Non Proprio Come I Suoi Primi Dischi, Ma E’ Sempre Un Bel Sentire! Southside Johnny & The Asbury Jukes – The Mercury Years

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Southside Johnny & The Asbury Jukes – The Mercury Years – Caroline International/Universal 3CD

Nella seconda metà degli anni settanta Southside Johnny, al secolo John Lyon, era considerato uno dei maggiori esponenti del cosiddetto “Jersey Sound”, un paio di gradini sotto Bruce Springsteen (che è sempre stato obiettivamente irraggiungibile per chiunque): lui ed i suoi Asbury Jukes, un gruppo formidabile che fondeva alla grande rock, soul e rhythm’n’blues di ispirazione Stax, avevano pubblicato per la Epic quattro splendidi album, tre in studio ed un raro promo live, sotto l’egida di Steven Van Zandt, all’epoca non ancora Little Steven, che li aveva prodotti ed aveva scritto la maggior parte delle canzoni (ed anche il Boss aveva dato una non trascurabile mano come autore). Quattro album che rivelavano influenze importanti come Sam Cooke, Gary U.S. Bonds, Marvin Gaye, The Temptations, The Marvelettes e chi più ne ha più ne metta, il tutto suonato con una grinta ed un feeling da vera rock’n’roll band e cantato da Johnny con una bellissima voce nera. (NDM: per chi non avesse questi album, è imperdibile il doppio CD uscito lo scorso anno The Fever: The Remastered Epic Recordings, che comprende anche per la prima volta sul supporto digitale il già citato promo live Jukes Live At The Bottom Line). Nel 1979 però Johnny era stato lasciato a piedi dalla Epic, e riuscì a negoziare un nuovo contratto con la Mercury, grazie al quale pubblicò due dischi in studio ed un live, stavolta su larga scala, tre album che però ebbero un successo molto scarso e che lasciarono di nuovo il nostro senza una casa discografica, all’alba di una decade (gli ottanta) che si rivelerà molto difficile per lui.

Oggi quel breve periodo in casa Mercury esce in un elegante boxettino rigido, intitolato senza troppa fantasia The Mercury Years, con dentro i tre album in questione, uno per ogni CD (e con una sola bonus track, peraltro non indispensabile) ed un libretto con foto, note e crediti. I due dischi di studio, The Jukes e Love Is A Sacrifice, non raggiungono i livelli dei primi tre album della band, anche per la scelta di affrancarsi dall’ombra di Van Zandt e Springsteen che infatti non vengono coinvolti in alcun modo, ed il bastone del comando per quanto riguarda il songwriting passa al chitarrista dei Jukes, Billy Rush, che se la cava comunque egregiamente pur essendo qua e là un po’ derivativo (gli altri membri del gruppo sono Allan Berger al basso, Kevin Kavanaugh alle tastiere, Steve Becker alla batteria, Joel Gramolini alla chitarra ritmica, più una sezione fiati di cinque elementi, i cui più noti sono Ed Manion al sax baritono e Richie “La Bamba” Rosenberg al trombone). I due dischi sono comunque più che buoni, e confermano i Jukes come una signora band di errebi, blue-eyed soul e rock’n’roll, con diverse canzoni che non avrebbero sfigurato nel periodo con la Epic, bilanciate da qualche brano più nella media; diverso è il discorso per il live Reach Up And Touch The Sky, che è la vera ragione per accaparrarsi questo box (ovviamente se già non ne possedete il contenuto): si tratta infatti di un disco dal vivo caldo, passionale, vibrante e sanguigno, uno dei grandi live album di quel periodo, dove energia, grinta e feeling vanno a braccetto magnificamente.

