Una Band Durata Troppo Poco, Ma Che Varrebbe La Pena Riscoprire. Trees – Trees

trees box 4 cd 50th anniversary edition

Trees – Trees – Earth 4CD Box Set

(NDM: questa recensione è dedicata a Celia Humphris, bravissima e bellissima cantante del gruppo scomparsa lo scorso 11 gennaio). https://www.youtube.com/watch?v=h6apTudTFLc&feature=emb_logo 

A parte Fairport Convention e Pentangle (e Steeleye Span, Strawbs, Lindisfarne ed altri gruppi che hanno goduto di una certa popolarità), il sottobosco del folk inglese a cavallo tra gli anni 60 e 70 ha prodotto una lunga serie di band che, pur essendo musicalmente più che valide, non sono mai andate oltre un dignitoso status di culto. Tra di esse ci sono i Trees, quintetto londinese formatosi a Londra nel 1969 e scioltosi nel 1973 dopo due soli album e diverse esibizioni dal vivo, che negli anni seguenti è diventato una mezza leggenda in quanto i suoi ex componenti non si sono certo distinti per luminose carriere nel mondo della musica, e quindi intorno al gruppo è sempre rimasto un certo alone di mistero. I leader erano il chitarrista acustico David Costa ed il bassista/tastierista Bias Boshell (che era anche il principale compositore), completati dalla chitarra solista di Barry Clarke, dalla batteria di Unwin Brown e dalla splendida voce angelica della Humphris, che oltretutto era dotata di una presenza scenica incantevole. I cinque, dopo aver firmato per la CBS, diedero alle stampe due album abbastanza ravvicinati tra loro, The Garden Of Jane Delawney (aprile 1970) e On The Shore (gennaio 1971), due lavori di ottimo livello in cui i nostri mischiavano abilmente brani originali e pezzi della tradizione folk rivisitati con un piglio rock a volte quasi psichedelico.

trees folk band 3

Nonostante le critiche positive e gli apprezzati concerti dal vivo i due album non ebbero successo, forse anche a causa dei continui paragoni con i Fairport che non aiutarono di certo Costa e compagni, e di fatto il nucleo originale si sciolse nel corso del 1971. Una seconda incarnazione dei Trees con la Humphris, Clarke e tre rimpiazzi continuò ad esibirsi fino al 1973, ma l’indifferenza pressoché generale che li circondava costrinse anche loro a dire basta. Da lì in poi il più attivo in campo musicale fu Boshell, che collaborò con Kiki Dee, Barclay James Harvest ed i Moody Blues per poi riunirsi a Costa nel 2018 come On The Shore Band per riproporre dal vivo le canzoni dei Trees; Urwin intraprese la carriera di insegnante fino alla sua morte prematura avvenuta nel 2008, Clarke entrò nel business della gioielleria e la Humphris si ritirò praticamente a vita privata prestando molto saltuariamente la sua voce come ospite su dischi di altri artisti (fra i quali Judy Dyble) e, piccola curiosità, registrando la frase “mind the gap” che si sente ancora oggi sulle linee Northern e Jubilee della metropolitana di Londra. (NDM2: a dire il vero un tentativo di reunion ci fu nel 2007 nell’occasione dei remix dei due album originali, ma non si andò oltre un paio di brani nuovi, anche a causa dello stato di salute già compromesso di Urwin).

Trees_Lots_Rd_1970_col_credit_Hipgnosis

Per ricordare i Trees sul finire dello scorso anno la Earth, etichetta responsabile tra le altre cose dei recenti cofanetti retrospettivi di Bert Jansch, ha dato alle stampe Trees, un bellissimo box quadruplo che ripercorre la carriera del quintetto affiancando ai due album di studio opportunamente rimasterizzati una serie di demo, mix alternativi, outtakes e rarità dal vivo, che lo rendono un acquisto praticamente obbligato per gli amanti del folk-rock britannico dell’epoca classica, sia per la ricchezza della proposta che per la bontà dei contenuti musicali (a meno che non possediate le già citate ristampe del 2007, rispetto alle quali il cofanetto propone solo sei inediti). Prodotto come il suo successore da Tony Cox, che si era fatto già un nome in cabina di regia con i Caravan, The Garden Of Jane Delawney è ancora oggi un disco bellissimo, un vero tesoro nascosto del folk-rock britannico dell’epoca, tra brani originali e traditionals reinventati. L’iniziale Nothing Special è un pezzo elettrico, vibrante e decisamente rock, dominato dalla chitarra di Clarke che giganteggia per tutta la durata, e Celia dà un assaggio della sua voce sognante https://www.youtube.com/watch?v=QRh68muODfY  ; segue la bella The Great Silkie, cristallina rilettura di un brano tradizionale che in questo caso caso avvicina abbastanza i nostri ai Fairport, almeno nei primi tre minuti in quanto dopo la canzone prende un’altra direzione e diventa un rock psichedelico con la giusta punta di acidità, in cui i cinque (anzi quattro, visto che Celia non suona) jammano che è un piacere https://www.youtube.com/watch?v=nIerYC_JURU .

Trees Gardenjd

L’album prosegue in maniera decisamente creativa con la bucolica title track, delicata, emozionante e con la voce della Humphris accompagnata da una strumentazione acustica con aggiunta di clavicembalo e flauto, a cui seguono tre traditionals consecutivi https://www.youtube.com/watch?v=hF2GHHCLFTM : i sette minuti di Lady Margaret, puro acid folk con godurioso assolo di Clarke https://www.youtube.com/watch?v=RAJOcq9is3Q , la saltellante Glasgerion, suonata alla grande, ed una tesa e drammatica versione della classica She Moved Thro’ The Fair, altri otto minuti molto intensi in cui si invade quasi il territorio dei Led Zeppelin. Chiusura con la spedita e rockeggiante Road, con un duetto vocale tra Celia e Boshell, la suggestiva Epitaph, stavolta puro folk, e la bella e limpida Snail’s Lament https://www.youtube.com/watch?v=I-sdufQjoTM . On The Shore è forse un gradino sotto il suo predecessore ma sempre validissimo, e si apre con Soldiers Three, gradevole folk-rock quasi sotto forma di filastrocca, per proseguire con la folk ballad Murdoch, complessa ma coinvolgente https://www.youtube.com/watch?v=6-lUwcjXqgA , e con i due pezzi centrali del lavoro: i sette minuti e mezzo di Streets Of Derry, in cui il suono tagliente contrasta con la voce eterea della Humphris https://www.youtube.com/watch?v=vSKF1Dg6yCQ , ed i dieci minuti di Sally Free And Easy, che dopo una bella introduzione pianistica si apre a poco a poco con sonorità ipnotiche ed un notevole crescendo https://www.youtube.com/watch?v=kr6_EWt9cTA  .

