Sarà Anche “Illegale”, Ma Musicalmente E’ Una Goduria! Ry Cooder & The Moula Banda Rhythm Aces – Santa Cruz

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Ry Cooder & The Moula Banda Rhythm Aces – Santa Cruz – Leftfield Media CD

Ho già avuto modo di scrivere in passato che non sono mai stato un grande fan dei CD dal vivo tratti da broadcast radiofonici, in quanto fanno parte di una pratica semi-legale per le leggi europee, ma in definitiva trattasi di bootleg. Qualche strappo lo faccio anche io, sia per musicisti che prediligo in maniera particolare (soprattutto Bob Dylan e Tom Petty – il cui triplo CD San Francisco Serenades era qualcosa di formidabile https://discoclub.myblog.it/2018/01/07/supplemento-della-domenica-il-piu-bel-disco-dal-vivo-dello-scorso-anno-anche-se-non-e-ufficiale-ed-e-registrato-nel-1997-tom-petty-and-the-heartbreakers-san-francisco-serenades/  – dato che Springsteen, Stones e Grateful Dead ci pensano già loro ad inondarci di live d’archivio ufficiali), sia per altri la cui discografia dal vivo “legale” è piuttosto lacunosa. Tra gli appartenenti alla seconda categoria c’è sicuramente il grande Ry Cooder, uno dei migliori musicisti a 360 gradi in circolazione da ormai 50 anni: buon cantante, eccezionale chitarrista, ma anche fantastico esploratore musicale e uomo di smisurata cultura.

Il CD di cui mi occupo oggi è tratto da un concerto tenuto dall’artista californiano al Catalyst di Santa Cruz il 25 Marzo del 1987, durante un breve tour non in supporto di Get Rhytym (che sarà il suo ultimo disco “rock” fino a Chavez Ravine del 2005), che uscirà a Novembre, ma con alle spalle gli stessi musicisti che ritroveremo poi sull’album, un combo ribattezzato The Moula Banda Rhythm Aces. E stiamo parlando di un gruppo formidabile, composto da nomi da leccarsi i baffi solo a leggerli: Jim Keltner alla batteria, Van Dyke Parks alle tastiere (purtroppo spesso elettroniche), Steve Douglas al sax, Jorge Calderon al basso, Miguel Cruz alle percussioni, Flaco Jimenez alla fisarmonica, George Bohannon al trombone ed un coro maschile formato da Terry Evans, Bobby King, Arnold McCuller e Willie Greene Jr. (con Evans e King che saltuariamente si occupano anche delle parti soliste). Un gruppo perfetto per Cooder e per la sua passione per mescolare stili e sonorità differenti: la base è rock, ma non manca certo il blues (grande passione di Ry), mentre la quota tex-mex è garantita da Flaco ed il quartetto di voci sposta il suono verso lidi più spiccatamente soul-gospel-errebi. Ed il CD, che dura ben 81 minuti (smentendo quindi il fatto che sia obbligatorio stare sotto gli 80), è davvero splendido, con il nostro che ci regala dodici performances di livello elevatissimo, passando con disinvoltura da un genere all’altro e rivelando un’intesa perfetta con la band stellare che lo accompagna:

In più, la qualità dell’incisione è eccellente (*NDB Era un famoso filmato per la televisione americana), anche meglio di tanti live ufficiali. Il concerto parte con Let’s Have A Ball (originariamente incisa dai Wheels, un oscuro gruppo degli anni cinquanta da non confondersi con gli omonimi irlandesi dei sixties), unico pezzo tratto dall’allora imminente Get Rhythm e perfetto per scaldare i motori: ritmo spezzettato e botta e risposta vocale tra Ry ed i quattro “black singers” per un blues decisamente sanguigno, con il nostro che dà inizio alla sua strepitosa prestazione come chitarrista slide, uno spettacolo nello spettacolo (ed anche Flaco si ritaglia un breve intervento, molto acclamato). Il classico gospel Jesus On The Mainline è sempre stato un brano centrale nei concerti di Cooder ed anche qui non si smentisce: puro gospel-rock, caldo e profondo, con un bell’assolo di trombone e la solita slide graffiante (e purtroppo anche l’uso del synth, un pegno da pagare dato che si era in pieni anni ottanta: in quel periodo anche una band “pura” come i Grateful Dead faceva abbondante uso di tali sonorità). Il primo highlight è una versione di nove minuti del classico folk della Grande Depressione How Can A Poor Man Stand Such Times And Live, rilettura da pelle d’oca, lenta, toccante, malinconica, cantata con il cuore in mano, un sottofondo perfetto del coro ed un assolo davvero fenomenale da parte di Cooder.

