Archivi Inesauribili E Preziosi! Rory Gallagher – Irishman In New York

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Rory Gallagher – Irishman In New York 2 CD S’more Entertainment/Rockbeat Records

Il 14 giugno del 1995 moriva a Londra Rory Gallagher, aveva solo 47 anni, ma la lunga dipendenza dal cocktail tra gli alcolici e le pastiglie sedative che prendeva per superare la paura del volo sviluppata negli ultimi anni, ebbe la meglio sul suo fegato e nonostante un tentativo di trapianto fatto all’ultimo istante, il grande musicista irlandese dovette soccombere alla sua malattia. Fino al gennaio di quell’anno Gallagher aveva continuato a suonare, ma nell’ultimo concerto tenuto in Olanda era visibilmente malato e fu costretto ad interrompere la sua ennesima tournée. Perché in effetti i concerti dal vivo sono sempre stati il fiore all’occhiello di una carriera comunque leggendaria, costellata anche da grandi album di studio ma soprattutto da tantissimi dischi live, alcuni tra i più belli della storia della musica rock (e blues). Non considerato uno dei primissimi chitarristi nelle classifiche di categoria (Rolling Stones nel suo elenco lo pone al 57° posto), Rory godeva comunque della stima incondizionata dei suoi colleghi: Brian May, Bonamassa, Gary Moore, Johnny Marr, per ricordarne alcuni di quelli recenti, lo citavano tra i loro preferiti, mentre leggenda (o verità), non sapremo mai, vuole che Jimi Hendrix incalzato da un giornalista che gli chiedeva come ci si sentisse ad essere il più grande chitarrista del mondo, rispose: “Non lo so, chiedetelo a Rory Gallagher”! E qualcuno a Cork, in Irlanda ha dedicato un enorme murale a questa dichiarazione.

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In ogni caso quest’anno sono già venti anni dalla scomparsa e proseguono le pubblicazioni di materiale d’archivio tratte dalle inesauribili scorte curate dal fratello Donal (ma non solo), che culmineranno a fine agosto con la pubblicazione da parte della Universal di un cofanetto quadruplo I’ll Remember, dedicato alla sua prima band, i Taste, che conterrà gli album originali rimasterizzati nei primi due CD e due dischetti di materiale dal vivo, inedito, registrato a Stoccolma, Londra e al Festival di Woburn Abbey. Nel frattempo, lo scorso anno, è uscito il bellissimo box dedicato al celebre Irish Tour ’74 http://discoclub.myblog.it/2014/09/16/gradita-consistente-sorpresa-rory-gallagher-irish-tour-boxset/, considerato il suo miglior disco dal vivo in assoluto, anche se io preferisco il Live In Europe di due anni prima, ma è una questione di differenze infinitesimali. Comunque dopo la sua morte di album postumi, soprattutto dal vivo, ne sono usciti molti: tra i migliori in assoluto Notes From San Francisco, metà in studio e metà live, il doppio delle BBC Sessions, il Live At Montreux CD + 2 DVD e quello delle Beat Club Sessions che torna agli inizi della sua carriera http://discoclub.myblog.it/2010/10/11/cosi-non-ne-fanno-piu-rory-gallagher-the-beat-club-sessions/ Chi scrive, per fortuna ( o purtroppo, perché il tempo passa) ha avuto la fortuna di vederlo dal vivo ai tempi d’oro, e quindi non posso che confermare le meraviglie che si dicono di questo stupendo e genuino personaggio, camicia a quadrettoni d’ordinanza (comprata all’ingrosso e in quantità a qualche liquidazione dove l’altro cliente era Neil Young), chitarra Fender Stratocaster scrostata, ma dal suono meraviglioso, e una grinta e una potenza quasi paranormali, purtroppo alla fine pagate.

Ora esce questo doppio Irishman In New York, pubblicato dalla Rockbeat americana, che è la testimonianza di un concerto registrato al My Father’s Place il 7 settembre del 1979, nel tour americano a cavallo tra l’uscita di Photo-Finish dell’anno prima (presente con quattro brani) e Top Priority, in uscita dieci giorni dopo, di cui Rory Gallagher presenta in anteprima Keychain. Tra l’altro, curiosamente, come ha ricordato il fratello Donal, l’irlandese considerava come suoi album migliori Defender e Fresh Evidence, forse non perché fossero i più belli (sicuramente non lo erano) ma in quanto ultimi usciti, e il più recente è sempre il migliore per un’artista. Tornando al concerto di New York, formazione in trio, con Gerry McAvoy al basso e Ted McKenna alla batteria ed un repertorio che alterna vecchi classici, materiale più recente e brani meno noti e quindi non è un doppione rispetto ai moltissimi Live in circolazione e poi non dimentichiamo che ogni concerto di Gallagher era un evento, per la passione e la furia chitarristica che il nostro donava sempre al suo pubblico. Tratto da un broadcast radiofonico dell’epoca il sound è ruspante, ma decisamente buono e presente.

