Nell’Impossibilità Di Avere Gli Originali, Questi Sono Un Ottimo Surrogato! The Weight Band – Live Is A Carnival

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The Weight Band – Live Is A Carnival – ContinentalRecord Services CD

The Band, uno dei gruppi più leggendari della storia del rock, fa parte di quegli acts per così dire “irriformabili”: Richard Manuel, Rick Danko e Levon Helm non sono più tra noi ormai da diversi anni, Robbie Roberston non ne ha mai voluto sapere di riprendere in mano il vecchio moniker e Garth Hudson, vero leader silenzioso del gruppo e musicista dalla preparazione stellare, è sempre stato nell’ombra e non ha certo voglia di diventare un band leader a 83 anni. Il testimone del glorioso gruppo canadese (anche se Helm era americano) da qualche anno è stato preso in mano con una certa legittimità da Jim Weider, chitarrista di Woodstock che negli anni novanta era entrato a far parte della reunion della Band ad opera di Helm, Danko e Hudson prendendo il posto di Robertson (non dal punto di vista compositivo però) negli ottimi Jericho e Jubilation e nel meno riuscito High On The Hog. In seguito Weider si era unito alla Levon Helm Band fino alla scomparsa del leader avvenuta nel 2012, ed in anni recenti si è ripresentato insieme ad alcuni musicisti che avevano suonato sugli album citati poc’anzi per formare The Weight Band, che vuole apparire come un omaggio al mitico quintetto di Music From Big Pink sin dal nome che cita appunto il loro brano più popolare.

Anche The Weight Band sono in cinque: oltre a Weider abbiamo Brian Mitchell (tastiere, fisarmonica e voce, anch’egli ex membro della Levon Helm Band), Matt Zeiner (pure lui tastiere e voce), Albert Rogers (basso e voce) e Michael Bram (batteria). Come vedete anche la loro conformazione rimanda alla Band, con un chitarrista, due tastieristi e la sezione ritmica, ma sbagliate se pensate ad un gruppo solamente derivativo o peggio ancora ad una cover band: i nostri hanno tutti un pedigree musicale notevole e sanno comporre brani più che validi, cosa tra l’altro riscontrabile sul loro unico album di studio pubblicato finora, il riuscito World Gone Mad del 2018. Ora i nostri pubblicano un lavoro ancora più stimolante, un album dal vivo che fin dal titolo, Live Is A Carnival, è un chiaro tributo alla Band: Weider e soci dimostrano con questo CD di essere un gruppo coi controfiocchi e dal suono molto caldo e ricco di feeling, e di possedere una certa personalità, ma nasconderei la verità se non affermassi che la parte più interessante del concerto è costituita dalle loro versioni dei classici dell’ex gruppo guidato da Robertson, la cui resa non è ovviamente superiore agli originali ma neppure così distante. Registrato alla Brooklyn Bowl di New York il 26 gennaio del 2019, Live Is A Carnival ci fa dunque tornare per circa settanta minuti ad assaporare le atmosfere di un tempo, e se chiudiamo gli occhi quasi non ci accorgiamo che a suonare non sono “quelli là” (voci a parte): un gran bel dischetto quindi, con una setlist che si commenta da sola ed un profluvio di momenti strumentali in cui chitarra, organo e pianoforte si prendono il centro della scena con una serie di assoli sopraffini.

Ci sono quattro pezzi originali scritti da Weider, a partire dalla pimpante World Gone Mad, un folk-roots elettrificato e godibile tra antico e moderno, cantato a più voci, per poi proseguire con Heat Of The Moment, una rock song vigorosa ma non particolarmente originale, l’elettrica e cadenzata Bid Legged Sadie, con la chitarra sugli scudi, e la roccata e convincente Common Man, un rock-blues scritto assieme a Helm che è anche la migliore delle quattro. Nel concerto trovano spazio anche tre cover “esterne” alla Band, due delle quali sono comunque legate allo storico gruppo: si tratta dell’opening track Don’t Do It (di Marvin Gaye e pubblicata da Robertson e compagni sul live Rock Of Ages), qui in una strepitosa e funkeggiante versione ricca di groove e trascinante al punto giusto, ed una superba Atlantic City di Bruce Springsteen (era uno dei brani cardine di Jericho), con il mandolino di Weider e la fisa di Mitchell a guidare le danze; la terza cover è una bella e coinvolgente rilettura in puro stile southern-errebi del classico Deal di Jerry Garcia, sempre un bel sentire.

