Ebbene Sì E’ Proprio Lui, Si E’ Dato Al Funky-Soul Con Profitto! Paul Stanley’s Soul Station – Now And Then

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Paul Stanley’s Soul Station – Now And Then – Universal

Chi sia Paul Stanley è cosa abbastanza nota: per i più distratti ricordiamo che è uno dei quattro Kiss, membro fondatore, chitarra ritmica e voce solista. E allora perché ne stiamo parlando? Già il nome della formazione aiuta, Paul Stanley’s Soul Station, ad indicare che il musicista di New York City per certi versi è uno dei “nostri”, inteso come amante della soul music, ma quella più genuina, non incrociata e contaminata da altri generi musicali, come lascia intendere il titolo del disco Now And Then, canzoni pescate sia da nuove composizioni firmate dallo stesso Stanley, cinque, quanto da una serie di classici del repertorio Motown e Philly Sound. E a scanso di equivoci, diciamolo subito, il disco è piuttosto riuscito, secondo il sottoscritto anche meglio di gran parte del cosidetto “nu soul” che circola al momento (per esempio, per non fare nomi, è meglio di quello del quasi osannatao dalla critica Aaron Frazer). Accompagnato appunto dai suoi Soul Station, una band con cui girava per piccoli club e locali di NYC prima del Covid, spargendo il verbo della musica nera, come ricorda lui stesso quella appresa in gioventù ascoltando le canzoni del Philly Soul e della Motown, e, non essendo un giovinetto, per avere visto dal vivo gente come Otis Redding e Solomon Burke (beato lui!).

paul stanley soul station now and then 1Paul-Stanley

Poi come abbiamo visto è stato “traviato” da altri generi più rutilanti, ma evidentemente la vecchia passione non sì è spenta. Come evidenzia la foto di copertina, insieme ad un elegante Paul, ci sono ben dieci altri musicisti nel gruppo: il chitarrista e corista Rafael “Hoffa” Moreira, il bassista Sean Hurley, il tastierista Alex Alessandroni, la tastierista Ely Rise, il batterista e corista Eric Singer (sempre dei Kiss), il percussionista RayYslas, i coristi Gavyn Rhone, Crystal Starr e Laurhan Beato, il trombettista Pappenbrook, e anche una piccola sezione archi ed altri due fiatisti, quindi suono ricco mi ci ficco! Could It Be I’m Falling In Love, brano del 1973 degli Spinners, registrato ai Sigma Sound Studios di Philadelphia, indica subito la direzione della musica, quel soul/R&B che poi verrà definito Philly Sound, più morbido e mellifluo del suono della Stax e della prima Motown, cionondimeno molto godibile e piacevole, anche se anticipa l’avvento della Disco Music, archi, cori e fiati imperversano, Stanley ha una bella voce che può spaziare da un sicuro timbro tenorile al falsetto, non manca la tipica chitarrina maliziosa ingrediente immancabile di questo stile. I Do, cantata in un falsetto non esagerato, dimostra che il sound lussurioso è replicabile anche nei brani “originali” di Stanley, come nella successiva mossa I Oh I, tipico brano da dancefloor, con la sezione fiati che si prende i suoi spazi, ma quando è applicata alle cover risplende maggiormente https://www.youtube.com/watch?v=40gsFY0fnu0 .

Paul Stanley @ The Roxy (9.11.2015)

Paul Stanley @ The Roxy
(9.11.2015)