Trees On_the_shore

Altri momenti salienti cono due splendide riletture del noto traditional scozzese Geordie (che da noi ha inciso anche De André) https://www.youtube.com/watch?v=V69A96sMDCI  e di Polly On The Shore, che invece i Fairport rileggeranno nel 1973 sull’album Nine https://www.youtube.com/watch?v=_-BbyyLmrNw , oltre allo psych-folk Fool, quasi californiana, ed una vivace ripresa del folk tune Little Sadie, che Bob Dylan aveva rifatto l’anno prima sul bistrattato Self Portrait. Il terzo CD presenta sei remix del 2007 di brani di On The Shore a cura di Costa e Boshell (gli stessi pubblicati nell’edizione deluxe dello stesso anno), in cui i due ex membri hanno tolto la patina di antico che gli originali potevano avere risuonando anche alcuni passaggi strumentali (cosa abbastanza evidente in Murdoch); in aggiunta due demo inediti del 1970 di Polly On The Shore e Streets Of Derry, entrambe non perfettamente rifinite ma già molto interessanti. Il quarto dischetto presenta brani di varia provenienza anche diversi da quelli poi finiti sui due LP originali, a partire da tre demo del 1969 con una She Moved Thro’ The Fair più corta ma ugualmente bella, e due outtakes: il traditional piuttosto noto Pretty Polly, che inizia con un arrangiamento da folk tune appalachiano con banjo in evidenza per poi trasformarsi in una rock song degna della Summer Of Love https://www.youtube.com/watch?v=24SsipdFLJA , e la breve ballata pianistica Little Black Cloud.

celia-humphris-un-cantante-con-gli-alberi-gruppo-pop-la-foto-mostra-pete-drummond-con-la-sua-sposa-dopo-il-servizio-presso-il-kensington-r-o-questa-mattina-e10er1

Poi abbiamo tre BBC sessions del 1970 (di cui due inedite): una cupa The Great Silkie, sette minuti di pura psichedelia in cui gli unici elementi folk sono la melodia e la voce (sentite il finale chitarristico) https://www.youtube.com/watch?v=IN2usssvsqI , una guizzante Soldiers Three e Forest Fire, sontuosa rock ballad eseguita in maniera superba che avrei visto bene su uno dei due album dell’epoca. Tra le chicche del box ci sono poi due ottime e riuscitissime riletture, ovviamente inedite, di She Moved Thro’ The Fair e Murdoch registrate nel 2018 al Café Oto di Londra da parte della On The Shore Band, con Costa e Boshell circondati da una corposa band che comprende quattro chitarristi, la sezione ritmica, violino, fisarmonica, flauto e due voci femminili https://www.youtube.com/watch?v=8vNrySgIq9s . Infine, i due inediti della mancata reunion del 2007, con la bella e sognante Black Widow (la voce di Celia era ancora bellissima) https://www.youtube.com/watch?v=e1kXvm_Mf0k  ed il discreto strumentale Little Black Cloud Suite. Trees è un cofanetto di cui non si è parlato molto in quanto celebra una band di cui oggi si ricordano in pochi, ma che visto il livello del suo contenuto musicale sarebbe colpevole ignorare (*NDB Purtroppo però sembra che il Box non sia più disponibile, Out Of Stock o il più netto Sold Out, con l’eccezione, forse, degli USA dove però risulta soggetto a ulteriori tasse e diritti doganali).

Marco Verdi

Sempre Power Rock-Blues, Forse Più “Sperimentale”. JD Simo – JD SIMO

jd simo jd simo

JD SIMO – JD Simo – Crows Feet Records

Non so se gli lasciano ancora utilizzare la Gibson Les Paul di Duane Allman che aveva suonato nel suo primo album, il bellissimo Let Love Show The Way uscito a nome SIMO nel 2016 https://discoclub.myblog.it/2016/01/29/ritmi-sudisti-blues-vecchie-chitarre-simo-let-love-show-the-way/  (ma non credo, visto che nelle interviste recenti parla con entusiasmo delle chitarre Silvertone che suona ultimamente), ma sicuramente il tocco da virtuoso gli è rimasto in questo secondo omonimo album solista, dopo l’eccellente Off At 11 dello scorso album. Virtuosismo che avevo potuto apprezzare dal vivo nel concerto milanese quando apriva per i Blackberry Smoke. Benché il disco porti semplicemente il suo nome si tratta comunque di un ulteriore album del suo power trio, dove il batterista è rimasto il fedele Adam Abrashoff (che firma con lui anche quattro canzoni), mentre la bassista è la nuova Andraleia Buch.

Questa volta il nativo di Chicago, ma residente a Nashville, ha realizzato un album più “compatto”, niente brani ricchi di lunghe improvvisazioni rock, ma dieci pezzi tutti piuttosto brevi, solo un paio superano i 5 minuti, anche se gli elementi tipici della musica di JD Simo ci sono tutti: influenze blues, molto funky e soul, meno derive jazzy rispetto al precedente CD e più sperimentazione sonora. Dall’apertura affidata al funky-psych di The Movement, cantata in leggero falsetto, con l’ottimo groove del basso e le sonorità lavorate della solista di JD, che poi rilascia un assolo tra il Jeff Beck era Yardbirds e i Funkadelic, acidissimo e cattivo, si passa a Love, un’altra funky tune con forti elementi rock, voce filtrata e chitarra impazzita in modalità wah-wah, con altro assolo breve ma devastante. A proposito di funky-soul Out Of Sight è proprio quella di James Brown, sempre lavoratissima, con un sound futurista e furiosi interventi della chitarra di Simo https://www.youtube.com/watch?v=HLJFalOq25g ; Higher Plane, il brano più lungo, è anche quello più “sperimentale”, un rock-blues molto duro con la chitarra di JD alla ricerca di suoni furibondi, grazie anche all’utilizzo di slide ed effetti vari, ci porta verso l’iperspazio e le 12 battute psichedeliche del futuro.

One Of Those Days, con un falsetto suadente ispirato da Marvin Gaye e Curtis Mayfield, è una soul ballad impreziosita da un assolo tutto giocato su vibrato e il pedale octaver che usava Hendrix ai tempi. Hyperbolicsyllabicsesquedalymistic, più uno scioglilingua che un titolo, era uno dei lunghi brani di Isaac Hayes sul suo secondo album Hot Buttered Soul, qui in una versione abbreviata e incattivita di tre minuti, sempre molto “effettata” con fuzz bass e chitarra in overdrive https://www.youtube.com/watch?v=sUXv35R00bA ; Take That è un omaggio alla band di Robbie Williams, scherzo, si tratta di un breve strumentale rockabilly preso a velocità spaventosa, dove si apprezza tutto il virtuosismo incredibile alla chitarra del nostro amico https://www.youtube.com/watch?v=yirqh3KID3c . Soul Of A Man è una cover del brano di Blind Willie Johnson, dove forse si esagera con il “modernismo”, ma magari Jimi Hendrix avrebbe apprezzato, e anche la lunga e distorta Help è un ulteriore esempio degli esperimenti sonori tentati in questo album da JD Simo, che ci congeda nel finale con la cover di Anna Lee di Earl Hooker, forse il blues più “tradizionale” del disco, anche se l’effetto doppia slide sui due canali dello stereo è comunque particolare e inconsueto.