Dulcis in fundo, ecco i brani targati The Band: dopo la relativamente meno nota To Kingdom Come, un pezzo decisamente sanguigno dal sapore sudista, abbiamo una serie di capolavori suonati con grande classe ed immenso rispetto per gli originali, con titoli come Stage Fright, Rag Mama Rag, Ophelia, la straordinaria The Night They Drove Old Dixie Down ed il gran finale con una Life Is A Carnival di otto minuti e mezzo e l’immancabile The Weight di altri sette minuti. Forse l’unica mancanza di rilievo è almeno un brano di Bob Dylan, ma alla fine Live Is A Carnival si rivela un disco dal vivo riuscito e coinvolgente, che ha il merito non indifferente di farci rivivere seppur in minima parte la fantastica epopea di The Band.

Marco Verdi

An Englishman In New York Da Cui E’ Lecito Aspettarsi Di Più. James Maddock – No Time To Cry

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James Maddock – No Time To Cry – Appaloosa Records/IRD

James Maddock, come molti di voi già sapranno, è nato nei sobborghi della città inglese di Leicester ma dall’inizio del duemila risiede a New York dove ha realizzato le prime esperienze musicali con la band dei Wood, prima di iniziare una brillante carriera da solista aperta dallo splendido album del 2009 Sunrise On Avenue C. Nel corso degli anni si è costruito una solida fama in tutto il circuito dei locali newyorkesi grazie a innumerevoli esibizioni live coadiuvato da ottimi musicisti, tra cui l’ex chitarrista dei Counting Crows David Immergluck e l’apprezzatissimo tastierista Brian Mitchell, già noto per i suoi trascorsi accanto a Dylan, Levon Helm, B.B.King e molti altri. Nella Big Apple Maddock ha avuto modo di conoscere e fare amicizia con parecchi illustri colleghi, come Mike Scott, con cui ha scritto alcune pregevoli canzoni, Garland Jeffreys e Willie Nile, al cui recente e bellissimo tribute album ha partecipato con una eccellente versione della ballad She’s Got My Heart https://discoclub.myblog.it/2020/09/10/anche-willie-nile-ha-il-suo-pregevole-e-meritato-tribute-album-various-artists-willie-nile-uncovered/ .

Frequenti le sue incursioni live anche nel nostro paese, avendo pubblicato gli ultimi album per l’etichetta brianzola Appaloosa che prosegue l’encomiabile consuetudine di inserire nel libretto dei CD le traduzioni in italiano dei testi. Personalmente ero presente alle sue eccellenti performances all’interno del Buscadero Day degli ultimi due anni e pure a quella molto intima ed insolita a Milano, organizzata dalla Feltrinelli di Viale Pasubio per la serie aperitivi in musica. Doveva esserci un’altra data al FolkClub di Torino, lo scorso 17 aprile, ma tutto è saltato causa lockdown e l’unico modo per rivedere suonare il buon James è stato attraverso le molteplici dirette facebook, tutte di ottimo impatto tra l’altro, in cui si è esibito in solitaria dal soggiorno di casa. Per fortuna il Covid non gli ha impedito di registrare nuova musica e di pubblicare da poco un nuovo album intitolato No Time To Cry, la cui foto di copertina lo ritrae non a caso ad occhi bassi al centro di una avenue newyorkese semideserta. Rispetto al precedente lavoro del 2018 If It Ain’t Fixed, Don’t Break It, non tra i più riusciti a mio parere, si nota subito l’assenza di quelle cadenze rock’n’roll un po’ vintage che lo caratterizzavano in gran parte, per privilegiare invece la formula della rock ballad di cui il nostro protagonista è abilissimo interprete.