Ma andiamo con ordine, esaminando in breve i tre dischetti del box. The Jukes ha un inizio ottimo, con la potente ed energica All I Want Is Everything, un gustoso rock’n’roll with horns, seguita dalla splendida e luccicante I’m So Anxious, springsteeniana fino al midollo, con un bel riff di fiati ed un breve ma ficcante assolo chitarristico, e dalla deliziosa soul ballad Paris, calda, emozionante e contraddistinta da una melodia di sicuro impatto. Altri brani degni di nota sono la cadenzata Security, tra funky e swamp, con un suono grasso e sudaticcio che fa molto New Orleans, la fluida ed orecchiabile Living In The Real World, molto Van Zandt, la ritmata e trascinante I Remember Last Night, dove sembra di sentire il Willy DeVille di quegli anni, la sontuosa ballatona elettrica What In Vain, dal pathos notevole, per chiudere con la coinvolgente Vertigo, dal suono molto E Street Band (con fiati). Mentre la roccata Your Reply e l’errebi gradevole ma un filo troppo sofisticato e “pulitino” The Time, alla Rod Stewart del periodo per intenderci, sono da considerarsi dei riempitivi, seppur di lusso. Love Is A Sacrifice, che vede una ancora sconosciuta Patti Scialfa ai cori, è un gradino sotto il predecessore: un disco più rock e con un uso inferiore dei fiati, è scritto interamente da Rush (mentre in The Jukes interveniva anche altra gente, Johnny compreso), che purtroppo non è né Van Zandt né il Boss (e ci mancherebbe). Le belle canzoni comunque non mancano, come la tonica e vibrante Why, rock song che sembra una outtake di The River, la scintillante Love When It’s Strong, puro romanticismo da bassifondi, quasi fossimo di fronte ad un Tom Waits sotto steroidi, Murder, potente mix tra rock e soul (con piano e chitarre protagonisti), la squisita ballata Keep Our Love Simple, dal sapore sixties (ed ancora somiglianze con DeVille) e la roboante Why Is Love Such A Sacrifice, la più errebi del disco. Anche qui abbiamo episodi di livello inferiore, come Goodbye Love, grintosa ma nulla più, Restless Heart, un rockettino piuttosto innocuo, e On The Beach, pop song gradevole ma con la consistenza di un bicchiere d’acqua (presente anche come superflua bonus track in versione mono).

E veniamo al live Reach Up And Touch The Sky, che come ho già detto ci presenta il miglior Southside Johnny, nel suo ambiente naturale: il palcoscenico. Ci sono solo cinque estratti dai due album Mercury, tra cui le strepitose I’m So Anxious e All I Want Is Everything ed una Vertigo più torrida che mai; quattro pezzi vedono Springsteen come autore: Talk To Me, dal ritmo forsennato (con Manion che fa le veci di Clarence Clemons), la toccante Heart Of Stone, ma soprattutto una irresistibile Trapped Again, errebi-rock di gran lusso e tra i momenti migliori del CD, ed una lunga ed intensa The Fever, in cui i Jukes sembrano gli E Streeters. Solo uno dei brani è scritto da Little Steven, ma è la straordinaria I Don’t Want To Go Home, che è la signature song del repertorio dei nostri. Il resto sono cover, e se Take It Easy degli Eagles, appena accennata, è una specie di scherzo, decisamente seria è la rilettura del classico Stagger Lee, una imperdibile versione di otto minuti piena di ritmo ed altamente coinvolgente, con la band che è un treno ed i fiati sono in stato di grazia. Il gran finale è all’insegna di Sam Cooke, prima con un bel medley che mette insieme Only Sixteen, (What A) Wonderful World, You Send Me e A Change Is Gonna Come, poi con una emozionante Bring It On Home To Me, per finire con una gioiosa Having A Party divisa in due dalla scatenata Back In The U.S.A. (Chuck Berry), puro rock’n’roll.

Insieme al doppio antologico dello scorso anno, questo triplo offre una panoramica completa su uno dei gruppi migliori di quel periodo: una grande band e non certo, come qualcuno in passato ha affermato, uno Springsteen di serie B.

Marco Verdi

Ripassi Estivi 3: Come Chitarrista Niente Da Dire, Per Il Resto… Glenn Alexander & Shadowland

glenn alexander & shadowland

*NDB In effetti questo album rientra proprio a pieno diritto nella categoria dei “ripassi estivi”, considerando che il disco in origine era uscito nel luglio del 2016, ma visto che neppure del maiale si butta via nulla, recuperiamo anche questa uscita: buona lettura.

