Chitarre A Go-Go, Tra Psych, Rock, Television, Richard Thompson E Libera Improvvisazione! Chris Forsyth & The Solar Motel Band – The Rarity Of Experience

chris forsyth the rarity of experience

Chris Forsyth & The Solar Motel Band – The Rarity Of Experience – 2 CD No Quarter Records

Chris Forsyth è un chitarrista americano, in azione già dagli anni ’90, quindi non un pivellino: uno che agli inizi della sua carriera si muoveva in territori alternative folk, drone music, improvvisazione allo stato puro, anche in ambito quasi avanguardistico e post-rock (pensate a cose tipo Glenn Branca, LaMonte Young e altri, che comunque un aggancio sia pure flebile con rock e blues ce l’hanno), collaborazioni con Steve Gunn e Meg Baird, poi ha “scoperto” Grateful Dead e Quicksilver, Television, Richard Thompson e un certo approccio più rock, fondando la Solar Motel Band, un quartetto che esordisce con un Live nel 2013, poi pubblica Intensity Ghost a fine 2014 https://www.youtube.com/watch?v=YEZJmN31CZs  ed ora, con un nuovo chitarrista in formazione, Nick Millevoi, approda a questo doppio The Rarity Of Experience, dove vengono confermati il bassista Peter Kerlin (anche alla chitarra quando serve) e l’ottimo batterista Steven Urgo, oltre alle tastiere di Shawn Edward Hansen. Diciamo che si tratta di uno dei soliti doppi CD “brevi”, intorno ai 72 minuti di durata, probabilmente per aderire alla mistica dell’album doppio, un classico del rock, 10 brani in tutto, di cui tre oltre i dieci minuti di durata, prettamente strumentali, con le parti cantate che se arrivano ai due minuti in tutto l’album è già tanto.

Per il resto chitarre, chitarre, e ancora chitarre, ma di quelle da gustare a fondo, quasi sempre in modalità improvvisativa o di ricerca sonora, in quello stile che fu caro appunto alle band psych-rock della fine anni ’60, ma anche a band come i Television, di cui il gruppo esegue dal vivo una poderosa Little Johnny Jewel (con citazione iniziale di Hendrix), o a solisti come Richard Thompson, del quale i Solar Motel ci regalano una fedele cover di Calvary Cross, come traccia conclusiva di questo The Rarity Of Experience. E chi legge questo Blog sa quanto ami il chitarrista inglese di cui considero quel brano uno delle punte di diamante della sua scintillante opera, soprattutto in ambito solistico, con un assolo tra i più lancinanti ed intensi mai regalati alla storia del rock https://www.youtube.com/watch?v=R8i61cG8Glk . Forsyth e Millevoi fanno del loro meglio per riprodurre quella memorabile cavalcata chitarristica, anche se la prima parte, specie all’inizio, quando il testo del brano viene più che altro recitato, è un piccolo passo falso poi riscattato dalla feroce veemenza della parte strumentale. Veemenza solista che viene subito a galla nel disco, fin dalle prime note di Anthem I, un pezzo dove il sound dei Television di Verlaine Lloyd sembra la stella polare delle twin guitars di Forsyth e soci, che poi si espandono ed elaborano il loro approccio nella gloriosa Anthem II, dove il mood del brano pesca anche nel bacino della psichedelia pura californiana dei Quicksliver di Cipollina Duncan, dove la chitarra lancinante e acida di Chris Forsyth, ben sostenuta dal vorticoso drumming di Urgo, ci riporta in territori sonori che credevamo dimenticati da anni. E questo, a ben vedere, è rock, di quello di grande qualità, pure se, non sempre di facile fruibilità, ma quando funziona, come in questi brani, e nelle due parti di The Rarity Of Experience, di cui la seconda parte, con il suo riff ciclico, è una sorta di Marquee Moon per i nostri giorni, è una vera gioia per i padiglioni auricolari.

