Non E’ Ancora “Tale Padre Tale Figlio” Ma La Strada E’ Quella Giusta! Joachim Cooder – Over That Road I’m Bound

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Joachim Cooder – Over That Road I’m Bound: The Songs Of Uncle Dave Macon – Nonesuch/Warner CD

Sinceramente non mi ero mai interessato molto prima d’ora alla carriera solista di Joachim Cooder, figlio del grande Ry Cooder e dagli anni 90 presenza quasi fissa sui dischi del padre (compreso il mitico Buena Vista Social Club, ideato e patrocinato dal chitarrista californiano) come batterista e percussionista, una passione che fin da piccolo gli aveva trasmesso il leggendario Jim Keltner. I due lavori pubblicati da Joachim a suo nome finora, un album nel 2012 ed un EP nel 2018, non avevano ottenuto molti riscontri, e quindi non è che attendessi in maniera spasmodica un suo nuovo album. Le critiche più che positive ricevute dal suo ultimo CD, Over That Road That I’m Bound, mi hanno però convinto ad avvicinarmi a lui, e devo dire che dopo averlo ascoltato non mi sono pentito dell’investimento fatto. Come lascia intendere il sottotitolo del lavoro, The Songs Of Uncle Dave Macon, si tratta di un progetto di stampo decisamente “cooderiano” (nel senso di Ry), cioè l’omaggio ad un artista sconosciuto ai più ma di sicura importanza nella storia della nostra musica: nella fattispecie stiamo parlando appunto di Uncle Dave Macon, musicista, cantante, autore e banjoista attivo dagli anni venti fino alla morte sopravvenuta nel 1952, un personaggio poco noto ma che in seguito verrà soprannominato “il nonno della musica country”, visto che il ruolo di “padre” era già stato preso da Jimmie Rodgers.

Over That Road That I’m Bound è quindi un album di cover di pezzi scritti da Macon e di tradizionali resi popolari da lui, ma le versioni qui contenute sono proposte in riletture moderne ed attuali, con arrangiamenti di stampo contemporaneo che contrastano piacevolmente con le melodie di un tempo. Devo ammettere che quando ho letto i nomi di alcuni tra i musicisti in session, cioè papà Ry alle chitarre, basso e armonie vocali, Glenn Patscha al piano ed organo e Juliette Commagere (moglie di Joachim) alle voci ho pensato: “Ok, è un disco di Ry Cooder cantato dal figlio”: invece Ry si è “limitato” a suonare, mentre tutte le idee, i suoni e gli arrangiamenti sono farina del sacco di Joachim, che però qua e là palesa l’influenza del celebre genitore (ma mi sarei stupito del contrario). Il nostro si conferma un valido musicista (non c’è una vera e propria batteria nel disco, solo vari tipi di percussioni dal suono anche esotico, come ad esempio l’array mbira – che però è di origine americana – una via di mezzo tra un’arpa ed uno xilofono) e dimostra di essere anche un buon cantante. Ma il colpo di genio finale è stato quello di chiamare la bravissima Rayna Gellert, che con il suo splendido violino riesce ad impreziosire più di un brano, elevando da sola il livello di un disco già riuscito di suo.

Over That Road I’m Bound To Go apre il CD con un sottile gioco di percussioni, poi entra la voce limpida di Joachim a stendere una melodia di stampo decisamente folk, ben doppiato dal violino della Gellert (grande protagonista del disco, anche più di papà Ry), che nel finale prende il sopravvento. Ancora violino e percussioni introducono When Ruben Comes To Town, Joachim canta con un’inflessione tipica del padre ed il brano, una folk ballad moderna e cadenzata, è molto piacevole; Come Along Buddy vede il nostro all’array mbira, un coro femminile entra ogni tanto alle sue spalle ed il motivo è di stampo tradizionale ma arrangiato in modo decisamente attuale, con Ry che ricama con discrezione sullo sfondo, mentre Oh Lovin’ Babe è un blues dal mood orientaleggiante con il solito tappeto percussivo (una costante del disco), e Cooder Sr. che fa sentire la sua elettrica insieme a quella di Vieux Farka Touré, figlio di Ali. Splendida Tell Her To Come Back Home, una soave ballata dalla melodia toccante, voci sospese ed un delizioso accompagnamento per banjo, violino e poco altro, a differenza di Backwater Blues che torna dalle parti del folk, con percussioni e voce in primo piano ed un tessuto sonoro ricco anche se creato con pochi strumenti (ottimo come sempre il violino).

La breve Rabbit In The Pea Patch è quasi musica appalachiana tra folk e bluegrass, ed è finora quella con l’arrangiamento più tradizionale, Morning Blues ha ancora reminiscenze con la musica del padre, specie quella degli anni 70 in cui fondeva folk, blues e musica hawaiana, All In Down And Out è una ballata cantata a due voci, con l’esclusivo accompagnamento di banjo e le consuete percussioni dal suono etnico. Heartaching Blues è invece il pezzo più strumentato ed elettrico, e ricorda certi pezzi tra il blues e le sonorità moderne di quando i Los Lobos erano prodotti da Mitchell Froom (o ancora meglio della loro “spin-off band”, i Latin Playboys), mentre Molly Married A Traveling Man è l’ennesima ballad dal sapore tradizionale, stavolta con la slide acustica di Ry in evidenza assieme al solito violino; chiusura con When The Train Comes Along, dal bel motivo di fondo cantato quasi a cappella (ci sono solo piano e basso, ma suonati in punta di dita).