Per esempio nella malinconica ballata Ooh Baby Baby, brano di Smokey Robinson, anche nel repertorio di Linda Ronstadt, dove il nostro può indulgere di nuovo nell’amato falsetto, e il tasso zuccherino potrebbe essere pericoloso per i diabetici, ma si evita nella frizzante ed estiva O-o-h Child, pezzo di Chicago Soul del 1970 dei Five Stairsteps, anticipatori dei Jackson 5 https://www.youtube.com/watch?v=sBEULgmjnWk . Tra i brani migliori del CD, che forse ogni tanto esagera nel dancefloor sound, anche una ottima Just My Imagination (Running Away With Me), cavallo di battaglia del classico Motown sound dei Temptations, dove Stanley si conferma eccellente soul singer https://www.youtube.com/watch?v=2CKWxln5kgE , come ribadisce in The Tracks Of My Tears del maestro Smokey Robinson, e anche in una notevole Let’s Stay Together del grande Al Green https://www.youtube.com/watch?v=yXUBqc1qGuI . Eccellente pure la ripresa di La-La – Means I Love You dei Delfonics, alfieri di quel soul più morbido e sognante, niente male anche l’originale di Stanley Lorelei, spensierato scacciapensieri in questi tempi bui e tempestosi, ma anche la ballatona strappalacrime You Are Everything degli Stylistics, per non dire della splendida ed euforica Baby I Need Your Loving, uno dei capolavori scritti da Holland/Dozier/Holland per i Four Tops. Non un capolavoro quindi, ma tutto estremamente godibile e piacevole https://www.youtube.com/watch?v=kX8KUF6BPk8 . File under Soul Music.

Bruno Conti

Un Ritorno Alle Origini In Un Tempio Della Musica. Bryan Ferry – Live At The Royal Albert Hall 1974

bryan ferry live at the royal albert hall

Bryan Ferry – Live At The Royal Albert Hall 1974– BMG Rights Management – CD Deluxe Edition – 2 LP

Di questa vera icona rock britannica mi ero già occupato recensendo su queste pagine, sul finire del 2013 un eccellente DVD Live In Lyon https://discoclub.myblog.it/2013/11/21/intramontabile-dandy-del-rock-bryan-ferry-live-in-lyon/ , e ora con piacere mi accingo a parlarvi di questo Live At The Royal Albert Hall uscito da pochi giorni nei negozi e su tutte le piattaforme musicali. In questo concerto Bryan ripropone i suoi primi due dischi da solista These Foolish Things (73) e Another Time, Another Place (74), due album di “covers” , in quanto in quel periodo Ferry avvertiva il bisogno direi quasi fisiologico di misurarsi con brani di altri artisti, e mettersi in competizione con loro in un ideale e immaginario “braccio di ferro”, rischiando la propria reputazione artistica. Così nella serata del 19 Dicembre 1974 sale sul palco della mitica Royal Albert Hall di Londra (e se passate da quelle parti è d’obbligo visitarla), accompagnato da un’orchestra di 30 elementi diretta da Martyn Ford, con il sostegno dei fidati “pard” dei Roxy Music Phil Manzanera alla chitarra, Paul Thompson alla batteria, Eddie Jobson al piano e violino, e con il contributo di John Porter e  John Wetton al basso, e l’aggiunta delle belle e brave coriste Vicki Brown, Doreen Chanter, Helen Chappelle, per un lungo viaggio musicale attraverso alcuni classici del passato, che spaziano dagli anni ’30 ai ’60, scegliendo le canzoni con cui Bryan si era musicalmente formato, e che nell’occasione vengono riproposte e personalizzate in questo live con la sua abituale classe, marchio distintivo di tutta la sua  carriera.

Il concerto inizia alla grande con una rilettura “satanica” di Sympathy For The Devil degli Stones, con subito le coriste in evidenza, per poi recuperare un brano degli anni ’60 I Love How You Love Me, portato al successo dal trio femminile The Paris Sisters, con una bella sezione fiati a dettare il ritmo, seguito dal rock’n’roll scatenato di una Baby I Don’t Care (uno dei punti di forza del primo Elvis Presley con il “prefisso” (You’re So Square),,, e ripreso tra i tanti anche da Joni Mitchell e Led Zeppelin), per poi passare ai ritmi pop di una piacevole It’s My Party, cantata ai tempi (sempre anni ’60) da Lesley Gore che vendette a vagonate. Il Ferry di quel periodo alternava l’approccio pop al rock dei Roxy Music, e la dimostrazione lampante è la seguente Don’t Worry Babe dall’album Shut Down Vol .2 dei Beach Boys, con le tre coriste in formato “Stax”, a cui fanno seguito il rock sincopato di Another Time, Another Place, dello stesso Ferry, l’omaggio a Ike & Tina Turner andando a recuperare una Fingerpoppin’ con largo uso di una intrigante sezione fiati, per poi rispolverare meritoriamente un classico come The Tracks Of My Tears, portata al successo dal grande Smokey Robinson con i suoi Miracles.

