E Pure Questi Sono “Duretti”, Sudisti E Picchiano, Ma Con Costrutto. Black Stone Cherry – Family Tree

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Black Stone Cherry – Family Tree – Mascot Records

I Black Stone Cherry si formano ufficialmente nel giugno del 2001 a Edmonton, Kentucky dall’incontro tra il chitarrista e cantante Chris Robertson e il batterista John Fred Young, un musicista cresciuto a pane e (country) rock, visto che il padre e lo zio di Young, anche loro chitarrista e batterista, erano tra i membri fondatori dei Kentucky Headhunters, storica formazione southern rock statunitense. Occorre dire che prima di approdare all’omonimo esordio discografico, pubblicato solo nel 2006, i BSC hanno fatto la lunga classica gavetta fatta di lunghi tour, culminata con un contratto con la Roadrunner, etichetta specializzata soprattutto in hard-rock e heavy metal nelle sue varie guise, anche alternative ed elementi sudisti carpiti dai Kentucky. Insomma i nostri amici non ci sono mai andati giù molto leggeri con il loro rock, anche se alcune cover disseminate nei vari album indicano la tendenza a buoni ascolti: Shapes Of Things degli Yardbirds, Can’t You See della Marshall Tucker Band, ma anche War di Edwin Starr e Mississippi Queen dei Mountain https://www.youtube.com/watch?v=NXNnYKqxy9g , entrambe presenti su Kentucky, il loro debutto per la Mascot del 2016, segnalano che il gruppo vorrebbe aprire anche altri orizzonti sonori. Poi spesso tra il dire e il fare, come si usa dire, c’è di mezzo il mare, visto che anche questo Family Tree è “duretto” anziché no, e i quattro “ragazzi” nel loro studio Barrick Recording, in quel di Glasgow, Kentucky, amano sempre picchiare di gusto, ma con costrutto.

Ben Wells è un secondo chitarrista di buona sostanza, come pure John Lawhon un bassista solido e centrato, e l’unico ospite presente nel disco, Warren Haynes, indica che la band comincia a godere di una buona reputazione tra i colleghi. Dancin’ In The Rain in effetti sembra un brano di quelli più cattivi dei Gov’t Mule, con la voce maschia e potente di Robertson che duetta con quella di Haynes, mentre un muro di chitarre si eleva massiccio, tra slide, wah e wah e soliste ovunque, secondo i migliori dettami del southern rock più sanguigno. In definitiva i poster dei vari Cream, Led Zeppelin, Uriah Heep, Stones, Montrose e  Faces che Young e soci dicevano di vedere sulle pareti dello spazio prove dei Kentucky Headhunters, alla fine sono serviti a qualcosa. A ben vedere ci sarebbe anche un altro ospite nell’album, il figlio di 5 anni di Robertson, alle “armonie vocali” nella cattiva You Got The Blues, il rock è sempre hard ma ci sono pure sostanza e buone vibrazioni nella musica dei Black Stone Cherry. Come spesso capita sto ascoltando l’album parecchio tempo prima dell’uscita, quindi vado a sensazioni: la band tiene fede al proprio stile fatto di riff granitici, chitarre fumanti e ritmi molto tirati, dal funky-rock bruciante dell’iniziale Bad Habit che profuma di rock anni ’70, con un cambio di tempo a metà brano che rimanda ai Led Zeppelin più ingrifati, mentre le chitarre di Robertson e Wells imperversano con buoni risultati e pure nella successiva Burnin’ non si bada molto alle sottigliezze, non si fanno prigionieri, tra chitarre, chitarre e ancora chitarre, cosa andiamo ad ascoltare è piuttosto chiaro, però c’è anche della classe nell’intermezzo delle twin guitars, siamo di fronte a del sano R&R ben fatto.

 

Con un pianino aggiunto nella saltellante New Kinda Feelin’, qualche tocco iniziale di percussione nell’”antemica” Carry Me On Down The Road, Robertson vocalmente mi ricorda un poco il giovane Jimmy Barnes, mentre la band tira alla grande con le chitarre che si intrecciano nei canali dello stereo; in My Last Breath fa capolino anche un piano elettrico e una slide tangenziale per una hard ballad di eccellente fattura, tra coretti e derive southern per nulla scontate. Southern Fried Friday Night, con un talk box minaccioso che non si sentiva da anni e una grassa atmosfera funky-groove, sa di Black Crowes, alle prese con la oro collezione di Stones, Faces e Zeppelin; Ain’t Nobody di nuovo con slide d’ordinanza in evidenza è ancora southern-rock misto hard, forse già sentito mille volte, ma questo non impedisce di lasciare andare il piedino con goduria https://www.youtube.com/watch?v=gi7nuWlxPwI . James Brown, niente soul nonostante il titolo, è un altro gagliardo esempio del poderoso rock dei BSC, a tutto riff e chitarre ed atmosfere ingrifate, e pure I Need A Woman non apporta molte variazioni al menu, se rock deve essere così sia, alzare il volume a 11 e procedere, come anche nella scandita Get Me Over You, altra ottima occasione per fare dell’air guitar davanti allo specchio, con pose alla Jimmy Page. Inutile dire che pure nella conclusiva Family Tree, con organo Hammond aggiunto, non c’è tregua, ancora rock duro come non ci fosse domani. Ma il disco esce oggi! E con questo concludiamo la giornata del rock.