Disco non facile, ma interessante per chi vuole a sua volta sperimentare.

Bruno Conti

Cofanetti Autunno-Inverno 18. L’Ultimo Ruggito Di Una Piccola Grande Band. The Pretty Things – The Final Bow

pretty things the final bow

The Pretty Things – The Final Bow – Madfish/Snapper 2CD/2DVD/10” LP Box Set

Ci sono gruppi che hanno attraversato la cosiddetta “golden age of rock’n’roll” da comprimari, conquistandosi al massimo una nota a pié di pagina nelle enciclopedie ed assaporando un successo inversamente proporzionale alla loro bravura: quelle che oggi vengono definite band di culto, per intenderci. Uno dei nomi oggi più dimenticati in tal senso è quello dei Pretty Things, gruppo inglese originario del Kent ,attivo dalla metà degli anni sessanta inizialmente con una miscela di rock ed errebì equiparabile ai primi Moody Blues, agli Animals ma anche ai Them (e soprattutto ai Rolling Stones, in quanto Dick Taylor, insieme a Jagger e Richardsfu il primo chitarrista di una band chiamata Little Boy Blue and the Blue Boys, che con l’ingresso di Brian Jones  sarebbero diventati appunto gli Stones, mentre Taylor insieme a Phil May avrebbe fondato i Pretty Things): PT che che poi inserirono nel loro suono elementi psichedelici, senza tuttavia dimenticare l’amore originario per il blues (il nome è ispirato da una canzone di Bo Diddley, loro grande idolo); i nostri non ebbero mai un grande successo neppure nei sixties, con l’esordio del 1965 unico album ad entrare nella Top Ten (leggermente meglio, ma non troppo, con i singoli), e con il loro capolavoro S.F. Sorrows del 1968 (considerata la prima opera rock di sempre, in anticipo di un anno su Tommy degli Who) che non entrò neanche nella Top 100!

Ma i PT, scioltisi all’inizio degli anni ottanta (dopo avere inciso negli anni ’70 per la Swan Song, l’etichetta dei Led Zeppelin) scioltisi alla fine del vecchio millennio, hanno sempre continuato imperterriti a fare la loro musica, ed il 13 Dicembre del 2018 hanno deciso di dare l’addio alle scene in grande stile, con un magnifico concerto tenutosi al teatro 02 Indigo di Londra, serata documentata in questo splendido cofanetto intitolato The Final Bow che in due CD, altrettanti DVD ed un vinile da dieci pollici (esiste anche una versione in doppio LP, ma con il concerto incompleto) ci offre una eccellente panoramica sul meglio della loro storia. Gli unici due membri originari sono appunto il cantante Phil May ed il chitarrista Dick Taylor (coadiuvati dai più giovani Frank Holland, chitarra, George Woosey, basso e Jack Greenwood, batteria), i quali nonostante l’età e l’apparente fragilità fisica sul palco sono ancora in grado di dire la loro alla grande. The Final Bow è quindi un grande live album, in cui i Pretty Things si autocelebrano con stile ma anche tanta grinta, suonando con una foga degna di un gruppo di ragazzini, ed in più con diverse sorprese ad effetto durante tutto lo show. Tanto rock’n’roll, ma anche parecchio blues e qualche sconfinamento nella psichedelia, specie nel momento dello show dedicato a S.F. Sorrows.

Introdotti dal loro ex batterista ed ora maestro di cerimonie Mark St. John, i nostri iniziano con due energiche versioni dei due singoli più popolari, Honey, I Need e Don’t Bring Me Down, puro rock’n’roll perfetto per riscaldare da subito l’atmosfera (e Taylor fa vedere di essere un chitarrista notevole). La ritmata ed annerita Buzz The Jerk (caspita se suonano) precede il primo di vari omaggi a Diddley con una potente versione di Mama, Keep Your Big Mouth Shut, in uno stile giusto a metà tra errebi e rock. Lo show prosegue in maniera sicura e fluida con trascinanti riletture dell’orecchiabile Get The Picture?, pop song suonata con grinta da garage band, la goduriosa The Same Sun, i nove splendidi minuti del medley Alexander/Defecting Grey, rock-blues tostissimo dal tocco psichedelico e prestazione incredibile di Taylor, una robusta riproposizione del classico di Jimmy Reed Big Boss Man, una vitale Midnight To Six Man, che ha dei punti in comune con il suono dei Them, e la guizzante Mr. Evasion. La seconda parte dello spettacolo vede una selezione di brani proprio da S.F. Sorrows, con May e Taylor che vengono raggiunti sul palco dagli altri tre ex compagni presenti sull’album originale, cioè John Povey, Wally Waller e Skip Allan; ma le sorprese non finiscono qui, in quanto dopo la breve intro di Scene One ed una cristallina S.F. Sorrows Is Born i nostri chiamano sul palco David Gilmour: l’ex Pink Floyd sarà anche invecchiatissimo ma con la chitarra in mano è ancora un portento, e si inserisce alla perfezione all’interno della band per strepitose versioni, tra rock e psichedelia d’annata, di She Says Good Morning, Baron Saturday, Trust e I See You, per poi chiudere il secondo set con i sette minuti di Cries From The Midnight Circus (che però proviene dall’album Parachute del 1970), rock chitarristico della miglior specie.

La terza ed ultima parte inizia a tutto blues con due toniche Can’t Be Satisfied (Muddy Waters) e Come In My Kitchen (Robert Johnson), entrambe in riletture acustiche con Dick bravissimo anche alla slide, due pezzi che preparano all’altra grande sorpresa della serata, cioè l’arrivo di sua maestà Van Morrison, il quale presta la sua inimitabile voce in ben tre brani, il classico deiThem Baby, Please Don’t Go ed altri due omaggi a Bo Diddley con I Can Tell e You Can’t Judge A Book By Its Cover: tre canzoni che da sole valgono gran parte del prezzo richiesto per il box (che tra parentesi non è bassissimo). La serata volge al termine, il tempo per una diretta e roccata Come See Me e per due monumentali riletture di Mona (ancora Diddley) e del medley L.S.D./Old Man Going (di nuovo con Gilmour on stage), ben tredici minuti ciascuna, il modo migliore per i nostri di dire addio al loro pubblico. Ma non è finita, in quanto c’è tempo ancora per due brevi bis con Rosalyn, il loro primo singolo in assoluto, e con la bella e toccante Loneliest Person, che in origine chiudeva S.F. Sorrows e in quella serata invece chiude la carriera concertistica dei Pretty Things. I due DVD offrono la versione video del concerto sia “edited” che “uncut”, oltre che un documentario, mentre il vinile, molto interessante, presenta su un lato cinque brani dello show scelti dalla band e sull’altro gli stessi pezzi nella loro versione originale.