La breve Jesus Hits Like An Atom Bomb (del cantante e conduttore radiofonico nei fifties Lowell Blanchard) è un coinvolgente gospel a cappella, in cui Ry ed il quartetto la fanno da padroni, ed è seguita da altri due pezzi da novanta: Down In Mississippi (J.B. Lenoir), un bluesaccio sporco, annerito ed appiccicaticcio, con la slide che mena fendenti a destra e a manca (mannaggia a quel synth!), ed una versione strumentale di Maria Elena, deliziosa ballata popolare messicana degli anni trenta, vero showcase per Flaco e con Cooder che si sposta al bajo sexto. La scura ed annerita Just A Little Bit, una canzone degli anni cinquanta tra errebi e blues (l’ha incisa anche Elvis), precede altri due brani da sette minuti l’uno, cioè la trascinante ed elettrica The Very Thing That Makes You Rich di Sidney Bailey, sontuoso rock-blues con Ry che fa i numeri (ed il pubblico approva convinto) ed il vibrante rock’n’roll tinto di gospel Crazy ‘Bout An Automobile (Billy “The Kid” Emerson), altro classico nelle esibizioni del nostro. Una splendida e solare versione della famosa Chain Gang di Sam Cooke, con sonorità quasi caraibiche, prelude al finale del concerto con una monumentale Down In Hollywood (unico pezzo scritto da Ry tra quelli eseguiti), ben 16 minuti ad altissima temperatura tra funky, rock ed errebi con improvvisazioni degne di Frank Zappa ed una lunga presentazione dei membri della band durante la quale ognuno si ritaglia un piccolo assolo, e con una favolosa Goodinight Irene (Leadbelly, of course) davvero struggente, degna conclusione di una serata splendida.

So che le vostre tasche sono già provate dalle tante uscite discografiche “ufficiali”, ma per questo Santa Cruz vale la pena fare un’eccezione.

Marco Verdi

Lo Springsteen Della Domenica: Bello Giocare In Casa! Bruce Springsteen – Meadowlands July 25, 1992

bruce springsteen live meadowlands 1992

Bruce Springsteen – Meadowlands July 25, 1992 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 3CD – Download

Nuovo episodio degli archivi live di Bruce Springsteen e secondo show tratto dal tour di Human Touch e Lucky Town dopo quello splendido di East Rutherford del 1993. La location è la medesima (la Meadowlands Arena e la Brendan Byrne Arena sono due modi di chiamare lo stesso posto, come Stadio Giuseppe Meazza e San Siro), quindi siamo a poche miglia da casa di Bruce, ma se nel precedente concerto si era alle battute finali del tour, qui siamo appena alla seconda data (che è anche la seconda di ben undici consecutive nella cittadina del New Jersey). Quella tournée divenne famosa in quanto era la prima volta che il Boss si presentava senza la E Street Band, ma con un gruppo di buoni musicisti ribattezzati in modo un po’ spregiativo The Other Band: il chitarrista e direttore musicale era Shane Fontayne, la sezione ritmica era nella mani del bassista Tommy Sims e del batterista Zach Alford, poi c’era Crystal Taliefero che faceva un po’ di tutto tra cantare, ballare, suonare la chitarra ed il sassofono ed un gruppo di ottimi backing vocalists tra i quali spiccavano Bobby King (per anni con Ry Cooder) e Carol Dennis, all’epoca seconda moglie di Bob Dylan.