Si parte subito fortissimo con Shin Kicker e anche se il CD presenta alcune analogie con il repertorio presente nel disco ufficiale dell’epoca Stage Struck (dove però non erano riportati i classici e la durata era molto più ridotta) è sempre un gran bel sentire. D’altronde se di Grateful Dead, Dylan e Johnny Winter con le loro bootleg series, in tempi recenti Gov’t Mule e Phish, esistono decine di registrazioni Live, non si vede perché non possa essere così anche per Rory Gallagher, che era un vero animale da palcoscenico, non tanto a livello scenografico, quanto a consistenza qualititativa dei suoi spettacoli, ma potremmo citare moltissimi altri artisti di cui esistono concerti, ufficiali e non, in quantità, che non valgono l’opera del nostro. Tornando al concerto, il brano di apertura, tratto da Photo-Finish,  ha una potenza inaudita, con Rory che estrae dalla sua Stratocaster un mare di note e riff, la voce forte e sicura, un misto di classe e rabbia che lo avvicina al Johnny Winter degli esordi, tra R&R e blues, con la solista che rilancia continuamente, in un florilegio di citazioni del grande songbook della chitarra elettrica. The Last Of The Indipendents viene dallo stesso disco e l’intensità non cala di una briciola, anzi, se possibile, la velocità accelera verso ritmi supersonici in questa orgogliosa dichiarazione di intenti verso il mondo della musica, con Rory che inizia a fare i numeri sul manico della sua chitarra, di cui era un vero virtuoso, anche se forse non sembrava vista la violenza sonora che scaturiva da quel piccolo e nervoso ometto (per l’occasione munito anche di giubbetto di jeans, oltre alla immancabile camicia a quadrettoni). Il terzo brano, Keychain, è l’unico estratto del nuovo album in uscita, Top Priority, ma il pubblico gradisce lo stesso, si tratta di un brano più lento ed intenso, un hard blues di quelli tipici di Gallagher, con tanto di assolo acido e contorto, quasi hendrixiano, puro power rock trio, seguito da una potentissima Moonchild, uno dei brani migliori di Calling Card, una vera scarica di adrenalina e anche la riffatissima The Mississippi Sheiks, sempre uno dei brani nuovi dell’epoca, non cede di intensità.

I Wonder Who è il classico slow blues che non può mancare in un concerto di Rory, un brano di Muddy Waters dove Gallagher dimostra la sua perizia di grande bluesman bianco, uno di quelli che conosceva l’argomento come pochi altri in circolazione e qui la chitarra scorre fluida e ricca di feeling e tecnica. con un fantastico lavoro di vibrati e toni. A seguire uno dei brani più noti, quella Tattoo’d Lady che era il titolo di uno dischi più belli della sua discografia, anche nella versione senza pianoforte, un torrente di note e ritmo. Poi c’è l’intermezzo acustico a base di slide guitar, Too Much Alcohol (perché sapeva!), un vecchio brano di J.B. Hutto che coinvolge alla grande il pubblico presente, peccato venga sfumato nel finale, ottima anche l’interpretazione quasi ragtime della divertente e complicata Pistol Slapper Blues. La seconda parte riprende con una tiratissima Shadow Play, sempre tratta da Photo-Finish, altra fucilata rock-blues di grande potenza, con Bought And Sold, tratta da Against The Grain, pezzo presente anche su Stage Struck, dove Gallagher dimostra che era un uomo fatto riff, una inesauribile fabbrica di scariche chitarristiche. Walk On Hot Coals, viene da Blueprint, uno dei dischi migliori di studio, datato 1973, e raramente, la troviamo nei Live di Rory (quella di Irish Tour in effetti è insuperabile), versione poderosa e coinvolgente con quel misto di uso della chitarra tra ritmica e solismo tipico del miglior power blues trio, poi ribadito in uno dei suoi cavalli di battaglia, quella Messin’ With The Kid, che anche se è un classico del blues e del rock, per me rimane sempre legata inscindibilmente alla figura di Gallagher, con la chitarra che infiamma il pubblico presente. I due bis sono Bullfrog Blues, un boogie incredibile e sfrenato, e qui sono indeciso tra la sua versione e quella dei Canned Heat, una bella lotta, ma forse vince quella di Rory e Sea Cruise, che nasce come R&R pianistico di Frankie Ford, e diventa un altro violentissimo attacco alle coronarie del pubblico presente, aggredito da un tornado chitarristico, anche slide, e vocale che conclude in gloria un fantastico concerto https://www.youtube.com/watch?v=B4KfRakagTg !