Ormai è tardi per le classifiche dei migliori del 2019, ma questo The Final Bow è “senzadubbiamente” (per dirla con Antonio Albanese) uno dei live più belli dell’anno appena trascorso.

Marco Verdi

Cofanetti Autunno-Inverno 4. Uno Scrigno Di Tesori, Finalmente A Disposizione Di Tutti! Steve Miller Band – Welcome To The Vault

steve miller band welcome to the vault

Steve Miller Band – Welcome To The Vault – Capitol/Universal 3CD/DVD Box Set

Nel mese di Novembre Bruno vi intratterrà con una dettagliata retrospettiva dedicata a Steve Miller, musicista molto popolare negli anni settanta ed ottanta con la sua Steve Miller Band: io oggi mi occupo invece di Welcome To The Vault, nuovissimo cofanetto che per la prima volta vede pubblicate diverse canzoni provenienti dagli archivi del cantante-autore-chitarrista di Milwaukee. Siccome le note biografiche sul personaggio le potrete leggere già nel post del titolare di questo blog, io mi limiterò alla recensione “nuda e cruda” del contenuto del box, che in tre CD più un DVD (ma esiste anche una versione audio singola intitolata Selections From The Vault) ripercorre tutto il cammino di Steve ponendo però l’accento su parecchie tracce sconosciute, con versioni alternate di pezzi noti, riletture dal vivo, cover incise in studio e addirittura ben cinque canzoni originali mai sentite prima. Steve aveva già pubblicato in passato qualche brano inedito, ma mai con una tale generosità: infatti su 52 pezzi totali (parlo della parte audio) ben 38 compaiono qui per la prima volta, e la bellezza del manufatto (una splendida confezione formato libro con numerose foto, note del noto giornalista David Fricke e crediti canzone per canzone, con in omaggio anche un poster, diverse cartoline e dieci plettri multicolori, oltre ad una suggestiva copertina lenticolare) è la ciliegina sulla torta che fa sì che il box sia da considerarsi imperdibile.

Sì, perché al suo interno troviamo davvero tantissima grande musica, da parte di un artista spesso sottovalutato e bistrattato dalla critica per la sua scelta, specie dagli anni settanta in poi, di specializzarsi nella scrittura di brani pop-rock di stampo californiano di sicuro impatto e grande successo (come se la capacità di scrivere hits di qualità fosse un demerito), tralasciando in parte il blues e la psichedelia di inizio carriera. Ma il blues è sempre stata la sua vera passione, ed in questo cofanetto ce n’è a volontà, sia in studio che soprattutto dal vivo, spesso in versioni lunghe ed infuocate. Non dimentichiamo che la SMB ha sempre avuto ottimi musicisti al suo interno, ed è stata anche trampolino di lancio per nomi del calibro di Boz Scaggs, Ben Sidran e Ross Valory (che diventerà il bassista dei Journey fino ai giorni nostri), oltre ad ospitare nei seventies il noto armonicista Norton Buffalo. Il box comprende anche dei brani editi, un po’ come American Treasure di Tom Petty, ma mentre nel caso del compianto rocker della Florida la scelta cadeva su canzoni meno conosciute, qua le hits non mancano, e nelle versioni più note (The Joker, Fly Like An Eagle, Abracadabra): sinceramente non capisco questa scelta, in quanto un neofita difficilmente si comprerà questo box, mentre i fan di Steve conoscono già questi brani a menadito (anche se riascoltarli fa sempre piacere). Ma passiamo ad una disamina disco per disco, premettendo che mi limiterò soltanto alle tracce mai sentite prima.

CD1. Il cofanetto comincia subito con tre inediti dal vivo, il primo dei quali è una straordinaria Blues With A Feeling di Little Walter, dieci minuti registrati nel 1969 in trio con Lonnie Turner e Tim Davis, un torrido slow blues che ci fa subito capire che Steve nel compilare il box ha fatto le cose sul serio: grande performance chitarristica del leader, ed è solo l’inizio. Una tosta versione della vibrante Don’t Let Nobody Turn You Around precede altri nove imperdibili minuti della fantastica Super Shuffle (siamo nel 1967), uno strumentale chitarristico a tutto ritmo nel quale il nostro ed i suoi compagni andavano già come treni: tra le cose più belle del box. Ci sono diverse versioni alternate di brani noti di Steve, a partire dall’hendrixiana Industrial Miltary Complex Hex, per proseguire con un’intima rilettura acustica di Kow Kow Calculator (1973, quattro anni dopo la versione originale), un demo del 1966 di Going To Mexico in cui Miller suona tutti gli strumenti, il sognante pop psichedelico Quicksilver Girl (con Scaggs alla seconda chitarra), una strepitosa Jackson-Kent Blues di otto minuti e mezzo anche meglio dell’originale ed una Seasons ancora con solo Steve alla voce e chitarra. Dal vivo abbiamo anche una fenomenale rilettura del classico di Robert Johnson Crossroads che non ha tanta paura di quella dei Cream (ma come suona Steve?) ed una scintillante Never Kill Another Man, acustica e folkeggiante con quattro voci all’unisono, molto CSN&Y. Dulcis in fundo, questo primo dischetto offre anche le prime due canzoni totalmente inedite, e se Hesitation Blues è una tenue ballata acustica che dura meno di due minuti, Say Wow è un gradevole midtempo blues che avrebbe potuto benissimo trovare posto su qualsiasi album del nostro.

CD2. I primi brani unreleased che troviamo sono due versioni della nota Space Cowboy, la prima solo strumentale ed embrionale (dura poco più di un minuto), mentre la seconda è registrata dal vivo nel ’73, ed è trascinante sebbene non incisa benissimo. Le “alternate versions” continuano con una doppia Rock’n Me (uno dei più grandi successi della SMB), la prima full band con Buffalo all’armonica e la seconda a livello di demo, una True Fine Love non particolarmente rifinita ma sempre molto bella, la grintosa The Stake, un blues di gran lusso, e due riletture di classici come My Babe di Willie Dixon e All Your Love (I Miss Loving) di Otis Rush, non inferiori a quelle finite rispettivamente su Living In The 20th Century e Wide River. Le chicche di questo secondo CD sono però le cover inedite registrate in studio: una potente Killing Floor (Howlin’ Wolf), blues e ritmo che vanno a braccetto, un’intensa Tain’t The Truth di Allen Toussaint, che assume la veste di una ballata anni sessanta, la coinvolgente Freight Train Blues di Roy Acuff, decisamente più blues che country (ma perché non pubblicarla?), una vibrante Double Trouble ancora di Otis Rush, ed una squisita Love Is Strange (Mickey & Sylvia, ma anche i Wings di Wild Life) dall’arrangiamento quasi reggae. La ciliegina sono i due brani scritti da Steve e mai sentiti prima, cioè il godibile rock’n’roll strumentale Echoplex Blues e soprattutto That’s The Way It’s Got To Be, una canzone davvero ottima, una calda ballata melodicamente impeccabile ed impreziosita dalla slide di Les Dudek, altro pezzo che non mi spiego come possa essere rimasto nascosto fino ad oggi.