Glenn Alexander & Shadowland – Glenn Alexander & Shadowland – Rainbow’s Revenge CD

Glenn Alexander è un chitarrista originario di Wichita, Kansas, in attività da più di trent’anni, e nel corso del tempo coinvolto in una lunga serie di sessions ed iniziative varie (tra cui il combo jazz-rock-fusion Mahavishnu Project), ma è maggiormente noto per essere da qualche anno la chitarra solista degli Asbury Jukes di Southside Johnny. Il suo ultimo progetto in ordine di tempo è un gruppo di sette elementi (compreso sé stesso) da lui denominato Shadowland, un combo che propone una miscela di rock, blues, funky, soul e rhythm’n’blues, una sorta di Asbury Jukes di secondo piano: infatti il suono del gruppo non è molto diverso da quello della band capitanata da John Lyon, anche perché la sezione fiati è esattamente la stessa (Chris Anderson alla tromba, John Isley al sassofono e Neal Pawley al trombone), e pure il batterista Tom Seguso fa parte di entrambi i gruppi, mentre al basso troviamo Greg Novick ed alle armonie vocali una certa Oria, che non è altro che la figlia di Alexander (in qualità di ospiti troviamo anche l’organista dei Jukes, Jeff Kazee, e lo stesso Southside ospite all’armonica in un brano).

Glenn Alexander & Shadowland è quindi una sorta di session dei Jukes senza Johnny, e la differenza, sarò banale, si sente: Glenn è un ottimo chitarrista (se no non suonerebbe coi Jukes), ma forse non ha del tutto la statura adatta per fare l’artista solista, sia dal punto di vista compositivo che vocale. Il suo timbro infatti è discreto, ma manca di quella profondità necessaria se si affronta il tipo di musica proposta, va bene nei pezzi più rocciosi, ma nei brani più soulful nei quali servirebbero maggiori sfumature mostra la corda: rimane comunque un eccellente axeman, ed il gruppo (ma questa non è una sorpresa) suona che è un piacere, e quindi il disco alla fine, pur se non imprescindibile, risulta piacevole, alternando canzoni di buon spessore ad altre tagliate un po’ con l’accetta. If Your Phone Don’t Ring è una rock’n’roll song potente e chitarristica, con i fiati a dare più colore ed un ottimo assolo da parte di Glenn, che mostra che il manico c’è, ed una voce che qui non sfigura. Anche Earl Erastus è un pezzo piuttosto granitico, non originalissimo ma se vi piace il rock-blues chitarristico un po’ di grana grossa qui troverete trippa per i vostri gatti; Memphis Soul è invece un funky abbastanza riuscito, gradevole e con i fiati maggiormente dentro alla canzone, mentre Big Boss Man, il noto classico di Jimmy Reed, è rifatto in maniera non convenzionale: il blues c’è eccome, ma la ritmica ed i fiati le danno un tono errebi, e la chitarra fa benissimo la sua parte.

Con I Picked The Wrong Day (To Stop Drinkin’) si cambia registro, in quanto ci troviamo di fronte ad una ottima soul ballad con elementi gospel, molto classica e con un motivo fluido, anche se forse qui serviva un cantante con più profondità; la mossa Get A Life è un jumpin’ blues con fiati, puro Southside Johnny sound (e difatti Mr. Lyon compare all’armonica), solo che il cantante del New Jersey l’avrebbe cantata molto meglio, mentre la lunga Blues For Me And You è a metà tra jazz e blues, un pezzo raffinato e suonato con discreta classe, con Oria che duetta con il padre (mostrando che forse la cantante solista del gruppo avrebbe dovuto essere lei) e la solita inappuntabile chitarra. Get Up è ancora funky suonato in maniera impeccabile ma che mostra ancora una volta l’assenza di un vero cantante, mentre con Common Ground siamo di nuovo in territori soul, forse uno dei pezzi più riusciti del CD, Come Back Baby è un blues swingato di ottimo livello (i fiati suonano alla grande), anche se dal punto di vista vocale il paragone con l’originale di Ray Charles è impietoso. Chiudono la roccata e monolitica The Odds Are Good e C.O.D., altro godibile blues ricco di swing e ritmo. Un discreto disco quindi, anche se sono comunque dell’idea che Glenn Alexander possa continuare a dare il meglio di sé come chitarrista per conto terzi.

Marco Verdi