Dopo una buona dose di applausi, le riletture proseguono, sorprendentemente andando a recuperare dal vasto repertorio di Lennon-McCartney una poco conosciuta You Won’t See Me (la trovate su Rubber Soul), per poi commuovere il pubblico in sala con una stratosferica versione di Smoke Gets In Your Eyes dei Platters con il sax di Chris Mercer in evidenza (brano eseguito anche da artisti del calibro di Dinah Washington, Sarah Vaughan, Eartha Kitt, Patti Austin e perfino Thelonious Monk), e poi finalmente cantare la lucida follia di A Hard Rain’s A-Gonna Fall del grande Bob Dylan, con una versione dal crescendo “rossiniano” che mette in risalto ancora la bravura delle soliste. Dopo una lunga e meritata ovazione in sala, ci si avvia alla fine del concerto con Bryan Ferry che recupera dall’appena oubblicato Country Life dei suoi Roxy Music, un brano d’atmosfera con i violini in sottofondo come A Really Good Time, per poi ritornare al suono R&B con una mossa The ‘In’ Crowd, portata al successo da Dobie Gray, e poi andare a chiudere con un brano del lontano 1936 scritto da tale Jack Strachey, una These Foolish Things suonata e cantata in perfetto stile “ragtime”. Sipario, nuovaovazione e applausi più che meritati. Tutta la vicenda artistica dell’eterno “dandy” del pop è stata un continuo percorso in bilico tra la sua appartenenza al suo gruppo i Roxy Music e la parallela carriera solista iniziata negli anni ’70, un signore ricordo che nel corso di una lunga e gloriosa carriera ha venduto la bellezza di oltre 30 milioni di dischi, con un patrimonio di canzoni che ha influenzato intere generazioni, con il suo stile da “crooner” futurista, accompagnato da un’eleganza sopraffina, e, cosa più importante, sempre con uno stuolo di formidabili musicisti e “sessionmen” ad assecondarlo.

Anche se i tempi sono cambiati, per parafrasare il suo mito Bob Dylan, questo Bryan Ferry Live At The Royal Albert Hall è un album che, nonostante sia rimasto inedito per 46 anni, è stato giusto portare alla luce, in quanto certifica l’inizio della carriera solista di Ferry, in un concerto che è un’istantanea straordinaria di brani famosi e non, che sono “amplificati” dai pard nella sua band ( leggi Roxy Music), potenziati dalla sezione archi e corni di una meravigliosa orchestra, e dalla contagiosa esibizione canora, ovviamente in smoking, sul palco del celebre teatro londinese da parte del nostro amico Bryan Ferry. NDT*: Per completezza di informazione aggiungo che il 29 Marzo del 2019, Bryan Ferry e la sua band, i Roxy Music, hanno fatto ingresso nella famosa e istituzionale Rock And Roll Hall Of  Fame.

Tino Montanari

Apparsi Quasi Dal Nulla, Ecco A Voi Una Bella (Ri)Scoperta: The Perth County Conspiracy!