Non tutto è “semplice” e facilmente fruibile, The First Ten Minutes Of Cocksucker Blues, una sorta di colonna sonora per la famosa pellicola “vietata” degli Stones https://www.youtube.com/watch?v=9DDHj-TUOVA , già nel loro repertorio Live, è, per dirla alla Sacchi o Trapattoni di Mai Dire Gol, tra l’ostico e l’agnostico, pura improvvisazione jazz dove il sax e la tromba di Daniel Carter aggiunti alle chitarre, sfidano la pazienza dell’ascoltatore, anche se in questo ambito ci sta. Però in brani più complessi come come la lunga High Castle Rock si percepiscono anche echi di Grateful Dead e dei primi Pink Floyd, sempre movimentati dallo stile percussivo quasi alla Keith Moon di Urgo, che lancia nella stratosfera le lunghe improvvisazioni dei due chitarristi, anche all’unisono a tratti, con le tastiere a creare un tappeto soffice di coloritura sonora. Harmonius Dance è un’oasi di serena e tranquilla musica quasi pastorale, sempre a cavallo tra scorribande sonore e segmenti che possono ricordare il miglior rock progressivo, quello più ricercato, etereo e sognante, dove le chitarre reiterano continuamente gli stessi giri d’accordi in una sequenza quasi circolare che continua a rincorrersi. Boston Street Lullaby potrebbe addirittura ricordare il sadcore rarefatto di band come i Red House Painters o i Sun Kil Moon di Mark Kozelek, in una sorta di dream pop minimale. Prima di arrivare alla conclusiva The Calvary Cross incontriamo  il lento e solenne crescendo di Old Phase una ulteriore occasione per incontrare di nuovo le deliziose traiettorie incrociate delle due chitarre soliste, veramente splendide nelle loro sonorità sognanti ed aggressive, a seconda dei momenti. Senza dimenticare che il tutto viene offerto con indubbia perizia tecnica allo strumento e un gusto particolare per la ricerca di sonorità spesso raffinate ed eleganti.

Bello ed affascinante, da sentire!

Bruno Conti

Piccole Gemme Dal Passato! Country Weather – San Francisco 1969-1971

country weather 1969-1971

Country Weather – Country Weather San Francisco 1969-1971 – Classic Music Vault

“E questi da dove sono sbucati?”. Mi auto cito, ma è la prima cosa che mi è venuta in mente quando mi sono trovato tra le mani questo CD dei Country Weather: certo, per quanto uno possa fare mente locale, una band che nella sua breve vita musicale ha pubblicato un solo disco, inciso su una facciata e con cinque brani, in tiratura di 50 copie non rimane impresso nella mente. Poi però leggi le note del dischetto, questo nome mi ricorda qualcosa! Prendi il tuo bel Box della Rhino di Love Is The Song We Sing, San Francisco Nuggets 1965-1970,e tac, eccoli lì, CD 2, brano 17, Country Weather – Fly To New York! Secondo alcuni uno dei segreti meglio custoditi della San Francisco psichedelica di quegli anni, secondo altri, un’impronta sulla spiaggia, che non ha lasciato segni.

love is the song we singcountry weather vinile

Nel frattempo inizi ad ascoltare: il compilatore del CD ed estensore delle note Mike Somavilla, che ha assemblato questi brani, ha seguito un percorso non cronologico, si parte quindi dalla fine con quattro brani registrati nel 1971 al The Church di San Anselmo, CA, qualità sonora non eccelsa ma buona e anche il contenuto, interessante, anche se forse non giustifica completamente l’interesse creatosi intorno a questo progetto, Over And Over, un piacevole country-rock vagamente Bydsiano ultimo periodo, belle voci e armonie di Dave Carter e Greg Douglass (eppure, cazzo, ops, anche questo nome mi dice, non sarà mica il chitarrista della Steve Miller Band? Si, è proprio lui!), tipico suono dell’epoca, Boy Without A Home che è decisamente più rock, il suono si avvicina a Jefferson Airplane, Quicksilver, Country Joe, Creedence persino, con la chitarra di Douglass che comincia a viaggiare, e ancor di più in Out On The Trail, con aperture quasi stonesiane e la bella ballata corale con uso slide che risponde al nome di Yes That’s Right. Insomma niente da perderci la testa, un gruppo come ce n’erano mille nella Bay Area in quegli anni. Balzo indietro, siamo nel 1969, nel pieno del boom di San Francisco, Bill Graham li chiama ad aprire a Fillmore West e Winterland Ballroom per Big Brother, Quicksilver, Spirit, Country Joe e quindi il gruppo incide questo promo di 5 brani da mandare alle radio: Why Time Is Leaving Me Behind  è puro acid psychedelic rock, morbido ma interessante e “strano”, a un certo punto sembra finito, con la puntina che rimbalza sull’ultimo solco, ma poi riparte, New York City Blues è un blues acidissimo degno delle migliori cose di Country Joe o dei Big Brother, con la chitarra di Douglass in primo piano https://www.youtube.com/watch?v=07PpMDhqY5o , Carry A Spare ricorda moltissimo i Jefferson Airplane a trazione Kaukonen, sempre acid-rock di grande spessore, Fly To New York, il loro brano più noto, unisce sonorità californiane ai primi Pink Floyd, quelli più sperimentali con risultati notevoli, Black Mountain Rag è un piccolo frammento strumentale destinato ad essere ampliato nelle loro esibizioni Live.