La quota E Street era rappresentata da Roy Bittan, grandissimo pianista al quale evidentemente Bruce non riusciva a rinunciare e che attenuava in parte lo shock di sentire il Boss con un suono diverso e meno esplosivo. Il triplo CD in questione è decisamente buono, in alcune parti ottimo, con Bruce che canta alla grande durante tutte le tre ore abbondanti senza neanche una sbavatura, anche se in certi momenti si sente che la band è ancora in rodaggio e non ancora pienamente “dentro” alle canzoni del nostro come sarà a fine tour (ed il live del 1993 testimonia questa differenza): stiamo parlando comunque di un gruppo superiore alla maggior parte delle rock’n’roll band in circolazione, ed il concerto risulta quindi molto godibile. L’apertura dello show, con tre dei brani migliori dei due album all’epoca usciti in contemporanea (Better Days, Local Hero e Lucky Town), è più che buona, poi la serata entra nel vivo con una superba Darkness On The Edge Of Town, nella quale si capisce perché Bittan sia indispensabile, ed una travolgente Open All Night con Bruce che inizia da solo e termina con un irresistibile coda full band a tutto rock’n’roll.

Ci sono ovviamente parecchi estratti dai due album pubblicati da pochi giorni, con l’inspiegabile eccezione di Human Touch: alcune canzoni sono ottime (la struggente ballata If I Should Fall Behind, il trascinante gospel-rock Leap Of Faith), altre buone (il coinvolgente rock’n’roll All Or Nothin’ At All, la grintosa Living Proof), qualcuna normale (Roll Of The Dice, Man’s Job) e non mancano neanche un paio di passi falsi (la brutta 57 Channels (And Nothin’ On) e l’insulsa Real Man, con un synth invadente). Nella prima parte dello show ci sono solo un paio di classici (Badlands e The River), ma troviamo anche i due pezzi migliori di Tunnel Of Love (Brilliant Disguise e la spettacolare Tougher Than The Rest, entrambe cantate con la moglie Patti Scialfa) ed una rara rilettura del brano di Wilson Pickett Ninety-Nine And A Half (Won’t Do), vero e proprio showcase per il gruppo di coristi. Finale spumeggiante con vari brani tratti da Born In The USA (la title track, che forse è quella che risente di più dell’assenza degli E Streeters, Working On The Highway, una torrenziale Glory Days e Bobby Jean), le superclassiche Hungry Heart, Thunder Road (acustica) e Born To Run e la chiusura con la toccante My Beautiful Reward.

Nel prossimo volume vedremo Bruce ancora a East Rutherford, ma stavolta con un balzo in avanti di ben vent’anni.

Marco Verdi

Chitarristi Slide (E Non Solo) Di Tutto Il Mondo Esultate, E’ Tornato Il “Maestro”. Ry Cooder – Prodigal Son

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Ry Cooder – The Prodigal Son – Fantasy/Caroline/Universal

Sicuramente uno dei dischi più belli usciti in questo ultimo scorcio di tempo, e che si candida già fin d’ora ad essere tra i migliori dell’anno, è il nuovo album di Ry Cooder The Prodigal Son. A ben guardare non è che il nostro amico Ryland se ne fosse mai proprio andato, ma dopo i due dischi Election Special del 2012 e il Live In San Francisco dell’anno successivo, se ne era rimasto tranquillo per qualche anno. Poi, stimolato anche dal figlio Joachim che da qualche tempo gli proponeva costantemente di fare un disco che ritornasse alle sonorità dei vecchi dischi classici degli anni ’70, ha deciso di incidere questo The Prodigal Son che, partendo da una base gospel, andasse a toccare tutte le tematiche sonore care a quei dischi, peraltro mai del tutto abbandonate nel corso della sua carriera. La classe del chitarrista californiano non è che si scopra oggi, ma il nuovo album indubbiamente aiuta in modo deciso a rinverdirla, attraverso una serie di canzoni pescate dal grande repertorio storico della musica americana: gospel si diceva, ma anche blues, se vogliamo non manca neppure il rock,  come attitudine, per quanto coniugato in uno stile scarno ed asciutto, senza il rischio comunque di cadere mai nel didattico o nel didascalico, in quanto Cooder, oltre che musicologo sopraffino, è anche un musicista dal gusto e dalla tecnica superbe, e Joachim come percussionista si avvia a non essergli da meno. In più, rispetto ai primi dischi che vengono posti come pietre di paragone all’attuale, Ry Cooder, Into Purple Valley Boomer’s Story, c’è la presenza in molti brani dei tre vocalist di colore, Bobby King, arrivato solo nel 1974, Terry Evans dal 1976 (e che qui fa la sua ultima apparizione, visto che è scomparso poco dopo la registrazione del disco) e Arnold McCuller, che se non ricordo male apparve per la prima volta su Crossroads del 1986.

