dei due King, B.B. e Albert, è perfettamente a suo agio anche quando rivisita un brano del repertorio del terzo King, Freddie, It’s Too Bad (Things Are Going So Tough), un blues lineare con la solista che scivola sinuosa sulla ritmica felpata del gruppo di Lee. O in una ottima versione di When Love Begins (Friendship Ends), un brano scritto da Aaron Willis per Bobby Womack, che sembra, nel suo andamento maestoso, uno dei classici Stax di Isaac Hayes o meglio ancora del già ricordato Albert King, con gli archi e i fiati che colorano il suono mentre il wah-wah di Moeller discretamente si mette al servizio della solista di Bryan Lee che realizza una delle migliori performance del disco. Di Evil abbiamo detto, aggiungerei l’ottimo lavoro dell’armonica di Kim Wilson, nel brano suddetto e abbiamo un quartetto iniziale di canzoni di grande spessore. Ma anche quando Lee si dedica al proprio repertorio come nella poderosa You Was My Baby (But You Ain’t My Baby Anymore), la chitarra è sempre guizzante e tirata, la ritmica pompa di gusto e i risultati si sentono. L’ultima cover è un brano Straight To Your Heart di un oscuro ma valido bluesman di nome Dennis Geyger, conosciuto da Lee probabilmente nel suo girovagare per concerti negli States, onesto ma non memorabile.

Più vibrante il classico slow-blues dall’andatura caracollante, Poison, che racconta di avventure in quel di New Orleans e ha nel suo DNA il voodoo della città adottiva di Bryan, con voce filtrata e minacciosa, armonica d’ordinanza di Wilson e tutta la band che ripete il rito classico delle 12 battute che sfocia in un assolo tagliente della solista di Lee. Let Me Love You è un’altra slow ballad deliziosa ad alta gradazione soul, tra Memphis e New Orleans, arrangiata con gran classe da Henderson, un piccolo gioiellino, sempre impreziosito dalle evoluzioni della solista. Non male anche Why con l’organo di Anker a duettare ancora una volta con la chitarra, mentre Lee declama con piglio gagliardo il testo della canzone, prima di rilasciare un altro assolo dei suoi. Sixty-Eight Years Young oltre a chiarire il dato anagrafico è un onesto funkaccio, vagamente alla James Brown, con una strana chitarra molto trattata a farsi largo tra i ritmi marcati del pezzo, sempre buono ma inferiore agli altri brani di un disco blues e dintorni dai contenuti notevoli. Bryan Lee ancora una volta non delude!

Bruno Conti