Il decimo brano There I’ve Known, è l’unico inedito di questo album, ricorda il country-rock acido di New Riders, Grateful Dead, Manassas.  (l’unico non contenuto nel doppio vinile uscito per la svizzera RD Records nel 2005, con due brani dal vivo in più!!). A questo punto arriva la parte più interessante, cinque brani dal vivo registrati tra il 31 luglio e il 1° agosto al Walnut Creek Civic Center, nei sobborghi di San Francisco, da dove proveniva la band: sono quasi quaranta minuti che dimostrano perché la band era considerata tra le migliori del tempo, I Don’t Know, un brano a cavallo tra country-rock e boogie, con il basso di Dave Carter e  la poderosa batteria di Bill Baron  a sostenere le evoluzioni della chitarra dell’ottimo Greg Douglass, belle armonie vocali e tanta grinta, (Pakistan) Ring Around The Moon, niente a che vedere con la musica orientale, il brano meglio inciso dell’album, ci permette di godere ancora del sano rock, poi estrinsecato nella lunghissima, circa 15 minuti, Wake Me Shake Me, un brano che non aveva nulla da invidiare alla versione che ne facevano ai tempi i Blues Project, poderoso rock-blues tra Cream, Canned Heat e i Jefferson Airplane più allupati, un assolo di chitarra tira l’altro, non manca quello di basso, anche con fuzz, di Dave Carter che non ha nulla da invidiare a Jack Bruce o Larry Taylor, bisogna solo alzare il volume per gustarsi il tutto, fino all’immancabile assolo di batteria di Baron, più che “stoner rock” che sarebbe arrivato negli anni ’90 è stoned rock, però suonavano i ragazzi. Questa sarebbe stata la conclusione del concerto ma trattandosi di due serate diverse, per la strana sequenza dei pezzi troviamo ancora una lunghissima versione di Fly To New York, degna di Happy Trails  e lo strumentale Black Mountain Rag, entrambe con un grande Greg Douglass alla chitarra. Una bella (ri)scoperta!

Bruno Conti

Nome Intrigante, La Musica Un Po’ Meno! Kings Road Band – Spiral Stares

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Kings Road Band – Spiral Stares – Self Released

Sono un quartetto, vengono da Los Angeles, California, la loro musica si ispira a quella di Doors, Hendrix, Stones, Janis Joplin e molti altri, un misto di rock, blues elettrico e psichedelia. Wow! O così almeno recita la biografia della King Road Band https://www.youtube.com/watch?v=uG-HTDpCCQs . Ci sono due Hernandez in formazione, Carlos e Gloria, anche dai lineamenti somatici rilevati dalle foto paiono fratelli, quali in effetti sono, lui alle chitarre, lei alla voce: e qui sta l’inghippo. Musicalmente mi ritrovo con le fonti di ispirazione, l’iniziale Follow The Light addirittura ha qualche tocco à la Jefferson Airplane, con la chitarra di Carlos che traccia delle linee ispirate a quel sound e dei tocchi alla solista che potrebbero venire dai primi brani dei Big Brother, mentre l’organo di Charlie Fountaine rafforza questa vicinanza d’intenti ai Doors, anche per l’uso dei pedali, come faceva Manzarek, per sostituire il basso che non c’era in formazione https://www.youtube.com/watch?v=2mM6qG2Gyl8 . Il problema è che alla voce non ci sono Grace Slick, Janis Joplin, né tantomeno Jim Morrison, ma una ragazza dalla voce che per quanto tagliente la si voglia dipingere, sembra più una pallida controfigura (e ho detto tutto) di Susanna Hoffs delle Bangles. Forse, ma forse, anche per il tipo di voce, si potrebbero accostare agli X di Exene Cervenka e John Doe, che però erano molto più punk ed incazzati e in seguito hanno avviato una carriera all’insegna della roots music più rigorosa.