Il risultato si diceva è strepitoso, il repertorio del passato serve per tracciare un parallelo con quello che succede nel mondo del presente, con una serie di rimandi ed aggiornamenti, non solo musicali, nonché con l’aggiunta di tre brani scritti da Cooder per l’occasione: il tutto porto con il consueto garbo, una voce che sembra non risentire dello scorrere del tempo, anzi si è fatta più forte e sicura, e la riconosciuta maestria alla chitarra, soprattutto nell’uso del bottleneck, che lo rende uno dei massimi virtuosi di sempre della tecnica slide. Otto canzoni scelte con la consueta certosina abilità e pazienza nel cercare piccoli tesori perduti della tradizione: si parte proprio con uno di questi brani, Straight Street, un gospel ripescato dal repertorio dei Pilgrim Travelers, e che mette subito in evidenza che il suono è sì scarno, ma non minimale, Ry canta con voce suadente, suona anche il mandolino, il banjo. chitarre acustiche e il basso (e altrove nel disco anche le tastiere all’occorrenza), le tre voci di supporto aggiungono una patina molto soul e tocchi caraibici ai tratti religiosi del gospel originale, la canzone è splendida, il suono è elettrico e non paludato, una piccola delizia tanto per iniziare.

Shrinking Man è il primo dei tre brani originali a firma Cooder, introdotto da un florilegio di leggere percussioni suonate da Joachim, assume subito la classica andatura ondeggiante dei suoi brani migliori, tra rock, soul, blues e qualche tocco country, con le chitarre, soprattutto la slide, a marcarne una frizzante leggerezza che predispone al buon umore; e anche Gentrification mantiene elevato il livello qualitativo dei suoi contributi dell’album, solita introduzione interlocutoria delle percussioni, poi domina il ritmo in una canzone dal testo amaro ma dalla esecuzione sonora vivace che prende corpo nel leggero ma inesauribile crescendo della classiche canzone cooderiane, con mille soluzioni sonore ad impreziosirne la struttura sonora.

Non è la prima volta che Ry Cooder affronta il repertorio di Blind Willie Johnson, pensate alla splendida Dark Was The Night (spedita anche nello spazio sul Voyager), che era su Paris, Texas, ma veniva eseguita dal vivo sin dai primi anni ’70, per l’occasione tocca a Everybody Ought To Treat A Stranger Right, trasformato in un infuocato R&B dove la slide di Cooder stampa un assolo da urlo, mentre i tre “negroni” ci danno dentro alla grande nel reparto vocale. La title track Prodigal Son è un brano tradizionale attribuito al Rev. Robert Wilkins, altra canzone degli anni ’20 che assume una forma sonora moderna, un solido rock-blues che rimanda addirittura al Cooder del periodo Bop Till You Drop e Slide Area, tra le consuete evoluzioni vocali dei tre ospiti e la chitarra splendida di Ry che rende omaggio al grande Ralph Mooney, uno dei maestri della steel guitar del Bakersville sound nella country music, pezzo dove più che solo due musicisti sembra di ascoltare una band al completo, tanto il suono è corposo.