Certo, calcolando che su nove episodi, due sono cover e altri due sono stati scritti a quattro mani, non pare che egli stia vivendo un periodo creativamente molto prolifico. Proprio a una cover è riservato il compito di aprire il disco e, aggiungo, nel migliore dei modi, vista la qualità del brano. Williamsburg Bridge viene dalla penna di una giovane e interessante cantautrice, Cariad Harmon, e subito, dalle prime note dell’accordion di Brian Mitchell, si entra in una soffusa e magica atmosfera in cui la voce roca e suadente di Maddock calza a pennello, quando poi entrano anche il violino di Heather Hardy e il mandolino di Immergluck il tessuto sonoro si fa perfetto (esiste anche un bel video per voce, chitarra e armonica, ripreso lo scorso gennaio al Bohemia Cafè di NYC). Il livello si mantiene altissimo anche nella successiva The A Train Takes You Home, che nella lunga introduzione strumentale cita, secondo me volutamente, Mandolin Wind di Rod Stewart e nei suoi cambi di ritmo ci ripresenta il Maddock più ispirato per i suoi richiami a Van Morrison o allo Springsteen dei primi dischi. Proseguiamo con la bella e romantica Waiting On My Girl, inframmezzata da un bel solo di pedal steel guitar di Immergluck, mentre nel finale Mitchell mette in mostra tutte le sue doti di raffinato pianista.

Se l’album fosse stato tutto su questi livelli si potrebbe parlare di eccellenza, ma purtroppo così non è, a causa di sonorità a tratti un po’ troppo cariche e zuccherose che riguardano alcuni successivi episodi. I’ve Driven These Roads è stata scritta insieme a Joy Askew (una musicista che vanta un lungo passato di collaborazioni con artisti del calibro di Laurie Anderson, Joe Jackson e Peter Gabriel), ideatrice di una lunga introduzione vocale in stile Burt Bacharach secondo me un po’ pesante e avulsa dal resto di questa malinconica canzone. L’atmosfera si fa più sanguigna nella seguente The High Chose You, composta insieme al co-produttore e chitarrista Scott Rednor, dal testo ironico sulle conseguenze per chi fa uso abituale di droghe, ma dal ritornello non entusiasmante scandito da un banale hand claps. Il piano di Brian Mitchell e il violino della Hardy ci riportano a sonorità più consone nella bella rivisitazione di quella appassionata e romantica serenata che è New York Skyline di Garland Jeffreys.

La title track fa anch’essa parte delle cose migliori, una ballad di gran classe che richiama un’altra delle buone fonti d’ispirazione di James, il mai abbastanza considerato Ian Hunter, Notevoli nel finale i ricami di chitarra elettrica da parte dello stesso Maddock, è prevedibile che diventi uno degli highlights dei suoi prossimi concerti. Ancora profusione di sentimenti nella lenta Open Up To You, che sarà senz’altro un’efficace dichiarazione d’amore per l’attuale compagna, ma onestamente non mi fa impazzire. Meglio la conclusiva ninnananna Top Of The Stairs, che, malgrado i suoi coretti pop decisamente demodè si fa apprezzare per la bella linea melodica sottolineata dal violino. In definitiva, definirei questo No Time To Cry un album di qualità altalenante, un episodio transitorio, visto anche il periodo in cui è stato realizzato, che nulla toglie alle grandi doti di autore ed interprete che sicuramente James Maddock continuerà a dimostrare in futuro. Lo attendiamo, spero prestissimo, ancora protagonista sui nostri palchi per grandi serate di emozioni dal vivo.