CD3. Si inizia con una bella e rilassata registrazione live (1990) del blues di Jimmy Reed I Wanna Be Loved, in cui il nostro duetta chitarristicamente con il leggendario Les Paul, solo due chitarre ed un basso ma godimento alle stelle. Gli inediti di questo terzo dischetto sono perlopiù versioni alternate, comunque decisamente interessanti, a partire da una Fly Like An Eagle dall’arrangiamento più funky rispetto all’originale e registrata due anni prima. Poi abbiamo un demo chitarra-basso-batteria di The Window (canzone splendida in ogni caso), due ottime e vitali prime versioni di Mercury Blues e Jet Airliner ed una fluida Swingtown. Finale in deciso crescendo con una sontuosa Take The Money And Run dal vivo nel 2016 al Lincoln Center di New York con Jimmie Vaughan come axeman aggiunto ed una sezione fiati, strepitosa rilettura ricca di swing, seguita dall’ultimo inedito assoluto del box, Bizzy’s Blue Tango, una scintillante rock song strumentale dal mood coivolgente che giustamente è stata tirata fuori dai cassetti (è del 2004). Il cofanetto si chiude in maniera particolare, e cioè con due versioni molto diverse del blues di T-Bone Walker Lollie Lou: la prima è una registrazione inedita del 1951 proprio dello stesso T-Bone (con un pianista ed un bassista non accreditati) e proprio a casa di Steve, di fronte al padre del nostro che era amico del grande bluesman, mentre la seconda è eseguita dalla SMB ancora nel 2016 a New York con Vaughan, adattamento jazzato e decisamente raffinato.

Il DVD (che non ho ancora visto) contiene diverse cose molto interessanti, a partire da un concerto del 1973 (Don Kirshner Rock Concert) di undici pezzi, seguito da due brani del 1990 con Les Paul e varie cose come la partecipazione della SMB al mitico Monterey Pop Festival del 1967, due canzoni al Fillmore West nel 1970, un pezzo del ’74 insieme a James Cotton, Abracadabra in Michigan nell’82 e due brani tratti dall’Austin City Limits del 2011.

Se quest’anno a Natale volete farvi fare un bel regalo, questo cofanetto potrebbe essere un’ottima idea.

Marco Verdi

Apparsi Quasi Dal Nulla, Ecco A Voi Una Bella (Ri)Scoperta: The Perth County Conspiracy!

the perth county conspiracy

The Perth County Conspiracy – Perth County Conspiracy – Flashback Records            

Di tanto in tanto appaiono dal nulla pubblicazioni discografiche relative a solisti o gruppi assolutamente ignoti ai più: anche se in questi tempi di internet con un click è facile fare una ricerca, naturalmente sempre però se sapete il soggetto del vostro interesse, in caso contrario, soprattutto in ambito musicale (ma anche negli altri) risulterebbe difficile e dai tempi biblici fare delle ricerche che spaziano da Aardvark a Zuzzurellonis (dei primi garantisco l’esistenza, sui secondi meno) per placare la vostra vorace fame di conoscenza. In effetti dei Perth County Conspiracy qualcosa in rete si trova: band canadese attiva tra il 1969 e il 1977, ha “pubblicato”, si fa per dire, alcuni dischi in quel periodo (un paio anche per la Columbia Canada), la cui reperibilità, soprattutto nel caso di quello di cui stiamo per parlare, era molto problematica, visto che il LP fu pubblicato dalla CBC, la Canadian Broadcasting Corporation, l’emittente di stato locale, in una tiratura di “ben” 250 copie.

Il gruppo, uno dei classici collettivi, anche in parte politicizzati come in quegli anni era spesso cosa comune, ruotava intorno a due musicisti Richard Keelan e Cedric Smith, soprattutto il secondo anche con forti interessi teatrali e cinematografici, e che tuttora svolge una attività di attore e doppiatore sul suolo canadese. Questa a grandi linee la storia, ma nel CD (o nella ristampa del vinile se preferite) c’è un succoso libretto di 16 pagine che racconta in dettaglio la storia della band: il curatore del dischetto in questione è Richard Morton Jack, un appassionato ed esperto giornalista inglese, ferratissimo soprattutto sulla psichedelia, sul  folk e sull’underground in generale, scrive su Mojo, Q e Record Collector, ha fondato la Flashback Records e prima era il titolare dell’etichetta Sunbeam. Sulla copertina del CD troviamo due personaggi barbuti e lungocriniti, che musicalmente si ispirano al folk “alternativo” imperante in quegli anni, pensate a Tim Buckley, Tim Hardin, Fred Neil, Tom Rush, ma anche Nick Drake e Donovan, tutti personaggi ai margini del mainstream, ma di indubbia qualità.

Ovviamente i Perth County Conspiracy non sono a quei livelli, se no li conosceremmo da anni, ma nella continua ricerca degli appassionati di materiale “oscuro” da (ri)scoprire, un dischetto come questo ci può stare. Registrato nell’agosto del 1970, e pubblicato più o meno in contemporanea al disco per la Columbia che mescolava Shakespeare e altri autori teatrali alla musica, e che forse profeticamente si intitolava The Perth County Conspiracy Does Not Exist, questo “nuovo” dischetto mescola materiale originale di Keelan e Smith (aiutati dal bassista Michael Butler) a tre cover d’autore di buona fattura. Le voci dei due sono piacevoli ed interagiscono in modo efficace, mentre anche a livello strumentale, per quanto il suono sia scarno e basico, il disco non dispiace per nulla: tra i musicisti che frequentavano i loro stessi locali in quello scorcio di anni ’60 c’erano anche Chuck Mitchell, con la moglie Joni, con la quale, nell’iniziale, morbidamente deliziosa, Welcome Surprise, scritta da Keelan, c’è un comune uso del dulcimer, che accentua lo stile folk del brano, mentre in Take Your Time, scritta a due mani dai due, che la cantano in alternanza, c’è una maggiore varietà di suoni, grazie alla presenza delle percussioni e all’arrangiamento più complesso che rimanda a certo psych-folk dell’epoca. If You Can Want è una cover di Smokey Robinson (ebbene sì), che alivello sonoro con il soul non ha rapporti, ma forse veniva dalla provenienza di Detroit di Keelan, che come Smith, inglese di origine, era un canadese trapiantato, comunque il brano è più mosso e bluesy, con un bel giro di basso e le voci che si intrecciano con classe e brillantezza.