Il secondo brano di Blind Willie Johnson presente in questo CD è forse una delle composizioni più celebri del bluesman degli anni ’20, quella Nobody’s Fault But Mine di cui esistono decine di versioni, e questa di Cooder è comunque una delle più affascinanti, tra atmosfere sospese, un abbrivio che ricorda quasi le sonorità dei dischi di Jon Hassell ed un approccio molto sofferto, vicino anche al sound del Paris, Texas citato poc’anzi, qui il gospel si fa più rigoroso e meno “modernizzato”, per quanto sempre ricco di una sottile seduzione, oltre sei minuti di grande musica. Un altro “cliente” abituale del passato del musicista di San Francisco è stato indubbiamente Blind Alfred Reed, di cui ha realizzato una versione quasi definitiva della splendida How Can a Poor Man Stand Such Times and Live?, ebbene You Must Unload ci si avvicina molto, un vero e proprio inno mistico in origine, ma che nella versione attuale, l’unica dove appaiono anche Robert Francis al basso e Aubrey Haynie al violino, assume sonorità idilliache e sognanti, con tocchi folk celtici misti ad un gospel quasi romantico, insomma un’altra piccola meraviglia, cantata splendidamente da Ry.

Altro autore cieco d’epoca è il meno noto Blind Roosevelt Graves, di cui il musicologo Cooder va a ripescare l’oscura, ma bellissima, I’ll Be Rested When The Roll Is Called, di nuovo con le voci splendide di King, Evans e McCuller a testimoniare le glorie del Signore, con mandolino, banjo e rullante a giocare con le voci in modo gioioso. Harbour Of Love viene dal patrimonio degli Stanley Brothers, un gruppo bianco che era in grado di coniugare il country con la musica nera gospel, come testimonia questo delicato brano tra folk e country, tra florilegi di strumenti acustici e una pedal steel che “piange” sullo sfondo, mentre una sottile malinconia si impadronisce dell’ascoltatore. Anche Jesus And Woody, l’ultimo brano scritto da Ry Cooder per l’occasione, una dolce amara meditazione sui tempi che viviamo, in un dialogo immaginario tra Gesù e Woody Guthrie, ha uno spirito più raccolto, acustico, una sorta di poemetto che mette a confronto religione e dottrina politica e sociale con affetto e rispetto. Rimane la conclusiva In His Care, che porta la firma di William D. Dawson, ma era tra i cavalli di battaglia di Sister Rosetta Tharpe, una delle reginette assolute della musica gospel americana: altro brano energico e grintoso, con chitarre, voci e percussioni che si mescolano con classe e fervore, sempre con l’impronta inconfondibile di Cooder che per non farci mancare nulla ci regala un ultimo assolo di slide guitar che conclude la sua parabola sonora sul Figliol Prodigo.

Bruno Conti

Lo Springsteen Della Domenica: Un Live Bellissimo, Anche Se Con “L’Altra Band”! Bruce Springsteen – Brendan Byrne Arena, New Jersey June 24, 1993

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Bruce Springsteen – Brendan Byrne Arena, New Jersey June 24, 1993 – live.brucespringsteen.net/nugs.net 4CD – Download

Quando alla fine degli anni ottanta Bruce Springsteen sciolse la E Street Band alla ricerca di nuovi stimoli, furono ben poche le voci di approvazione, e lo sconforto tra i fans si ingigantì quando nel 1992 il Boss pubblicò ben due album con il suo nuovo gruppo, Human Touch e Lucky Town, due dischi dove non mancavano le grandi canzoni, ma neppure diversi riempitivi (sono tuttora del parere che, scegliendo gli episodi migliori, avremmo avuto comunque un ottimo album singolo) e soprattutto con un suono piuttosto nella media, senza quel marchio di fabbrica e quella personalità tipici della sua vecchia band. Le critiche continuarono anche nel successivo tour, con “The Other Band”, come l’avevano soprannominata non senza una punta di disprezzo i fans, che raramente riusciva a catturare la magia degli show leggendari di Bruce, critiche avvalorate dall’album live pubblicato all’epoca, Plugged, decisamente poco riuscito. Questo nuovo episodio degli archivi live di Springsteen, che per brevità chiamerò Live 1993, è però un’altra storia: registrato a pochi passi da casa, alla Brendan Byrne Arena a East Rutherford, nel New Jersey (già teatro di un precedente live della serie, inciso nel 1984), ci fa ritrovare il Boss migliore, ispirato, coinvolgente ed in strepitosa forma vocale, alle prese tra l’altro con una setlist decisamente interessante ed una serie di ospiti a sorpresa che rendono più succulento il piatto.