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The Perth County Conspiracy – Perth County Conspiracy – Flashback Records            

Di tanto in tanto appaiono dal nulla pubblicazioni discografiche relative a solisti o gruppi assolutamente ignoti ai più: anche se in questi tempi di internet con un click è facile fare una ricerca, naturalmente sempre però se sapete il soggetto del vostro interesse, in caso contrario, soprattutto in ambito musicale (ma anche negli altri) risulterebbe difficile e dai tempi biblici fare delle ricerche che spaziano da Aardvark a Zuzzurellonis (dei primi garantisco l’esistenza, sui secondi meno) per placare la vostra vorace fame di conoscenza. In effetti dei Perth County Conspiracy qualcosa in rete si trova: band canadese attiva tra il 1969 e il 1977, ha “pubblicato”, si fa per dire, alcuni dischi in quel periodo (un paio anche per la Columbia Canada), la cui reperibilità, soprattutto nel caso di quello di cui stiamo per parlare, era molto problematica, visto che il LP fu pubblicato dalla CBC, la Canadian Broadcasting Corporation, l’emittente di stato locale, in una tiratura di “ben” 250 copie.

Il gruppo, uno dei classici collettivi, anche in parte politicizzati come in quegli anni era spesso cosa comune, ruotava intorno a due musicisti Richard Keelan e Cedric Smith, soprattutto il secondo anche con forti interessi teatrali e cinematografici, e che tuttora svolge una attività di attore e doppiatore sul suolo canadese. Questa a grandi linee la storia, ma nel CD (o nella ristampa del vinile se preferite) c’è un succoso libretto di 16 pagine che racconta in dettaglio la storia della band: il curatore del dischetto in questione è Richard Morton Jack, un appassionato ed esperto giornalista inglese, ferratissimo soprattutto sulla psichedelia, sul  folk e sull’underground in generale, scrive su Mojo, Q e Record Collector, ha fondato la Flashback Records e prima era il titolare dell’etichetta Sunbeam. Sulla copertina del CD troviamo due personaggi barbuti e lungocriniti, che musicalmente si ispirano al folk “alternativo” imperante in quegli anni, pensate a Tim Buckley, Tim Hardin, Fred Neil, Tom Rush, ma anche Nick Drake e Donovan, tutti personaggi ai margini del mainstream, ma di indubbia qualità.

Ovviamente i Perth County Conspiracy non sono a quei livelli, se no li conosceremmo da anni, ma nella continua ricerca degli appassionati di materiale “oscuro” da (ri)scoprire, un dischetto come questo ci può stare. Registrato nell’agosto del 1970, e pubblicato più o meno in contemporanea al disco per la Columbia che mescolava Shakespeare e altri autori teatrali alla musica, e che forse profeticamente si intitolava The Perth County Conspiracy Does Not Exist, questo “nuovo” dischetto mescola materiale originale di Keelan e Smith (aiutati dal bassista Michael Butler) a tre cover d’autore di buona fattura. Le voci dei due sono piacevoli ed interagiscono in modo efficace, mentre anche a livello strumentale, per quanto il suono sia scarno e basico, il disco non dispiace per nulla: tra i musicisti che frequentavano i loro stessi locali in quello scorcio di anni ’60 c’erano anche Chuck Mitchell, con la moglie Joni, con la quale, nell’iniziale, morbidamente deliziosa, Welcome Surprise, scritta da Keelan, c’è un comune uso del dulcimer, che accentua lo stile folk del brano, mentre in Take Your Time, scritta a due mani dai due, che la cantano in alternanza, c’è una maggiore varietà di suoni, grazie alla presenza delle percussioni e all’arrangiamento più complesso che rimanda a certo psych-folk dell’epoca. If You Can Want è una cover di Smokey Robinson (ebbene sì), che alivello sonoro con il soul non ha rapporti, ma forse veniva dalla provenienza di Detroit di Keelan, che come Smith, inglese di origine, era un canadese trapiantato, comunque il brano è più mosso e bluesy, con un bel giro di basso e le voci che si intrecciano con classe e brillantezza.