Bruno Conti

Il Più Grande “Gregario” Della Storia del Rock’n’Roll? Kentucky Headhunters With Johnnie Johnson – Meet Me In Bluesland

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Kentucky Headhunters With Johnnie Johnson – Meet Me In Bluesland – Alligator/Ird

Senza voler essere irrispettosi, con una ardita metafora, mi pare cheultimamente nella musica sia come per il maiale, non si butta via niente. In questa epoca di ristampe e riscoperte clamorose, ogni giorno viene pescata dagli archivi qualche chicca che era rimasta nascosta nelle pieghe del tempo. Nel caso specifico si tratta di una session di tre giorni, registrata nel gennaio del 2003, che univa la famosa formazione southern (e country) dei Kentucky Headhunters con Johnnie Johnson, il leggendario pianista di Chuck Berry. Il tutto venne registrato senza una previsione di pubblicazione immediata, poi nel 2005 Johnnie morì, per cui il progetto fu accantonato e cadde quasi nel dimenticatoio. Ora, in questa epoca dove le case discografiche sono alla perenne ed affannosa ricerca di qualcosa di nuovo (o di vecchio) da (ri)pubblicare, era quasi inevitabile che questi nastri, visto che sono molto buoni, vedessero finalmente la luce. Una vecchia volpe come Bruce Iglauer, il boss della Alligator, non poteva lasciarsi sfuggire questa occasione, considerando anche che il materiale contenuto nell’album è molto vicino alla, chiamiamola, linea editoriale della etichetta di Chicago. Non ci sono classici del blues o del R&R, a parte una gustosa cover di Little Queenie di Chuck Berry, ma il suono è molto vicino a quegli stilemi. D’altronde Johnson ed i Kentucky Headhunters erano spiriti affini, avevano già collaborato per un album, attribuito ad entrambi; That’ll Work, uscito nel 1993 per la Elektra/Nonesuch https://www.youtube.com/watch?v=VT3FPA6_kw8 , la stessa che l’anno prima aveva pubblicato Johnnie B. Bad, il suo esordio per una major, disco dove partecipavano anche Keith Richards, Eric Clapton e gli NRBQ, Stevie Jordan alla batteria e Bernie Worrell alle tastiere https://www.youtube.com/watch?v=ZMcOX2uAzwI .

johnnie johnson johnnie b bad johnnie johnson that'll work

Stranamente, sono andato a verificare, entrambi gli album non erano stati accolti benissimo dalla critica americana, ma il sottoscritto li ricorda come dischi vivaci e pimpanti, certo non dei capolavori. Nel 2003, in occasione di una visita di Johnson ai suoi amici Stones, per un concerto in Texas, era stata organizzata una partecipazione del grande pianista alla registrazione dell’album Soul dei Kentucky Headhunters, poi effettivamente uscito quell’anno https://www.youtube.com/watch?v=MB9ftKMlFQM , ma nell’occasione della registrazione di quel disco ai Barrick Studios di Glasgow (nel Kentucky però) i partecipanti alle sessions avevano deciso di lasciare andare i nastri ed i risultati erano stati poi accantonati (ma non dimenticati) per venire usati in seguito: quando nel 2005, alla comunque rispettabile età di quasi 81 anni, il vecchio pard di Chuck Berry ci lasciò, il progetto rimase lì nel limbo. Ora, con il titolo di Meet Me In Bluesland, abbiamo tra le mani il risultato di quell’incontro, e anche se, nuovamente, non si può parlare di capolavoro, il CD è una solida e riuscita fusione tra le matrici southern e rock dei Kentucky Headhunters e il R&R e il blues dell’uomo di Fairmont, che si conferma uno dei pianisti più versatili e creativi della storia del rock, anche in questa occasione, con le mani che spesso volano sulla tastiera con evidente piacere ed abbandono. I Kentucky Headhunters vengono ancora ricordati soprattutto per il primo album, Pickin’ On Nashville, comunque  nel corso degli anni hanno registrato molti altri album, l’ultimo Dixie Lullabies del 2011, alcuni anche dal vivo, dove hanno confermato questa loro vena di rockers, ma forse il migliore in assoluto, primo escluso, potrebbe essere proprio questo Meet Me In Bluesland.

Si respira una bella aria stonesiana (da sempre grandi ammiratori di Johnson), con brani come l’iniziale Stumblin’ che ricordano anche il sound dei vecchi Faces di Rod Stewart, riff di chitarra alla Keith Richards (o se preferite, alla Chuck Berry), pianino indiavolato e le voci di Doug Phelps e Richard Young che si alternano alla guida dei brani https://www.youtube.com/watch?v=yQhGSPfwbDs , il secondo nei pezzi più blues, come il Chicago sound di Walking With The Wolf, dove la slide tira la volata al solito ispiratissimo piano di Johnson. Little Queenie non ha nulla da invidiare alle versioni di Berry e degli Stones https://www.youtube.com/watch?v=Rj32T1ecj2g , She’s Got To Have It, è una delle rare occasioni per ascoltare il vocione di Johnnie, Party In Heaven è un altro R&R di quelli tosti e cialtroni https://www.youtube.com/watch?v=9B-qymVlYxM . Non manca uno slow blues intenso e ad alta gradazione pianistica come la title-track, ma per il resto del disco prevale il rock di brani divertenti e tirati come King Rooster o il boogie velocissimo della strumentale Fast Train https://www.youtube.com/watch?v=0cJj_HpcJaQ , senza dimenticare il groove pigro e ciondolante di Shufllin’ Back To Memphis https://www.youtube.com/watch?v=zYmr6tCk7Hk  e Sometime, due facce della stessa medaglia. Conclude Superman Blues, un altro gagliardo esempio di blues elettrico, come facevano i grandi musicisti della Chess dei tempi che furono https://www.youtube.com/watch?v=aguwrysWQ84 , e Johnnie Johnson era uno di loro, come disse la rivista Rolling Stone, in uno dei suoi rari momenti di lucidità, “the greatest sideman in rock and roll”!

Bruno Conti