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Tornando alla Kings Road Band (da non confondere con i Kings Road, che erano molto meglio), musicalmente, pur con questa tendenza revivalistica spinta (che dal vivo si estrinseca anche in spettacoli di luci stroboscopiche molto sixties), sono anche validi, gli intrecci di chitarre e organo ogni tanto si spingono in territori psych più spinti, come nella lunga, conclusiva Third Eye Encounters, che oscilla tra Big Brother e Quicksilver, e quando la voce tace (si è capito che non mi piace molto, non è un fatto personale, un semplice parere, magari ad altri, più versati nell’indie rock, potrebbe anche essere gradita), il dualismo chitarra-organo sviluppa delle interessanti atmosfere. Altrove si potrebbero tracciare paragoni con il psych-pop divertente di ? & The Mysterian o Sam The Sham & The Pharaos (quelli di Wooly Bully), ad esempio in She’s Only Beautiful Sometimes, che potrebbe essere un singolo potenziale, da unire al riff alla Volunteers di Follow The Light.

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Altrove, ad esempio in Old Friend (l’altro brano che supera i sei minuti), quando Fountaine passa al piano, il suono si fa più classic rock, anche in Tears Of the Sun o addirittura vira al boogie, come nella scatenata Creatures Of the Night. Elementi più dark e ricercati nella lenta Killing You o bluesati come in Stacy’s Jam, che tiene fede al nome e cerca più l’improvvisazione. Però la voce da ragazzina capricciosa ed umorale della Hernandez rovina gli sforzi meritevoli degli altri musicisti, mancherebbe il batterista George Liebel da ricordare, così li abbiamo citati tutti https://www.youtube.com/watch?v=JMsKPFAgZBU . Pare che a Los Angeles siano considerati creatori di “Good Vibrations” sin dal lontano 2011, anno della loro apparizione (forse anche prima https://www.youtube.com/watch?v=Py7Ie_Gz6lY), ma lo dice sempre il loro sito, crederci o no? L’impegno c’è, per il resto vedete voi!

Bruno Conti

Anche In Fondo Al Barile C’è Roba Buona! Ultimate Spinach – Live At The Unicorn, July 1967

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Ultimate Spinach – Live At The Unicorn, July 1967 – Keyhole Records

Ormai abbiamo quasi raschiato il fondo del barile, nell’ambito delle ristampe, quasi. In questi anni siamo arrivati alle ristampe dei vecchi bootleg, prima la Cleopatra Records, ora questa Keyhole, stanno pubblicando alcuni concerti della era psichedelica, artefatti che erano in versione pirata ed ora acquisiscono una versione “ufficiale”. I Quicksilver escono a decine, ma anche altri gruppi, come la Steve Miller Band, la band di Boz Scaggs, gli It’s A Beautiful Day, tutti a cura della stessa Keyhole, anche qualche titolo dei Velvet Underground e di Lou Reed. Pure questo CD degli Ultimate Spinach, band psichedelica di Boston, in azione sul finire degli anni ’60, è corredato da un bel libretto di una decina di pagine, ricco di informazioni e di pensieri forniti dal fondatore della band, Ian Bruce-Douglas, all’epoca dei fatti un ventenne ingenuo e poco avvezzo al mondo della musica, almeno a giudicare dalle sue parole e dalle reminiscenze sull’excursus del suo gruppo.