Woman For All Seasons è una bella ballata melanconica, cantata da Cedric Smith, la cui voce risonante ricorda quelle di Buckley e Hardin, affascinante e profonda, con una chitarra elettrica a vivacizzarla. Vivace è anche la cover, con elementi orientaleggianti e quasi freak-folk, di Hurdy Gurdy Man di Donovan, in cui risalta la bella melodia del brano del menestrello scozzese, Mr. Truthful Licks è quella che più ricorda lo stile dei duo vocali dell’epoca, Simon & Garfunkel, ma anche Williamson e Heron dell’Incredible String Band. So Many Things, con un flauto a percorrerla, rimanda di nuovo alle ballate folk del primo Tim Buckley, mentre Lace And Cobwebs, sempre di Smith, potrebbe ricordare lo stile di Hardin, oppure di Nick Drake, che però all’epoca nessuno conosceva. HIndsight di Keelan, di nuovo cantata a due voci, con un bel piano quasi alla Laura Nyro come strumento guida è un’altra buona composizione che conferma il valore dei due, mentre in conclusione troviamo una bella e lunga versione corale della classica I Shall Be Released di Dylan, cantata dal cantautore americano Terry Jones, uno dei vari “Cospiratori” che hanno aiutato il duo a realizzare questo album che riemerge dalle nebbie del tempo, non un capolavoro sicuramente ma un bel disco che gli amanti della buona musica sicuramente apprezzeranno. Una bella (ri)scoperta.

Bruno Conti

Dite La Verità, Eravate Un Po’ Preoccupati ! Jerry Garcia & Merl Saunders – Garcia Live Vol. 6: Lion’s Share

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Jerry Garcia & Merl Saunders – Garcia Live Vol. 6: Lion’s Share, July 5th 1973 – ATO Records 3CD

Dite la verità, eravate preoccupati che da un po’ di tempo non ci si occupava dei Grateful Dead? Eccovi serviti: è infatti uscito da qualche settimana il sesto volume della serie Garcia Live, dedicato ai migliori concerti dell’ex leader del leggendario gruppo di San Francisco, Jerry Garcia, una collana di pubblicazioni che ha sostituito la precedente, denominata Pure Jerry (ma anche i Dead stanno per pubblicare l’ennesimo Dave’s Picks). Questa volta ci si è rivolti ad un concerto del 1973, annata molto attiva per il nostro, insieme al tastierista Merl Saunders, una serata tenutasi al Lion’s Share  (un piccolo club di San Anselmo, nella Bay Area) poco tempo prima dei mitici concerti che avrebbero poi dato vita al famoso Live At Keystone. La formazione è la stessa, con Jerry e Merl accompagnati dal fido John Kahn al basso e Bill Vitt alla batteria, ai quali nella seconda parte dell’esibizione si aggiungerà (ma, come vedremo, potevano anche farne a meno) un trombettista indicato sul libretto come “Mystery Guest”, ma che dovrebbe essere Martin Fierro, dato che poi si occuperà del medesimo strumento nei Legion Of Mary, futura backing band del Garcia solista. Il triplo CD, che presenta un suono decisamente spettacolare (come se fosse stato inciso la settimana scorsa) vede i due leader (ma Jerry lo è di più) spaziare come di consueto dal rock al blues all’errebi, fino al jazz ed alla jam pura, con brani al solito lunghi e dilatati, perlopiù cover di pezzi famosi ma anche oscuri, dato che Garcia senza i Dead amava sperimentare ed occuparsi ben raramente di canzoni scritte da lui.