E poi i musicisti che lo accompagnano, anche se non valgono neanche la metà degli E Streeters, non sono certo scarsi: Shane Fontayne alla chitarra elettrica, Tommy Sims al basso, Zack Alford alla batteria, Crystal Taliefero alla voce e chitarra (unico elemento forse abbastanza inutile), ed una bella serie di backing vocalists, tra cui spiccano Bobby King, per anni con Ry Cooder, e Carol Dennis, ex corista nonché seconda moglie di Bob Dylan. E, last but not least, Roy Bittan alle tastiere, un elemento imprescindibile per il suono del nostro, che evidentemente non se l’è sentita di lasciarlo a casa insieme agli altri ex compagni. Il concerto inizia in maniera intima, con un’intensa versione quasi a cappella (c’è solo una leggera tastiera in sottofondo) del classico di Woody Guthrie I Ain’t Got No Home, in cui Bruce divide le lead vocals con i suoi coristi e con il primo ospite della serata, Joe Ely (pelle d’oca quando tocca a lui). Poi abbiamo un mini-set acustico in cui Bruce propone una splendida e folkeggiante Seeds (quasi irriconoscibile), suonata con grande forza, una Adam Raised A Cain bluesata e completamente reinventata, e l’allora inedita This Hard Land, già bellissima e con una suggestiva fisarmonica. Da qui in poi parte lo show elettrico vero e proprio, con un’alternanza tra canzoni nuove e classici, per una scaletta davvero molto stimolante: i due nuovi album vengono rappresentati dagli episodi migliori (Better Days, la meravigliosa Lucky Town, un capolavoro, il trascinante gospel-rock Leap Of Faith, la potente Living Proof), da quelli più normali (Human Touch, Man’s Job, la dura Souls Of The Departed, che però dal vivo ha un tiro mica male), e purtroppo anche da quelli meno riusciti, come la pessima 57 Channels (And Nothin’ On), una porcheria che all’epoca il nostro ebbe il coraggio di fare uscire anche come singolo.

Poi ci sono gli evergreen, nei quali il gruppo fa il massimo per non far rimpiangere la E Street Band: da citare una splendida Atlantic City elettrica, le sempre trascinanti Badlands e Because The Night, la commovente The River, oltre all’inattesa Does This Bus Stop At 82nd Street? ed una struggente My Hometown, anche meglio dell’originale (mentre Born In The U.S.A. ha stranamente poco mordente, ed impallidisce di fronte a quella nota, che pure aveva un suono un po’ sopra le righe). Non mancano di certo le chicche, come un’intensa Satan’s Jewel Crown, un country-gospel reso popolare da Emmylou Harris (era in Elite Hotel), una solida Who’ll Stop The Rain dei Creedence, e soprattutto la strepitosa Settle For Love di Joe Ely, una delle signature songs del texano (che ha l’onore di cantare senza l’aiuto del Boss, che si limita a fargli da chitarrista), un pezzo che se fosse stato scritto nei primi anni settanta sarebbe entrato di diritto tra i classici rock di sempre. Il quarto CD (questo è l’unico live quadruplo della serie insieme al quello di Helsinki 2012) è una vera e propria festa nella festa, in quanto, dopo una toccante Thunder Road acustica, Bruce viene raggiunto, oltre che dalla moglie Patti Scialfa ed ancora da Ely, dai vecchi compagni Little Steven, Clarence Clemons e Max Weinberg, dalla futura E Streeter Soozie Tyrell, dai Miami Horns e, dulcis in fundo, dal grande compaesano Southside Johnny, che giganteggia da par suo nella travolgente It’s Been A Long Time (strepitosa), nella suggestiva Blowin’ Down This Road (ancora dal repertorio di Guthrie), e nel gran finale, con due classici di Sam Cooke, due irresistibili versioni di Having A Party e It’s All Right, inframezzate da una vibrante rilettura della Jersey Girl di Tom Waits. Confermo che sciogliere la E Street Band fu un grosso errore da parte di Bruce Springsteen, ma in questo Live 1993 c’è comunque un sacco di grande musica, che se non altro rivaluta in parte un periodo controverso della carriera del nostro.

Marco Verdi