Woman For All Seasons è una bella ballata melanconica, cantata da Cedric Smith, la cui voce risonante ricorda quelle di Buckley e Hardin, affascinante e profonda, con una chitarra elettrica a vivacizzarla. Vivace è anche la cover, con elementi orientaleggianti e quasi freak-folk, di Hurdy Gurdy Man di Donovan, in cui risalta la bella melodia del brano del menestrello scozzese, Mr. Truthful Licks è quella che più ricorda lo stile dei duo vocali dell’epoca, Simon & Garfunkel, ma anche Williamson e Heron dell’Incredible String Band. So Many Things, con un flauto a percorrerla, rimanda di nuovo alle ballate folk del primo Tim Buckley, mentre Lace And Cobwebs, sempre di Smith, potrebbe ricordare lo stile di Hardin, oppure di Nick Drake, che però all’epoca nessuno conosceva. HIndsight di Keelan, di nuovo cantata a due voci, con un bel piano quasi alla Laura Nyro come strumento guida è un’altra buona composizione che conferma il valore dei due, mentre in conclusione troviamo una bella e lunga versione corale della classica I Shall Be Released di Dylan, cantata dal cantautore americano Terry Jones, uno dei vari “Cospiratori” che hanno aiutato il duo a realizzare questo album che riemerge dalle nebbie del tempo, non un capolavoro sicuramente ma un bel disco che gli amanti della buona musica sicuramente apprezzeranno. Una bella (ri)scoperta.

Bruno Conti

Correva L’Anno 1968 7. Una Rara Occasione In Cui La “Ristampa” Forse Supera L’Originale. Big Brother & The Holding Co. – Sex Dope & Cheap Thrills

Big Brother And The Holding Company Sex Dope And Cheap Thrills

Big Brother & The Holding Co. – Sex, Dope & Cheap Thrills – 2 CD Columbia Legacy

Dei tanti dischi che hanno festeggiato il 50° Anniversario dalla loro uscita nel 1968, forse Cheap Thrills, almeno sulla carta, era uno dei meno attesi. Ma il disco all’epoca, oltre a confermare l’inarrestabile ascesa di Janis Joplin con i suoi Big Brother, che era iniziata l’anno prima con la splendida esibizione al Monterey Pop Festival, fu anche uno dei dischi di maggior successo di quell’anno: otto settimane consecutive al numero 1 delle classifiche di Billboard ed oltre due milioni di copie vendute. Non male per un album che allora fu accolto in maniera controversa, con parecchi critici che lo recensirono tiepidamente, e anche nel 2003 nella lista dei 500 Più Grandi Album di Tutti I Tempi della rivista Rolling Stone, il disco fu inserito solo al 338° posto! Ma devo dire che mi sembra uno di quelli che sono invecchiati meglio: forse è molto legato al periodo e alla scena musicale che rappresenta, la controcultura hippy, pacifica e psichedelica (sia per l’uso delle sostanze che per la musica) della California  di Haight-Ashbury, San Francisco, ma il fascino della voce di Janis Joplin e anche la bravura degli altri quattro musicisti, sono assolutamente da rivalutare.

Molti hanno spesso negato che esistesse un filone musicale univoco di gruppi musicali californiani dell’epoca, dai Grateful Dead ai Jefferson Airplane, dai Quicksilver appunto a  Big Brother & The Holding Co. (per ricordarne solo alcuni) erano effettivamente molto diversi tra loro, comunque legati dalle esibizioni comuni dal vivo in quelli che erano i “templi” della musica di San Francisco come Avalon Ballroom, Winterland e Carousel Ballroom (il futuro Fillmore West). In effetti i Big Brother furono gli unici ad avere successo (insieme ai Jefferson Airplane, già prima di loro) con un disco per certi versi “strano”: solo sette canzoni, di cui una lunghissima, Ball And Chain, l’unica registrata veramente dal vivo, mentre alle altre il produttore John Simon (con cui Janis non si prese molto bene), d’accordo con la casa discografica, aggiunse degli applausi posticci per dare l’idea di un concerto, mentre le canzoni furono tutte registrate in studio, tra marzo ed aprile del 1968 ai Columbia Recording Studios di New York, dove la band era giunta a febbraio per dei concerti all’Anderson Theatre e poi per l’inaugurazione del Fillmore East di Bill Graham. Il gruppo, reduce dal parziale insuccesso dell’omonimo e deludente album dell’anno precedente, pubblicato dalla piccola etichetta Mainstream, ora aveva come manager Albert Grossman, lo stesso di Dylan, e un contratto con la potente Columbia.

Big Brother And The Holding Company Sex Dope And Cheap Thrills cover

Dell’album “vero” non ne parliamo, perché la Columbia Legacy, per una volta ha avuto una brillante idea per festeggiare quel disco: un doppio CD che raccoglie il work in progress che portò a quell’album, attraverso trenta registrazioni, di cui 25 inedite, almeno come versioni se non come brani in sé, la ripresa del titolo originale Sex, Dope & Cheap Thrills che all’epoca fu censurato e qui viene restaurato (ma non la foto originale, per quella forse dovremo aspettare qualche altra ristampa futura). Ok, sono sempre le solite canzoni, le abbiamo sentite mille volte, anche in pubblicazioni illegali, ma pure in cofanetti, ristampe varie, antologie, però raccolte insieme hanno un loro fascino innegabile, non solo legato all’interesse dei fans, ma anche per i contenuti, spesso di assoluto interesse. L’apertura è affidata alla take 3 di Combination Of The Two, un pezzo di Sam Andrew, questo registrato in California, un arrangiamento vagamente latineggiante a livello percussivo, ma con la chitarra distorta e free form di Andrew in evidenza, e la Joplin in grande forma vocale, ben sostenuta dallo stesso Sam in un call and response vigoroso, anche I Need A Man To Love, un classico blues accorato di Janis, viene proposto in una versione decisamente più lunga ed improvvisata, sempre con la voce roca e potente a librarsi sull’accompagnamento del brano, dove spicca anche un piano e le due chitarre in libertà, il tutto con un suono perfetto e limpido grazie alla nuova masterizzazione effettuata per questo doppio.