Un dischetto quindi piacevole questo “vero” esordio di Joachim Cooder, che non vi farà rimpiangere i soldi spesi, anche se in futuro auspico arrangiamenti più variegati con una minor incidenza delle percussioni.

Marco Verdi

Una Affacinante Cantautrice “Tradizionalista”. Diana Jones – Song To A Refugee

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Diana Jones – Song To A Refugee – Proper Records – CD – LP

Questa signora è diventata da qualche anno una “cliente” abituale di questo blog, infatti ce ne siamo occupati sia per l’uscita di High Atmosphere (11), comprensivo della complicata storia della sua vita https://discoclub.myblog.it/2011/05/08/bella-musica-e-anche-una-bella-storia-da-raccontare-diana-jo/  e Museum Of Appalachia Recordings (13) https://discoclub.myblog.it/2013/07/30/dal-tennessee-agli-appalachi-diana-jones-museum-of-appalachi/ , che indubbiamente erano influenzati dalle origini della sua famiglia, abbiamo tralasciato colpevolmente l’ottimo Live In Concert (15), per tornare ora con questo nuovo e importante lavoro Song To A Refugee. Questo disco mette in luce il problema dei rifugiati, raccontando le loro storie, anche su eventi della vita reale, che sono portatori di una vasta gamma di prospettive individuali e emotive, che non sono altro che il loro vissuto.

Diana Jones si avvale per l’occasione dei suoi inseparabili compagni di viaggio, che sono per l’occasione Jason Sypher e Joe DeJarnette al basso, Glenn Patscha e Mark Hunter al pianoforte, e Will Holshouser alla fisarmonica, con ospiti speciali come Richard Thompson, Steve Earle e la cantante Peggy Seeger (sorella del grande Pete Seeger), affidando la produzione all’autore e polistrumentista David Mansfield (in passato artefice in alcuni tour di Dylan) e a Steve Addabbo (Suzanne Vega, Shawn Colvin). Il viaggio della speranza inizia con le sonorità della fisarmonica di El Chaparral, un valzer della disperazione con il canto lamentoso della Jones e gli strappi della fisa, che evocano perfettamente la scena messicana, mentre la seguente I Wait For You racconta la storia di una donna sudanese venduta dal padre, il tutto raccontato sulle note del mandolino e violino di Mansfield, per poi passare alla title track Song To A Refugee, un brano dal grande pathos emotivo eseguito su una bella aria scozzese. Con la splendida We Believe You arriva la canzone più importante dell’album, dove Steve Earle, Richard Thompson, Peggy Seeger si alternano alla voce con Diana, su un tessuto melodico splendido, complice sempre il violino di David.

Brano seguito da Mama Hold Your Baby, dove si racconta la vicenda di una madre separata dal suo bambino, nella quale il sottofondo “bluegrass” con chitarra e mandolino è perfetto per raccontarne la storia, mentre Santiago è una sorta di ninna nanna sussurrata da Diana, sullo straziante violino di David. I racconti dolorosi proseguono con Ask A Woman, un brano dolcemente folk che vede in primo piano le armonie delle Chapin Sisters, a cui fanno seguito The Life I Left Behind accompagnata come sempre dal violino, e interpretata dalla Jones in uno stile che può ricordare la miglior Joan Baez, e una arpeggiata Where We Are solo chitarra, violino e voce, canzone di una struggente bellezza. Ci si avvia alla parte finale del viaggio con il valzer cadenzato di Humble, per poi tornare al duo Jones / Mansfield con Love Song To A Bird e The Sea Is My Mother, due brani riflessivi dove si raccontano prima le storie di una famiglia e poi di due sorelle che affrontano il pericolo della traversata in mare, per chiudere infine proprio con una struggente canzone d’addio The Last Words, con Glenn Patscha degli Ollabelle al pianoforte e la voce della Jones a sottolineare il tutto con empatia e compassione , in quello che è probabilmente il disco migliore della sua carriera.

Non tutte le canzoni di Song To A Refugee sono dirette o letterali, in quanto la nostra amica racconta una serie di storie dal punto di vista delle donne, a partire da vicende di bambini, sorelle, madri, sempre interpretate con voce dolorosa da questa nuova Emily Dickinson (la famosa poetessa americana), e cosa non trascurabile, in un lavoro che è stato inciso in pochi giorni, suonando tutti insieme in un piccolo studio, particolare che può passare inosservato, ma che un tempo, quando si suonava la “vera musica”, era una importante consuetudine. In definitiva questo nuovo lavoro della Jones non è un forse un disco facile da assimilare, ma si tratta di musica sincera ed essenziale, dove Diana Jones é peraltro ben assecondata da un manipolo di ottimi musicisti che la sorreggono in questo sincero omaggio alle problematiche sempre più attuali sul tema dei “rifugiati”.

Tino Montanari