Marco Frosi

Dopo 40 Anni Di Grandi Canzoni, Un’Altra Splendida “New York City Serenade”. Willie Nile – New York At Night

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Willie Nile – New York At Night – River House Records

Quando lo scorso ottobre Willie Nile iniziò a registrare le nuove canzoni negli Hobo Sound Studios di Weehawken, New Jersey, non poteva certo aspettarsi, come nessuno di noi, tutto quello che sarebbe accaduto nei primi mesi di questo travagliatissimo 2020: la pandemia che è dilagata in tutto il mondo, avvicinando in modo drammatico Milano, Bergamo e Brescia alla sua New York, tragici epicentri di un male nascosto e spietato che ha stravolto le nostre esistenze. Alla luce di tutto ciò, acquista ancora più valore l’ennesimo affresco traboccante di musica e vita che il rocker di Buffalo ha saputo dedicare alla sua città di adozione, presentandocelo come il seguito ideale dell’eccellente Streets Of New York, pubblicato quattordici anni fa. Prodotto insieme all’esperto amico Stewart Lerman, che ricordiamo in cabina di regia anche con Elvis Costello, Patti Smith e Neko Case, New York At Night è l’ennesima prova dello straordinario talento di Willie Nile nella doppia veste di compositore e performer.

Ad accompagnarlo nell’alternanza di lirismo e adrenalina che pervade questa dozzina di nuovi brani, troviamo un ristretto numero di fidati musicisti che spesso lo hanno supportato anche dal vivo: Il bassista Johnny Pisano, il batterista Jon Weber e i chitarristi Matt Hogan e Jimi K. Bones, a cui vanno aggiunti alcuni ospiti illustri come il blasonato polistrumentista Steuart Smith, che molti ricorderanno nelle più recenti esibizioni live degli Eagles o nei dischi di Rosanne Cash e di Rodney Crowell, il sopraffino tastierista Brian Mitchell, già collaboratore di B.B. King, Levon Helm e Bob Dylan, e, tra i vocalist, il fedele amico Frankie Lee e lo stimato collega James Maddock. Permettetemi di citare anche la copertina dell’album, l’ennesima superba istantanea in bianco e nero scattata dalla compagna di Willie, Cristina Arrigoni, (di cui consiglio caldamente il magnifico libro fotografico The Sound Of Hands, edizioni Wall Of Sound) che ritrae il nostro songwriter con le spalle appoggiate a una colonna di una stazione metropolitana mentre un treno gli sfreccia accanto.

Per saltare idealmente su quel treno, non dobbiamo fare altro che far partire New York Is Rockin’, la traccia di apertura del nuovo lavoro. Sembra di fare un salto indietro di quarant’anni, quando un giovane Willie Nile si presentava al mondo del rock con una sublime serenata elettrica dedicata alla sua luna vagabonda. L’energia e il sound sono gli stessi di allora, tra chitarre sferraglianti e ritmica incalzante, fino ad un ritornello che già ci fa immaginare (quando si potrà) sotto un palco a cantare a squarciagola a braccia alzate. Questa è la meravigliosa spontaneità comunicativa di un piccolo grande rocker capace con quattro semplici accordi di arrivare all’essenza gioiosa del rock ‘n’ roll, come pochi altri sanno fare. Il riff assassino di The Backstreet Slide non dà tregua, trascinandoci nei bassifondi poco illuminati della Grande Mela, con la voce del protagonista che si fa più roca e scura, mentre alle sue spalle le sei corde impazzano con gran lavoro di bottleneck, in omaggio al Willie DeVille di Cadillac Walk. Una tastiera soffusa ci introduce alla prima delle ballads, Doors Of Paradise, che parte lenta ma poi prende ritmo su una piacevole linea melodica, con tanto di coretto in chiave afro-gospel sullo sfondo. Gradevole sì, ma non proprio memorabile.