Bruno Conti

Di Già? Un Altro Nuovo CD! Pat Travers Band – Can Do

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Pat Travers Band – Can Do – Frontiers Records

Per una volta neppure Joe Bonamassa nei suoi momenti di massima prolificità ha potuto fare di meglio. Non ho fatto in tempo a parlarvi del buon Live At the Bamboo Room, un CD+DVD uscito da pochissimo tempo vecchie-glorie-12-pat-travers-live-at-the-bamboo-room.html, che Pat Travers sforna già un nuovo album, questa volta in studio, si chiama Can Do ed esce per la italiana Frontier Records, etichetta che si sta vieppiù specializzando nella pubblicazione di dischi di, come vogliamo chiamarle, vecchie glorie dell’hard rock anglo-americano (quindi Travers come canadese rientra nel target)! Preferite se lo definisco “Classic Rock”? Ok, fatto.

Questo nuovo CD vede riapparire nell’artwork della copertina il classico logo Pat Travers Band che non veniva utilizzato da Crash And Burn del 1980 e il rientro in formazione del vecchio batterista Sandy Gennaro (non commento sul cognome, in fondo Pat ha suonato anche con Carmine Appice, altro noto scandinavo). E in ogni caso, il batterista delle ultime prove, Sean Shannon, è presente nel CD come percussionista aggiunto, nonché come co-produttore ed ingegnere del suono. Per il resto non ci sono significative variazioni da quanto detto sul recente Live: forse il precedente disco in studio era più “interessante”, in quanto Blues On Fire rivisitava vecchi classici del blues delle origini, nel classico stile power hard-rock blues di Travers. Questa volta sono brani originali, con un paio di cover, ma il risultato, non cambia, il genere è quello: o vi piace questa miscela “forte” e non per palati finissimi, molto anni ’70, ispirata dall’hard rock quanto da Hendrix, oppure potete passare ad altro. Rispetto ad altre formazioni triangolari che eccellono in questo campo, la band di Pat Travers ha dalla sua l’utilizzo di un secondo solista, il capace Kirk McKim che consente questo sound delle twin lead guitars spesso usate all’unisono, che ha antenati illustri in Allman Brothers, Wishbone Ash e in campo più hard in formazioni come i Thin Lizzy, ma le coordinate sonore sono un po’ quelle, Viiiulenza e vai!

Voce “cattiva, sezione ritmica picchiata e le twin guitars in evidenza, sin dalla title-track posta in apertura di disco, la formula è abbastanza ovvia. Se siete ancora qui, proseguo con una veloce disamina dell’album. Stand Up/Get Up con wah-wah innestato è più funky ed hendrixiana (anche se l’originale è un’altra cosa, ovviamente), Diamond Girl è più melodica e vagamente weast-coastiana, As Long As I’m with you, più riffata e mid-tempo, ha degli inserti slide ma è sempre picchiata di brutto. Con Long Time Gone, veloce e tirata, siamo di nuovo a quel classico suono hard anni ’70 della Pat Travers band originale mentre lo slow, nuovamente melodico, Wanted (This Was Then/This Is Now), con la chitarra “lavorata” di volumi e pedali, dimostra che comunque il nostro amico ha una buona tecnica da accoppiare alla consueta grinta. Armed And Dangerous di nuovo funky e con slide si ispira ai suoni southern di Orlando, Florida dove il disco è stato registrato, niente di memorabile per la verità, chitarre a parte, che è peraltro il motivo per cui si compra un disco come questo.