La take 2 di Summertime è strepitosa, il famoso giro di chitarra mutuato da Bach introduce il classico brano di Gershwin, intenso e sofferto come sempre, uno dei capolavori assoluti dell’opera della cantante texana, con tutta la band che smentisce qualsiasi dubbio sia stato sollevato sulla loro capacità strumentale, con un arrangiamento raffinato dove le due chitarre e la sezione ritmica si intrecciano con una prestazione vocale fantastica: e pure la take 4 di Piece Of My Heart (scritta in origine da Bert Berns e Jerry Ragovoy per Erma, la sorella di Aretha Franklin) se la batte con l’originale conosciuto, in una versione superba, con il gruppo e soprattutto la sua cantante concentrati e precisi, a confermare l’impegno assoluto in studio che la band ebbe nell’approccio verso questo album epocale. Harry è uno strano pezzo e si capisce, pur nella sua brevità, perché non venne usato nel LP originale,Turtle Blues, dopo varie false partenze, si rivela per un blues duro e puro, in cui la Joplin rende omaggio alle voci del passato che l’hanno influenzata nei suoi anni formativi, la voce, in grande spolvero, non  ancora rovinata dagli stravizi imminenti, imperfetta ma unica, nobilita un brano che di per sé non è straordinario. Sul versante psichedelico Oh, Sweet Mary, cantata a più voci, è uno dei brani più vicini al sound dei Jefferson Airplane (la cui cantante Grace Slick firma, insieme al batterista Dave Getz, le interessanti ed esaustive note del libretto allegato al CD); a concludere la sequenza dell’album originale(con l’aggiunta di Harry), manca giusto una strepitosa e differente rilettura, sempre dal vivo, del brano “rubato” a Big Mama Thornton, ovvero Ball And Chain, dove la Joplin urla, strepita, si emoziona, come se la vita dipendesse dalla sua prestazione, e i Big Brother la sostengono egregiamente in una versione dove ancora una volta non si può non rimanere a bocca aperta per la carica emotiva dirompente che questo scricciolo sapeva infondere nelle sue esibizioni straordinarie.

A seguire sui 2 CD poi troviamo, oltre a differenti takes dei brani appena citati, diverse canzoni apparse, sotto altra forma, in vari album pubblicati nel corso degli anni: Roadblock, scritta con il bassista Peter Albin, uno dei pezzi già editi, sulla ristampa di Cheap Thrills, è una vivace psych-rock song di quelle corali e gagliarde, tipiche del gruppo, mentre Catch Me Daddy, che nella ristampa potenziata appariva dal vivo al Grand Ballroom, qui viene presentata in tre diverse takes, la n°1 soprattutto particolarmente tesa e vibrante, con Janis superba nella sua migliore versione da shouter rock’n’soul appassionata di scuola Stax, quella che più amiamo, una canzone che avrebbe fatto un figurone sul disco originale. It’s A Deal, era già uscita nel box Pearls, è un compatto garage-psych chitarristico cantato a più voci, in uno stile nuovamente vicino a quello dei Jefferson; dopo un breve conciliabolo per decidere il da farsi arriva anche la take 1 di Easy Once You Know How, un’altra “sassata” garage con qualche elemento pop à la Piece of My Heart, seguita da una How Many Times Blues Jam, che già dal titolo dice tutto, una jam spontanea improvvisata in studio dove i cinque + Simon al piano, si divertono su un tema blues-rock comunque vigoroso anche se incompiuto, e alla fine del 1° CD, le take n°7 di Farewell Song, una canzone di Andrew che dava il titolo ad una raccolta di inediti uscita nel 1982, dove appariva in formato live, un bel slow blues intenso dove la Joplin è ancora una volta risoluta e sicura di sé in una ennesima interpretazione da incorniciare.

Il 2° CD si apre con Flower In The Sun, altro brano presente come bonus sulla ristampa di Cheap Thrills, ulteriore pezzo di sapore rock, molto piacevole, ed è l’ultimo “sconosciuto”, a parte tre takes di Mysery’n, due insieme, la prima interrotta e ripresa, un ennesimo blues-rock elettrico di quelli torridi, cantata con il solito impegno da Janis, che in quei due mesi in studio a New York diede forse il meglio di sé. Comunque da non trascurare anche il trittico di Summertime, prima take splendida, peccato che nel finale si incartino, una superba Piece Of My Heart, incendiaria nella sua  energia quasi primeva, e una versione più lunga ed eccitante di Oh Sweet Mary, esuberante e tiratissima. E pure la versione n°7 di I Need A Man To Love è quasi struggente e dolorosa nel suo totale immedesimarsi nella protagonista della canzone, e con una parte strumentale da sballo. Per la verità oltre ad altre takes interessanti delle canzoni già apparse nei due CD, ci sarebbe ancora la cover di Magic Of Love del cantautore folk Mark Spoelstra, altro esempio della potenza devastante di Janis Joplin e dei suoi Big Brother. Una rara, ma non unica, occasione in cui la “ristampa” supera l’originale. Nei prossimi giorni troverete sul Blog anche un lungo Post in due parti dedicato agli anni del “Grande Fratello”.

Bruno Conti

Soprattutto Per Strettissimi Osservanti Del Garage Rock. The Shadows Of Knight – Alive In ’65

shadows of knight alive in '65

The Shadows Of Knight – Alive In 1965! – BlueRocket/Sundazed Music Mono

In questo continuo viaggio a ritroso nella musica degli Shadows Of Knight arriviamo ai primordi della band di Chicago. Nonostante la provenienza non parliamo di blues, qui siamo più in ambito garage rock, antesignano della musica psichedelica (e infatti li troviamo tra i protagonisti dei vari Nuggets), ma anche di omaggio alla musica della British Invasion e al primo rock and roll. E infatti in Alive in 1965! siamo all’incirca un anno prima della pubblicazione del loro primo album Gloria e la formazione quindi non è ancora quella definitiva. Il repertorio è composto solo di cover, dove non appare ancora il classico di Van Morrison e neppure i molti brani blues che caratterizzeranno il disco di esordio, ma nel tourbillon di canzoni che si susseguono nel concerto al Cellar Door di Arlington troviamo un piccolo Bignami della musica dell’epoca, tanto british beat ruvido e gagliardo, grinta “punk” e le prime avvisaglie di quello poi diverrà rock. La qualità del suono,  primitiva e ruvida, è comunque accettabile, direi quasi buona per un live del 1965, come in tutti i prodotti Sundazed, peccato per la voce un po’ lontana, quasi in cantina, forse perché è in Mono, ma gli strumenti sono ben definiti.

E’ ovvio che un prodotto del genere è molto di nicchia, indirizzato soprattutto agli appassionati di garage e psych, per quanto si ascolti in modo piacevole: la band è ancora embrionale, non ha sviluppato del tutto la potenza del successivo biennio 1966-1967, però  le canzoni scorrono pimpanti e veloci, 12 brani, 30 minuti scarsi in totale, ma un concerto a quei tempi durava così. Si parte con una interlocutoria Not Fade Away che finisce un po’ bruscamente, il pubblico che si intuisce pare veramente sparuto, ma la band li ripaga con una gagliarda Money (That’s What I Want) a metà strada tra Beatles e Stones, e a seguire una You Really Got Me molto fedele all’originale dei Kinks, peccato per le voci non perfettamente microfonate. Segue la presentazione della band che allora si chiamava ancora soltanto Shadows, e avrebbe cambiato nome per non confondersi con l’omonimo gruppo inglese, ottima versione a tutto riff di Carol , e una cover tra surf e garage della popolare Rawhide, ancora Chuck Berry di cui riprendono pure Memphis, Tennessee, non manca la intermission con breve sigletta musicale, prima di riprendere a darci dentro di gusto con It’s All Right.