La performance è scintillante, addirittura fantasmagorica nelle parti strumentali, con Jerry in forma assolutamente strepitosa e Saunders non da meno quando piazza le mani sui tasti dell’organo, lunghi brani suonati in maniera calda e liquida, che hanno l’unico tallone d’Achille nelle parti vocali; Garcia infatti, si sa, non è mai stato un grandissimo cantante, ma a seconda delle serate riusciva anche a cavarsela egregiamente: qui invece fa parecchia fatica, le stonature sono sempre in agguato, e Jerry questo lo capisce e cerca di non forzare più di tanto, con il risultato che le parti cantate abbassano di parecchio la tensione che si viene a creare quando il gruppo si limita a suonare. Altro tasto dolente, la presenza nella seconda metà del concerto di Fierro (o chi per esso), che con la sua tromba invadente e spesso fuori posto,  a mio parere, c’entra poco con il suono generale del quartetto, finisce per rischiare di rovinare delle parti strumentali che, con un cantante più in forma, avrebbero reso questo sesto volume uno dei più belli della serie. Ma anche così direi che l’acquisto può essere pienamente giustificato, in quanto di cantato complessivo non c’è poi molto, e lo stato di forma “chitarristico” di Garcia da solo può valere la spesa.

Il primo CD si apre con la nota After Midnight di J.J. Cale, più lenta di come la faceva Clapton e più nello stile del suo autore, e già si capisce che la serata è di quelle giuste, con Jerry che rilascia subito un assolo dei suoi, ben assecondato dall’organo “caldo” di Saunders, relegando quasi le strofe cantate ad un intermezzo obbligato. Someday Baby è un blues di Sam Hopkins (che Bob Dylan ha pubblicato su Modern Times cambiando solo qualche parola e firmandolo come suo), anch’esso rallentato, quasi spogliato delle sue caratteristiche originarie, ma con un’altra performance super del barbuto chitarrista, che riesce a far sua la canzone al 100%; She’s Got Charisma è un pezzo originale di Saunders, l’inizio è quasi bluesato, ma ben presto si trasforma in una sontuosa jam strumentale dove Jerry e Merl si affrontano ad armi pari, con momenti di psichedelia pura, diciotto minuti di godimento, che confluiscono in una That’s Alright Mama che di minuti ne dura tredici, in cui il noto successo scritto da Arthur Crudup (ma reso immortale da Elvis Presley) è solo un pretesto per le formidabili evoluzioni di Jerry. Il secondo dischetto si apre ancora con un brano di Merl, The System, un pezzo che non è certo un capolavoro (e Saunders come cantante non se la cava molto meglio di Jerry), ma l’abilità dei nostri nel trasformare in oro anche canzoni minori è impressionante, altri diciotto minuti di sballo strumentale. Il primo set di chiude con una concisa rilettura (“solo” sei minuti) di The Night They Drove Old Dixie Down di The Band, una delle grandi canzoni della nostra musica che nelle mani di Garcia e soci non può che scintillare luminosa, anche se Levon Helm la cantava cento volte meglio.

Dopo un break i nostri tornano sul palco insieme a Fierro (che si tratterrà fino alla fine), un’aggiunta che nelle intenzioni avrebbe dovuto dare più colore al suono, anche se a mio parere non ce n’era bisogno: I Second That Emotion (Smokey Robinson) è in versione decisamente calda e piena di ritmo, un suono corposo e denso e solita grande chitarra, mentre il classico di Rodgers & Hart My Funny Valentine è una scusa per altri venti minuti di suoni in totale libertà, al limite del free jazz, ma poi Jerry prende il sopravvento e stende tutti come al solito, anche se l’invadenza della tromba dopo un po’ diventa palese, mentre le cose vanno meglio con la più sintetica (ma sono pur sempre nove minuti) Finders Keepers, un classico nei concerti di Jerry e Merl (è dei Chairman Of The Board), con Jerry che sfodera un’altra prestazione da manuale in un brano che, se “de-trombizzato”, sarebbe stata ancora migliore. Il terzo CD inizia con l’ottima Money Honey di Jesse Stone, purtroppo inficiata dalla prova vocale insufficiente di Jerry, anche se la parte strumentale è come al solito sublime; Like A Road è una ballata delle meno note tra quelle scritte da Dan Penn (nello specifico insieme a Don Nix), un brano molto soulful e vibrante, anche per merito dell’organo, suonato con grande classe e pathos e cantato anche abbastanza bene (e la tromba qui tace). Poi, altri 27 minuti di jam che partono con un’improvvisazione chiamata Merl’s Tune, in cui si alternano momenti fantastici ad altri più cerebrali, e dove purtroppo Fierro fa il bello ed il cattivo tempo, per finire con la sempre splendida How Sweet It Is (To Be Loved By You) di Marvin Gaye, che Jerry ha spesso usato per chiudere i suoi concerti.