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Stando a quanto si dice nel libretto pare che i componenti degli Spinach non fossero un ensemble di amici, ma un gruppetto di personaggi intenti a farsi del male tra di loro, con manager e produttori che erano impegnati a cercare di fregarli nell’un caso e fare dei dischi esattamente opposti alle attese del buon Ian, nell’altro. Che, volendo, era un po’ la situazione tipica a quei tempi, con l’eccezione delle band di grande successo, gli altri improvvisavano molto, oltre che nella loro musica, anche nel gestire la propria carriera. La registrazione di questo concerto avviene nel luglio del 1967, in un piccolo locale di Boston, dove la band era stata ingaggiata, ancora priva di un concerto discografico, per una serie di sei settimane di concerti serali, più una matinée alla domenica: il nome completo del locale era Unicorn Coffee Shop, quindi si possono immaginare le dimensioni della “sala da concerto”.

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Addirittura la band, forse, era nella sua fase di passaggio da Underground Cinema a Ultimate Spinach, e non aveva registrato ancora nulla a livello discografico, quindi il repertorio era molto basato sulle cover, con alcuni brani originali, (tra cui (Ballad Of The) Hip Death Goddess e Mind Flowers, che sono quelli per cui sono ricordati ancora oggi), una psichedelia abbastanza ricercata che poteva ricordare per certi versi quella di gruppi come i Jefferson Airplane, anche perché i componenti del gruppo cantavano tutti, meno il bassista Richard Nese, e in formazione c’era la bella voce femminile della diciottenne Barbara Hudson, a cui si sarebbe aggiunta Priscilla Di Donato nel gennaio del 1968. Gli altri erano Geoffrey Winthrop alla chitarra solista e sitar, Keith Lahteinen alla batteria e il già citato Ian Bruce-Douglas al piano elettrico e 12 corde. Tra pasticche misteriose, LSD corretto alla stricnina e scontri interni doveva essere proprio un bel ambientino, comunque il primo album omonimo, pubblicato dalla MGM, la stessa dei Velvet, arrivò fino al 34° posto delle classifiche americane https://www.youtube.com/watch?v=_AdFvJ9iUDQ , anche se fu distrutto a livello critico da un certo Jon Landau, cosa che ancora oggi fa inc…re Bruce-Douglas non poco, anche se lui stesso è critico verso quel disco, dicendo che sperava di pubblicare un disco dalle sonorità corpose alla Jimi Hendrix, mentre per colpa del produttore Alan Lorber, finirono per avere un disco di bubblegum music.

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Probabilmente la verità sta nel mezzo, infatti il disco è stato poi rivalutato e la versione in CD della Big Beat fa la sua bella figura. La qualità sonora di Live At The Unicorn è quella di un buon bootleg, persino ottimo, rimasterizzato nei limiti del possibile, e si apprezza la grinta dell’iniziale chitarristica Hey Joe, un must dell’epoca https://www.youtube.com/watch?v=kGho-mLO_co , il gentile folk-rock psych di Get Together https://www.youtube.com/watch?v=ZC5WG9dqRIw , con le sue piacevoli armonie vocali, il mid-tempo pianistico di I Don’t Know Your Name, Funny Freak Parade con un improbabile “assolo” di kazoo di Barbara Hudson. Don’t Let These Years Go By addirittura non è riportata sulla copertina del CD, ma giuro che c’è, una leggiadra ballata vagamente folk con un liquido piano elettrico. Anche Don’t Cry For Me e Follow Me, cantata dalla Hudson hanno quest’aria folkeggiante per niente disprezzabile tipica dei tempi https://www.youtube.com/watch?v=dTxiVvczzCM , ma sono i brani conclusivi quelli che danno concretezza al gruppo e al concerto, Hip Death Goddess, ancora con la voce da soprano di Barbara, vagamente alla Nico, in evidenza, poi diventa una cavalcata acida e psichedelica con gli strumenti in libertà, alla Big Brother o Country Joe https://www.youtube.com/watch?v=VYWI7FzME3I  e la lunghissima, oltre 12 minuti, Mind Flowers, viaggia addirittura sui territori dei Quicksilver o dei Jefferson più improvvisativi e francamente smentisce l’asserzione di Bill Graham, che disse che il gruppo era il peggiore che avesse mai suonato al Fillmore https://www.youtube.com/watch?v=N60iusteLCU . Tutti possono sbagliare, e questo buon Live lo testimonia.                                                                 

Bruno Conti