Ascesa, Caduta e Resurrezione Di Un Cantautore Di Culto. Michael J. Sheehy – Distance Is The Soul Of Beauty

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Michael J. Sheehy – Distance Is The Soul Of Beauty – Lightning Archive Records

Avevo scoperto Michael Sheehy, questo sconosciuto cantautore anglo-irlandese nel lontano 2007, tramite una bellissima canzone Twisted Little Man (inserita nella serie televisiva Deadwood), e come conseguenza, qualche anno dopo, recensito sul Blog con un “post” che ripercorreva a ritroso la sua discografia a partire dall’esordio con Sweet Blue Gene, e in seguito III Gotten Gains, No Longer My Concern, Ghost On The Motorway, dischi dalle atmosfere intimistiche, crepuscolari e ammalianti, che l’autore sa creare con indubbia maestria https://discoclub.myblog.it/2012/01/19/un-altro-sconosciuto-perdente-ma-di-valore-michael-j-sheehy/ . Poi, colpevolmente, ho perso le tracce dei lavori seguenti With These Hands e Loose Variaton On A Near Miss, il primo una sorta di “concept-album” ideato su un musical ambientato negli anni ’60 che narra le vicende di un pugile (la storia di Francis Delaney), il secondo che contiene delle registrazioni e versioni live di materiale precedente , e adesso, a più di dieci anni di distanza dal precedente, torna con questo Distance Is The Soul Of Beauty (il titolo è una citazione della filosofa e mistica francese Simone Weil) ispirato dalla recente nascita della figlia durante il periodo del “Covid 19”, un lavoro di una bellezza spettrale, accompagnato musicalmente da una strisciante melanconia acustica, prodotto e arrangiato dallo stesso Sheehy (come se fosse ancora in isolamento), aiutato da Patrick McCarthy alle chitarre, Ian Burns alla batteria, Andrew Park e Andy Hamill al basso, per una selezione intima di una decina di brani influenzati musicalmente da gruppi come i leggendari Velvet Underground.

E tutto questo è immediatamente evidente sin dagli arpeggi di chitarra dell’iniziale Tread Gently Leave No Scar, mentre la seguente Bless Your Gentle Soul si avvale di una strumentazione più ampia e di una melodia che viene cantata languidamente da Michael, quasi in stile Bryan Ferry, e temi simili, con in evidenza una sostenuta “drum machine,” si manifestano pure in We Laugh More Than We Cry, per poi immaginarsi nella malinconia di un tramonto la dolcissima Turn Back For Home, che viene sussurrata dall’autore sulle note di una scarna chitarra elettrica. Una profonda tristezza si avverte anche nel valzer minimale di The Girl Who Disappeared (molto simile al Leonard Cohen di New Skin For The Old Ceremony), per poi passare alle atmosfere “dylaniate” di I Have To Live This Way, e il jazz notturno di una inquietante Blue Latitudes And Starless Skies, accompagnata dal lancinante suono di una chitarra.

Ci si avvia alla fine con il suono amplificato di una lacerante Judas Hour (il momento più scioccante dell’album), i riverberi notturni di una intrigante litania che si insinua sotto la pelle come Blackout Of Arrows, e chiudere il cerchio con il brano finale Everything That Rises Must Converge (titolo di un romanzo della scrittrice americana Flannery O’Connor), un sentimento che riassume in toto e adeguatamente lo spirito compositivo di Michael J. Sheehy in questo bellissimo lavoro.

A cominciare dall’esperienza con i Dream City Film Club (una sfigata british band), la carriera di Michael j. Sheehy è sempre stata nelle retrovie, nonostante i suoi dischi ( almeno i primi tre) fossero stati pubblicati dalla prestigiosa Beggars Banquet, e i seguenti tre dalla Glitterhouse Records, e non si capisce il motivo, in quanto il buon Sheehy oltre ad essere un ottimo musicista (suona con abilità la chitarra e il pianoforte), è innanzitutto un narratore di storie all’interno delle quali è racchiusa la parte più oscura e intima della sua vita. E’ mia convinzione che anche questo Distance Is The Soul Of Beauty, che merita di essere considerato (per il sottoscritto naturalmente) uno dei migliori dischi dell’anno, come al solito passerà praticamente inosservato, ed è molto difficile che giri la ruota per questo autore, troppo orgoglioso e fiero del suo lavoro per scendere a compromessi, più probabile che aumenti la sua figura di cantautore di culto, dimostrando che i “beautiful loser” non esistono solo in America.

In chiusura mi permetto un’ultima considerazione, questo lavoro è stato composto a tarda notte, e quindi va ascoltato al meglio a tarda notte, possibilmente in dolce compagnia. *NDT: Distance It The Soul Of Beauty è autoprodotto su CD – LP e venduto sulle piattaforme in rete.