Un live dunque strumentalmente ineccepibile, con diversi momenti di pura poesia sonora, ma anche qualche difettuccio qua e là, che per fortuna però non compromette il giudizio finale che rimane assolutamente positivo.

Marco Verdi

In Attesa Del Resto! Smokey Robinson – Smokey & Friends

smokey robinson & friends

Smokey Robinson – Smokey & Friends – Verve 19-08-2014

In questi giorni mi sono messo con impegno a preparare la lista delle uscite più interessanti di agosto e nel vagliare titoli e artisti (molti più di quanto pensavo, si superano i venti titoli di parecchio e li troverete nei prossimi giorni, divisi credo in tre parti, mentre qualcuno avrà la sua recensione a parte), mi sono imbattuto in questo nuovo album di Smokey Robinson, 74 primavere quest’anno, ma sempre pimpante. Anche se è altrettanto vero che, per usare un eufemismo, il nostro non realizza un disco degno della sua fama, o meglio, lo fa solo in parte. Questa volta, per andare sul sicuro, l’idea è quella di riproporre, nella formula del duetto, alcuni dei classici della sua ultracinquantennale carriera di cantante e autore. Ottima idea: ma poi scegli come produttore Randy Jackson, attuale responsabile di American Idol, il talent musicale che va per la maggiore negli Stati Uniti attualmente, e poi, credo con un piccolo “aiutino” della sua casa discografica, i musicisti con cui dovrai realizzare le nuove versioni di queste bellissime canzoni. In effetti, in un primo momento, avevo pensato di intitolare questo Post, “quanto talento sprecato”, ma poi per rispetto verso Robinson e alcuni dei musicisti impiegati ho lasciato perdere, anche se in parte lo penso ancora.

smokey and elton

Per essere onesti è meno peggio di quello che pensavo, il suono ogni tanto vira verso quel nu soul che va di moda al giorno d’oggi ma alcune canzoni funzionano. A questo punto immagino vogliate sapere chi c’è, e cosa canta. Ecco la lista dei brani e relativi interpreti:

01. “The Tracks Of My Tears,” feat. Elton John

https://www.youtube.com/watch?v=5A0lK8IdiRA
02. “You Really Got A Hold On Me,” feat. Steven Tyler

https://www.youtube.com/watch?v=YmbuOsqNFrs
03. “My Girl,” feat. Miguel, Aloe Blacc, JC Chasez
04. “Cruisin’,” feat. Jessie J
05. “Quiet Storm,” feat. John Legend

https://www.youtube.com/watch?v=9glRdQwQg7g
06. “The Way You Do (The Things You Do),” feat. CeeLo Green
07. “Being With You,” feat. Mary J. Blige

https://www.youtube.com/watch?v=ffFOr-uDBhQ
08. “Ain’t That Peculiar,” feat. James Taylor

https://www.youtube.com/watch?v=LGfPRaHklBA
09. “The Tears Of A Clown,” feat. Sheryl Crow
10. “Ooh Baby Baby,” feat. Ledisi
11. “Get Ready,” feat. Gary Barlow

Per cui un bel triplo uhm è d’uopo, anche se alcuni brani non sono male, neppure come suono, e poi se Bob Dylan lo ha definito “uno dei grandi poeti dei nostri tempi” un motivo ci sarà pure stato. La data di uscita del 19 agosto è riferita al mercato americano, in Europa uscirà a settembre.

Proseguo con il resto del lavoro, alla prossima.

Bruno Conti