Diciamo che la tecnica non è il loro forte ma l’entusiasmo non manca, e rispetto ai due Live del 1966 non c’è nessun brano in comune. Heart Of Stone è un altro brano degli amati Rolling Stones, uno dei rari momenti in cui il ritmo rallenta e ci scappa anche un assolo di chitarra di Warren Rogers, mentre anche i Kinks vengono nuovamente saccheggiati con All Day And All The Night. A voler proprio essere pignoli nessuno dei brani proposti si avvicina alla qualità degli originali, tutto molto minimale per quanto selvaggio, come conferma il finale con I’m A King Bee, l’unica concessione ad un blues “bastardo” e dove fa capolino perfino una slide appena accennata, nonché uno degli inni del movimento garage-psych ovvero Louie Louie che precede la stonesiana (Get Your Kicks On) Route 66 di nuovo carpita dal maestro Chuck Berry. Saluti frettolosi al pubblico, ma zero applausi e fine delle trasmissioni: un CD, lo ribadisco, indirizzato soprattutto agli stretti osservanti del garage rock.

Bruno Conti

Chitarre A Go-Go, Tra Psych, Rock, Television, Richard Thompson E Libera Improvvisazione! Chris Forsyth & The Solar Motel Band – The Rarity Of Experience

chris forsyth the rarity of experience

Chris Forsyth & The Solar Motel Band – The Rarity Of Experience – 2 CD No Quarter Records

Chris Forsyth è un chitarrista americano, in azione già dagli anni ’90, quindi non un pivellino: uno che agli inizi della sua carriera si muoveva in territori alternative folk, drone music, improvvisazione allo stato puro, anche in ambito quasi avanguardistico e post-rock (pensate a cose tipo Glenn Branca, LaMonte Young e altri, che comunque un aggancio sia pure flebile con rock e blues ce l’hanno), collaborazioni con Steve Gunn e Meg Baird, poi ha “scoperto” Grateful Dead e Quicksilver, Television, Richard Thompson e un certo approccio più rock, fondando la Solar Motel Band, un quartetto che esordisce con un Live nel 2013, poi pubblica Intensity Ghost a fine 2014 https://www.youtube.com/watch?v=YEZJmN31CZs  ed ora, con un nuovo chitarrista in formazione, Nick Millevoi, approda a questo doppio The Rarity Of Experience, dove vengono confermati il bassista Peter Kerlin (anche alla chitarra quando serve) e l’ottimo batterista Steven Urgo, oltre alle tastiere di Shawn Edward Hansen. Diciamo che si tratta di uno dei soliti doppi CD “brevi”, intorno ai 72 minuti di durata, probabilmente per aderire alla mistica dell’album doppio, un classico del rock, 10 brani in tutto, di cui tre oltre i dieci minuti di durata, prettamente strumentali, con le parti cantate che se arrivano ai due minuti in tutto l’album è già tanto.

Per il resto chitarre, chitarre, e ancora chitarre, ma di quelle da gustare a fondo, quasi sempre in modalità improvvisativa o di ricerca sonora, in quello stile che fu caro appunto alle band psych-rock della fine anni ’60, ma anche a band come i Television, di cui il gruppo esegue dal vivo una poderosa Little Johnny Jewel (con citazione iniziale di Hendrix), o a solisti come Richard Thompson, del quale i Solar Motel ci regalano una fedele cover di Calvary Cross, come traccia conclusiva di questo The Rarity Of Experience. E chi legge questo Blog sa quanto ami il chitarrista inglese di cui considero quel brano uno delle punte di diamante della sua scintillante opera, soprattutto in ambito solistico, con un assolo tra i più lancinanti ed intensi mai regalati alla storia del rock https://www.youtube.com/watch?v=R8i61cG8Glk . Forsyth e Millevoi fanno del loro meglio per riprodurre quella memorabile cavalcata chitarristica, anche se la prima parte, specie all’inizio, quando il testo del brano viene più che altro recitato, è un piccolo passo falso poi riscattato dalla feroce veemenza della parte strumentale. Veemenza solista che viene subito a galla nel disco, fin dalle prime note di Anthem I, un pezzo dove il sound dei Television di Verlaine Lloyd sembra la stella polare delle twin guitars di Forsyth e soci, che poi si espandono ed elaborano il loro approccio nella gloriosa Anthem II, dove il mood del brano pesca anche nel bacino della psichedelia pura californiana dei Quicksliver di Cipollina Duncan, dove la chitarra lancinante e acida di Chris Forsyth, ben sostenuta dal vorticoso drumming di Urgo, ci riporta in territori sonori che credevamo dimenticati da anni. E questo, a ben vedere, è rock, di quello di grande qualità, pure se, non sempre di facile fruibilità, ma quando funziona, come in questi brani, e nelle due parti di The Rarity Of Experience, di cui la seconda parte, con il suo riff ciclico, è una sorta di Marquee Moon per i nostri giorni, è una vera gioia per i padiglioni auricolari.

Non tutto è “semplice” e facilmente fruibile, The First Ten Minutes Of Cocksucker Blues, una sorta di colonna sonora per la famosa pellicola “vietata” degli Stones https://www.youtube.com/watch?v=9DDHj-TUOVA , già nel loro repertorio Live, è, per dirla alla Sacchi o Trapattoni di Mai Dire Gol, tra l’ostico e l’agnostico, pura improvvisazione jazz dove il sax e la tromba di Daniel Carter aggiunti alle chitarre, sfidano la pazienza dell’ascoltatore, anche se in questo ambito ci sta. Però in brani più complessi come come la lunga High Castle Rock si percepiscono anche echi di Grateful Dead e dei primi Pink Floyd, sempre movimentati dallo stile percussivo quasi alla Keith Moon di Urgo, che lancia nella stratosfera le lunghe improvvisazioni dei due chitarristi, anche all’unisono a tratti, con le tastiere a creare un tappeto soffice di coloritura sonora. Harmonius Dance è un’oasi di serena e tranquilla musica quasi pastorale, sempre a cavallo tra scorribande sonore e segmenti che possono ricordare il miglior rock progressivo, quello più ricercato, etereo e sognante, dove le chitarre reiterano continuamente gli stessi giri d’accordi in una sequenza quasi circolare che continua a rincorrersi. Boston Street Lullaby potrebbe addirittura ricordare il sadcore rarefatto di band come i Red House Painters o i Sun Kil Moon di Mark Kozelek, in una sorta di dream pop minimale. Prima di arrivare alla conclusiva The Calvary Cross incontriamo  il lento e solenne crescendo di Old Phase una ulteriore occasione per incontrare di nuovo le deliziose traiettorie incrociate delle due chitarre soliste, veramente splendide nelle loro sonorità sognanti ed aggressive, a seconda dei momenti. Senza dimenticare che il tutto viene offerto con indubbia perizia tecnica allo strumento e un gusto particolare per la ricerca di sonorità spesso raffinate ed eleganti.

Bello ed affascinante, da sentire!

Bruno Conti