Tino Montanari

Un Ritorno Alle Origini In Un Tempio Della Musica. Bryan Ferry – Live At The Royal Albert Hall 1974

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Bryan Ferry – Live At The Royal Albert Hall 1974– BMG Rights Management – CD Deluxe Edition – 2 LP

Di questa vera icona rock britannica mi ero già occupato recensendo su queste pagine, sul finire del 2013 un eccellente DVD Live In Lyon https://discoclub.myblog.it/2013/11/21/intramontabile-dandy-del-rock-bryan-ferry-live-in-lyon/ , e ora con piacere mi accingo a parlarvi di questo Live At The Royal Albert Hall uscito da pochi giorni nei negozi e su tutte le piattaforme musicali. In questo concerto Bryan ripropone i suoi primi due dischi da solista These Foolish Things (73) e Another Time, Another Place (74), due album di “covers” , in quanto in quel periodo Ferry avvertiva il bisogno direi quasi fisiologico di misurarsi con brani di altri artisti, e mettersi in competizione con loro in un ideale e immaginario “braccio di ferro”, rischiando la propria reputazione artistica. Così nella serata del 19 Dicembre 1974 sale sul palco della mitica Royal Albert Hall di Londra (e se passate da quelle parti è d’obbligo visitarla), accompagnato da un’orchestra di 30 elementi diretta da Martyn Ford, con il sostegno dei fidati “pard” dei Roxy Music Phil Manzanera alla chitarra, Paul Thompson alla batteria, Eddie Jobson al piano e violino, e con il contributo di John Porter e  John Wetton al basso, e l’aggiunta delle belle e brave coriste Vicki Brown, Doreen Chanter, Helen Chappelle, per un lungo viaggio musicale attraverso alcuni classici del passato, che spaziano dagli anni ’30 ai ’60, scegliendo le canzoni con cui Bryan si era musicalmente formato, e che nell’occasione vengono riproposte e personalizzate in questo live con la sua abituale classe, marchio distintivo di tutta la sua  carriera.

Il concerto inizia alla grande con una rilettura “satanica” di Sympathy For The Devil degli Stones, con subito le coriste in evidenza, per poi recuperare un brano degli anni ’60 I Love How You Love Me, portato al successo dal trio femminile The Paris Sisters, con una bella sezione fiati a dettare il ritmo, seguito dal rock’n’roll scatenato di una Baby I Don’t Care (uno dei punti di forza del primo Elvis Presley con il “prefisso” (You’re So Square),,, e ripreso tra i tanti anche da Joni Mitchell e Led Zeppelin), per poi passare ai ritmi pop di una piacevole It’s My Party, cantata ai tempi (sempre anni ’60) da Lesley Gore che vendette a vagonate. Il Ferry di quel periodo alternava l’approccio pop al rock dei Roxy Music, e la dimostrazione lampante è la seguente Don’t Worry Babe dall’album Shut Down Vol .2 dei Beach Boys, con le tre coriste in formato “Stax”, a cui fanno seguito il rock sincopato di Another Time, Another Place, dello stesso Ferry, l’omaggio a Ike & Tina Turner andando a recuperare una Fingerpoppin’ con largo uso di una intrigante sezione fiati, per poi rispolverare meritoriamente un classico come The Tracks Of My Tears, portata al successo dal grande Smokey Robinson con i suoi Miracles.

Dopo una buona dose di applausi, le riletture proseguono, sorprendentemente andando a recuperare dal vasto repertorio di Lennon-McCartney una poco conosciuta You Won’t See Me (la trovate su Rubber Soul), per poi commuovere il pubblico in sala con una stratosferica versione di Smoke Gets In Your Eyes dei Platters con il sax di Chris Mercer in evidenza (brano eseguito anche da artisti del calibro di Dinah Washington, Sarah Vaughan, Eartha Kitt, Patti Austin e perfino Thelonious Monk), e poi finalmente cantare la lucida follia di A Hard Rain’s A-Gonna Fall del grande Bob Dylan, con una versione dal crescendo “rossiniano” che mette in risalto ancora la bravura delle soliste. Dopo una lunga e meritata ovazione in sala, ci si avvia alla fine del concerto con Bryan Ferry che recupera dall’appena oubblicato Country Life dei suoi Roxy Music, un brano d’atmosfera con i violini in sottofondo come A Really Good Time, per poi ritornare al suono R&B con una mossa The ‘In’ Crowd, portata al successo da Dobie Gray, e poi andare a chiudere con un brano del lontano 1936 scritto da tale Jack Strachey, una These Foolish Things suonata e cantata in perfetto stile “ragtime”. Sipario, nuovaovazione e applausi più che meritati. Tutta la vicenda artistica dell’eterno “dandy” del pop è stata un continuo percorso in bilico tra la sua appartenenza al suo gruppo i Roxy Music e la parallela carriera solista iniziata negli anni ’70, un signore ricordo che nel corso di una lunga e gloriosa carriera ha venduto la bellezza di oltre 30 milioni di dischi, con un patrimonio di canzoni che ha influenzato intere generazioni, con il suo stile da “crooner” futurista, accompagnato da un’eleganza sopraffina, e, cosa più importante, sempre con uno stuolo di formidabili musicisti e “sessionmen” ad assecondarlo.

Anche se i tempi sono cambiati, per parafrasare il suo mito Bob Dylan, questo Bryan Ferry Live At The Royal Albert Hall è un album che, nonostante sia rimasto inedito per 46 anni, è stato giusto portare alla luce, in quanto certifica l’inizio della carriera solista di Ferry, in un concerto che è un’istantanea straordinaria di brani famosi e non, che sono “amplificati” dai pard nella sua band ( leggi Roxy Music), potenziati dalla sezione archi e corni di una meravigliosa orchestra, e dalla contagiosa esibizione canora, ovviamente in smoking, sul palco del celebre teatro londinese da parte del nostro amico Bryan Ferry. NDT*: Per completezza di informazione aggiungo che il 29 Marzo del 2019, Bryan Ferry e la sua band, i Roxy Music, hanno fatto ingresso nella famosa e istituzionale Rock And Roll Hall Of  Fame.

Tino Montanari