Decisamente meglio Lost And Lonely World, che lancia subito il suo ripetitivo refrain, tipico dei brani di Willie che diventano inni cantati in coro da tutto il suo pubblico durante i concerti. Tra sventagliate di chitarra e grande pathos nel testo diventerà sicuramente uno degli highlights del prossimo tour, che avrebbe già dovuto partire questa primavera con date in Spagna ed Italia, ma che per i ben noti problemi verrà posticipato all’autunno, se non al prossimo anno. Anche The Fool Who Drank The Ocean, scritta insieme a Frankie Lee, avrà di sicuro una bella resa dal vivo col suo incedere duro ed incalzante, le chitarre che si inseguono a briglia sciolta mentre il testo sembra alludere alla classe dirigente americana, facendo uso di una satira pungente. A Little Bit Of Love, come spiega il suo autore, è nata in seguito agli emozionanti incontri che Willie ebbe lo scorso anno con suo padre, giunto alla veneranda età di centodue anni e definito un grande storyteller. Composta al pianoforte nel corso di una notte, fa emergere tutta la sua carica emotiva reggendosi su una melodia limpida e subito assimilabile. Il suo lento crescendo diventa via via irresistibile e ne fa uno dei migliori brani di questa raccolta, sulla scia di altre grandi ballate del passato come Love Is A Train, Renegades o Back Home.

Non so quale sia la vostra idea della perfetta rock ‘n’ roll song, la mia si avvicina parecchio a quanto si ascolta nella title track New York At Night: chitarre infuocate, ritmica a palla, melodia vincente, parole urlate in modo semplice e diretto, da cantare in coro come una selvaggia catarsi. Chi altri è in grado di pubblicare oggi pezzi di questa potenza e immediatezza? Forse gli Stones o Springsteen, se ne avesse ancora voglia, lascio a voi l’ardua sentenza, perché si cambia completamente registro con la successiva The Last Time We Made Love, una preziosa ballad pianistica sulla falsariga di altri gioielli sparsi da sempre all’interno della sua discografia. E una volta di più Willie ci mette a tappeto, con un’interpretazione vocale da brividi e con le note struggenti del suo piano a cui viene sovrapposta a metà e in coda una chitarra elettrica dal suono abrasivo, quasi a sottolineare la malinconica fugacità di un amore che non può tornare. Ci torniamo noi indietro, fino alla seconda metà degli anni settanta, grazie alle atmosfere acide e allucinate di Surrender The Moon, che pare un tributo ai Television per i suoni taglienti delle chitarre mentre Nile canta in modo declamatorio facendo il verso a Patti Smith.

Questo brano risale a tredici anni fa e nacque da un’idea del fratello minore di Willie, John Noonan (Robert Anthony Noonan è il vero nome del nostro protagonista, per chi ancora non lo sapesse) poi venuto a mancare l’anno successivo. Willie si dice sicuro che il fratello sarebbe contento e orgoglioso di questa versione, e noi lo siamo con lui. Under This Roof ci fa fare un ulteriore salto nel passato, quando la sua casa e i locali che frequentava erano nel Greenwich Village e uno stuolo di romantici bohémiens, armati di chitarra acustica, facevano a gara per farsi ascoltare e trovare fortuna in luoghi poi mitizzati come il Cornelia Street Cafè o il Kenny’s Castaways. Under This Roof è un luminoso ricordo di quegli anni e dei sogni e delle illusioni che nascevano e svanivano sotto quel tetto nell’arco di una sola notte. Dopo questa delicata ed intima parentesi, ripartono i fuochi d’artificio con un altro potenziale singolo, la ruvida Downtown Girl, ennesimo esempio di rock immediato ed efficace, proposto con l’impeto di una garage band. Ma il gran finale è riservato a un brano che Willie registrò nel 2003 con la sua band di allora, The Worry Dolls. Incredibile che un pezzo di questo livello abbia dovuto aspettare 17 anni per essere pubblicato, si intitola Run Free ed è un’esortazione a spezzare ogni tipo di catena e puntare in alto inseguendo i propri sogni. Musicalmente si rivela una trascinante cavalcata elettrica con il piano in bella evidenza e una slide imperiosa che ricama sullo sfondo. A metà strada, acquisisce i colori del gospel grazie all’intervento di un coro di voci femminili che ne accrescono ulteriormente l’impeto e la solennità. Una degna conclusione per un album costruito con ottime canzoni che non mancheranno di avere la loro consacrazione definitiva dal vivo.

Per passione, energia e talento Willie Nile si conferma un punto di riferimento per le nuove generazioni di cantautori rock e, per noi appassionati ascoltatori, un compagno di viaggio insostituibile.

Marco Frosi