La cover di Here Comes The Rain Again degli Eurhytmics con la moglie di Travers, Monica alle armonie vocali, e a ritmi reggae-rock, sulla carta è una tavanata, e anche all’atto pratico. Lo strumentale Keep calm and carry on ancora con le twin lead guitars in evidenza è meglio ma non di molto e la cover di Dust and Bone, presente nell’ultimo disco di Gretchen Wilson, mi fa “accapponare i capelli”, sembra una brutta copia degli ultimi Guns’n’Roses, che già non sono il massimo. Non male Waitin’ On The End Of  Time che risolleva un po’ le sorti declinanti dell’album e decisamente buona una Red Neck Boogie che ricorda le cose migliori del compianto Alvin Lee, con tanto di pianino boogie e meriterebbe futuri approfondimenti. Peccato che non ci siano più le mezze stagioni e neppure le mezze stellette, perché in effetti, per i non aficionados del genere, il disco non meriterebbe più di due stellette e mezzo!

Bruno Conti

Un Onesto Epigono Hendrixiano. Chris Duarte Group – Infinite Energy

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Chris Duarte Group – Infinite Energy – Blues Bureau/Provogue/Edel

Devo dire che il precedente disco di Chris Duarte, 396 quello con il gruppo giapponese Bluestone mi era piaciuto ma non mi aveva entusiasmato. Meglio mi era sembrato Something Old, Something New, Something Borrowed quell’antologia con inediti pubblicata sempre lo scorso anno dove si potevano ascoltare alcuni brani veramente notevoli. Il suo album migliore, come spesso accade (quasi sempre) rimane il primo, quel Texas Sugar, Strat Magick che già dal titolo era una dichiarazione di intenti e lo indicava come uno dei tanti pretendenti alla successione di Stevie Ray Vaughan. A giudicare da quel disco l’avrebbe anche meritata poi nel prosieguo della carriera non sempre ha confermato le premesse ma i suoi dischi sono sempre rimasti più che soddisfacenti sia per gli amanti del rock-blues che per quelli della chitarra.

Questo Infinite Energy ce lo restituisce nei territori power trio che tanto gli erano cari e nello stesso tempo è un chiaro omaggio alla musica di Jimi Hendrix nel 40° Anniversario della sua scomparsa.
Sin dall’iniziale Ridin’ i riff hendrixiani e il multi-tracking delle chitarre imperano con risultati, derivativi quanto volete, ma più che soddisfacenti. SRV è l’altro suo modello e City Life Blues è un composito dello stile di Jimi e Stevie Ray Vaughan, con la voce strangolata e non fenomenale di Chris Duarte che ricorda vagamente quella del texano, mentre la chitarra viaggia fluida e veloce in una serie di assoli che ricordano l’heavy blues dei due soggetti citati ma dimostrano anche la tecnica sopraffina del nostro amico.

Cross my heart tra jazz, rock e elementi latineggianti è più agile e ricercata e ricorda vagamente qualcosa del primo Peter Green, anche vocalmente. Waiting on you è il brano più “radiofonico” del lotto e non mi sembra brillare per qualità, solito assolo pungente a parte.

Sundown Blues con quel riff di chitarra ascendente è tipicamente hendrixiana, Matt Stallard al basso e Chris Burroughs alla batteria fanno (molto bene) gli Experience della situazione e Duarte è libero di improvvisare una serie di assoli free-form che ricordano il Jimi più sperimentale. Cold Cold Day è uno dei brani strumentali di questo CD e muovendosi su una ritmica jazzata spazia tra il blues futuribile e psichedelico della parte iniziale e il finale più jazzato che ricorda certe sonorità alla John McLaughlin, non male.

Poi, improvvisamente, quando meno te lo aspetti parte un brano come My Heart don’t Want To Let you go, una ballata che sembra un pezzo dei Bad English e sinceramente non si capisce cosa c’entri con il resto del disco. Mah, mistero! Però ci sarà qualcuno a cui piace.
Poi Chris Duarte si redime subito con un brano Killing Time che ricorda vagamente certe cose di heavy-blues-rock alla Gov’T Mule con una chitarra dirompente alla Led Zeppelin. Purple Gloaming è un discreto blues-rock midtempo claptoniano con un cantato che ricorda alla lontana Jack Bruce (ma la voce purtroppo è un’altra), quindi Cream in definitiva, i grandi rivali di Hendrix. Me All Me, molto riffata è fin troppo scontata e di maniera e abbassa il livello dell’album mentre la conclusiva Hamra St. uno strumentale dalle atmosfere orientaleggianti conclude su una nota più che positiva questo disco dalla qualità altalenante ma in definitiva soddisfacente. Per amanti della chitarra in tutte le sue forme.

Bruno Conti